LEGGENDO MANZONI LE TRAGEDIE: I CORI DELLE TRAGEDIE

 

INTRODUZIONE: Il limite delle tragedie manzoniane

È opinione diffusa che le tragedie manzoniane siano sperimentazioni ne-cessarie per arrivare poi a risultati migliori. In effetti lo scrittore successivamente si dedica ad altro, individuando il suo campo d’azione. Con le tragedie noi siamo in presenza di lavori che non ebbero seguito, anche perché non ebbero successo. E questo non dipende solo della buona accoglienza al momento della loro apparizione in pubblico con la messa in scena delle opere, come se il successo venisse conferito dal fatto che a teatro ci fossero molti spettatori e questi tutti entusiasti nell’assistere alle scene; il ripensamento dello scrittore circa questo genere letterario fu determinato anche dal fatto che la critica ebbe subito delle valutazioni non punto lusinghiere, e lo stesso scrittore, per quanto cercasse di spiegarsi, dovette riconoscere il limite dei suoi lavori. Tuttavia noi oggi possiamo considerare queste opere come assolutamente necessarie nel percorso che Manzoni compie per giungere al suo capolavoro: esso ebbe pure una gestazione prolungata nel tempo. Non era in discussione la storia, come racconto di eventi, ma come concezione da avere per far meglio comprendere il senso degli eventi in relazione alle grandi questioni che si ponevano e che si cercava di affrontare nel dibattito politico e culturale, presente in quegli anni. La critica di fondo, quella più lucidamente sottolineata, compare tempo dopo con le lezioni napoletane di De Sanctis, già più volte citate. Costui rileva che “nella sua tragedia l’azione è chiusa in un atto solo, e il rimanente sono discorsi. Questo è il lato difettivo della tragedia”. (De Sanctis, p. 211) Sta parlando del “Carmagnola”. La tragedia viene di fatto resa esplicita a partire dai discorsi contrapposti dei due personaggi, che sono quelli di pura invenzione e che l’autore inserisce perché essi possono rappresentare al meglio le due visioni diverse e contrastanti che sono all’origine della tragedia. 

Così facendo però l’autore si contraddice, perché la storia rimane sullo sfondo, come pure rimangono indeboliti i personaggi principali e così il fatto storico, come De Sanctis sottolinea, viene falsificato.  

I cori come momenti riflessivi sulla situazione politica

Ciò che si salva, ben oltre dunque i “discorsi”, che non sono i fatti, sono i momenti “patetici”, come li definisce il critico napoletano, prendendo spunto nella sua riflessione su ciò che ha scritto Goethe.

Due sono in questa i momenti patetici: il coro e la catastrofe, la morte di Carmagnola … In questa tragedia son prima due atti, i quali scorrono tranquilli, senza alcun movimento che possa aver somiglianza coll’emozione, e servono a preparare lo scoppio ultimo, il coro. (De Sanctis, p. 214)

Ecco, il coro rappresenta il momento, dunque, emozionante, perché lì si possono trovare i sentimenti, più che le riflessioni, proprie dei discorsi affidati ai personaggi. E così nel coro, dove solitamente si mettevano le riflessioni dell’autore, con cui egli si prendeva una pausa meditativa da affidare agli spettatori, perché si rendessero conto di ciò che era in gioco sulla scena, noi troviamo il caricarsi delle emozioni. In effetti, anche per l’andatura del verso e delle strofe, nel caso di questo coro, si ha come un montare dei sentimenti che vorrebbero rendere partecipi i lettori o gli spettatori, i quali dalla situazione storica descritta dovrebbero essere condotti alla realtà del proprio tempo.

Ora, la tragedia rappresenta fatti del secolo decimo quinto e questi fatti debbono essere messi innanzi al popolo italiano del 1816. Poiché la tragedia pubblicata nel 1820, fu concepita in quell’anno. Quegli avvenimenti si presentano all’immaginazione di un uomo che viveva nel 1816. (De Sanctis, p. 215)

Che cosa c’era, dunque, sull’orizzonte? Niente di speciale, niente di nuovo rispetto a ciò che i libri di storia si diffondono a spiegare circa il 1815, l’anno del Congresso di Vienna, con cui finalmente si dà pace all’Europa che era stata percorsa dall’astro napoleonico, ormai definitivamente tramontato. Era dunque un anno in cui la Restaurazione dominava e il conservatorismo più chiuso imperava. Ma in realtà la cenere dell’incendio, appiccato dalla Rivoluzione e dalla campagna napoleonica, continuava a covare in attesa di tempi migliori; e soprattutto, laddove le menti più illuminate avevano alimentato le nuove idee, si cercava di riattizzare il fuoco, senza comunque trovare quegli appoggi che invece si avvertiranno decenni più avanti. De Sanctis, proprio nel periodo successivo, quando i disegni risorgimentali maturano, arriva a sottolineare che in quegli anni si respirava in Europa, anche se solo in alcuni circoli intellettuali, quel tipo di nazionalismo, che avrà fortuna solo anni dopo nella realizzazione di Stati nazionali. Questo fenomeno è una eredità della campagna napoleonica, perché i diversi popoli “liberati” dall’ancien regime grazie al nuovo “verbo” rivoluzionario di libertà, fraternità ed uguaglianza, si erano però ribellati in presenza delle armate napoleoniche, dando di fatto un appoggio agli Imperi nel restaurare il vecchio sistema.

Il 1816 fu una data solenne nella storia d’Europa e soprattutto d’Italia … Come mai in mezzo a un movimento fondato sulla libertà e l’eguaglianza di tutti gli uomini dirimpetto alla teocrazia e alla distinzione delle classi, sorse il sentimento nazionale? … Fu … anche la Francia quella che dette prima l’esempio memorabile della difesa della propria indipendenza a furia di popolo. Quando la vittoria le arrise e l’ambizione si svegliò … quel popolo diventò conquistatore e gli altri rappresentarono il sentimento nazionale … Tutti questi fatti arricchivano il mondo moderno del nuovo sentimento di nazionalità. (De Sanctis, p. 216-7)

In Italia questo sentimento, che si avverte, per quanto debole e non così universalmente diffuso, viene espresso dagli intellettuali, i quali, tuttavia, sono quanto mai limitati nella comunicazione del loro pensiero e più ancora nel loro agire politico, come del resto, si avverte più che altrove a Napoli – lo rileva De Sanctis che ha avuto la sua formazione in quella città –, laddove il Settecento illuminista aveva generato una classe di intellettuali molto attivi ma decimati dopo la breve esperienza della repubblica partenopea. Ora la fiaccola del nazionalismo viene riaccesa a Milano, ormai saldamente in mano all’Impero asburgico, il quale impedisce ogni forma di aggregazione politica che vorrebbe mettere in discussione ciò che era stato sancito al Congresso di Vienna.

Quando c’è un governo aborrito il quale sa di essere aborrito e vuol governare colla forza, secondato dalla così detta polizia, adoperando spie e tranelli, si hanno per necessaria conseguenza le società segrete. Tutta quella gioventù, tutti gli uomini colti si misero a cospirare, e dettero uno spettacolo degno di energia di cui pochi esempi si trovano nella storia. La lotta non fu solo nelle piazze, tra i liberali armati di pugnali e i soldati di fucili, ma fu lotta fra società segrete e società segrete. La polizia organizzò anche le sue, vi furono mine e contromine. (De Sanctis, p. 221)

Se capofila può essere considerata Napoli, ormai con la sua intellighenzia distrutta per le numerose condanne a morte e all’esilio perpetuo dei suoi intellettuali migliori, a Milano, invece, si forma un nuovo gruppo che si costituisce con ideali che si potrebbero definire “religiosi”, come ben annota il critico napoletano.

Qual era lo scopo dei Carbonari? … Essi volevano ricostituire la religione, tanto veemente era il bisogno di idee religiose: sentivano che un popolo non può vivere tra l’incredulità e la superstizione. E quindi, intendevano a ricostruire la fede religiosa … Insomma, volevano fondare l’unità morale della nazione per mezzo di un cattolicesimo purificato e ricordate che Manzoni negl’Inni ha della religione un’idea più pura di quello che era allora il cattolicesimo, proprio come i “carbonari” la vagheggiavano. (De Sanctis, p. 222)

Ecco, dentro questo quadro si può comprendere che l’attività letteraria di Manzoni in questi anni non ha solo come scopo la comunicazione di quella fede cattolica che egli ha abbracciato con l’ardente desiderio del neofita e del convertito che avverte la missione di convertire altri, ma anche e soprattutto pone al centro la causa politica da realizzare secondo metodi e mezzi che non dovevano essere quelli della lotta armata e neppure della cospirazione, anche se di fatto la reazione del governo portava poi a sposare forme estreme. E nelle sue lezioni sull’argomento, De Sanctis cerca di sviluppare l’analisi di queste associazioni “sanfediste” che aspiravano ad una iniziale costruzione dell’identità nazionale, mediante una confederazione di Stati, sempre su basi religiose e quindi senza dover ricorrere alla forza o alla cospirazione politica. Manzoni appare defilato nelle questioni di natura politica e tuttavia non è del tutto estraneo ai movimenti che hanno queste aspirazioni. È ben consapevole della presenza poliziesca del nuovo Stato in mano agli Asburgo e perciò non si espone direttamente, ma coltiva  queste idee che trapelano anche nella sua produzione letteraria. Proprio il Carmagnola che concepisce in questo anno, dovrebbe essere un’occasione per introdurre una riflessione storica che abbia come oggetto le condizioni miserevoli dell’Italia. La situazione storica, sullo sfondo della quale si muove il personaggio in oggetto, è quella di un’Italia divisa, ma soprattutto fratricida, visto che le lotte sono fra le diverse città e signorie: non c’è alcuno straniero alle porte che possa  mettere in discussione la comune appartenenza ad una eredità comune, almeno per il comune linguaggio. Ma l’unità qui appare impossibile e quindi la vicenda presa in considerazione non sembra essere adatta a risvegliare questo sentimento di patriottismo, del resto anacronistico. In effetti, anche Manzoni, da storico, si rende conto che non può piegare la vicenda in questa direzione, anche per evitare la censura; e soprattutto non può far dire ai personaggi qualcosa che non si addica a quei tempi. Ecco perché manca la poesia nella stessa tragedia e la poesia viene relegata al coro, che in tal modo risulta come giustapposto, una specie di pausa di riflessione da parte dell’autore, non in riferimento alla situazione di allora, ma a quella più vicina ai suoi tempi, senza dover incolpare altri della causa del degrado della situazione italiana, tutta dovuta a que-ste lotte fratricide, a questi sistemi di particolarismo locale, che mortificano il senso di nazionalità.

Manzoni si propone di escludere dal dramma tutte le sue emozioni, di lasciar parlare solo i suoi attori, quantunque di rimpetto a quella vita ei dovesse sentir negato se stesso, come doveva avere questo sentimento di negazione tutto il popolo italiano. Ma nel dramma non ce lo trovate, perché Manzoni qui ha operato da critico e non ha sentito che dovea metterci parte di sé e dei sentimenti contemporanei. Però a un tratto, quando quella vita di uomini mercenari, di soldati venturieri, all’ultimo si presenta come battaglia, quando si vede spicciare il sangue, quando insomma quella vita ignobile giunge all’estrema punta, allora i sentimenti contemporanei a Manzoni scoppiano e viene il coro. Manzoni getta via la trama storica e si mette di rincontro ai fatti e li giudica. Il coro è lui, lui che rappresenta il popolo contemporaneo. Accade qualcosa di meraviglioso: quest’uomo che ha voluto produrre un dramma secondo i principi critici e non ci ha saputo inspirare vita, ora che si mette a guardare i fatti, vi crea una nuova lirica, la lirica drammatica. E questo elemento drammatico fa la grandezza del coro. (De Sanctis, p. 225)

La funzione del coro nelle tragedie

Il coro è solitamente quell’intermezzo affidato a più persone, che potrebbe fare da passaggio tra un atto e un altro, dove in genere l’autore compendia la sua riflessione sui fatti narrati, affinché gli spettatori possano avere una pausa meditativa; questa riassume le note più importanti dell’azione fino a quel punto sviluppata. Il coro presuppone musica, un’esecuzione che comporta la “lirica”, indubbiamente di tono drammatico, trattandosi di una tragedia. .

IL CORO DEL CARMAGNOLA

S’ODE A DESTRA UNO SQUILLO DI TROMBA …

Nel caso del coro di questa tragedia si potrebbe dire che l’autore vi abbia messo di fatto il racconto epico della battaglia, quella di Maclodio, che e-videntemente non si può mettere in scena e neppure riassumere da parte di un attore. Proprio il coro permette di far sentire che in quel frangente non ci sono solo uomini isolati, come nel resto del teatro, ma che vi si possa riscontrare la presenza di tanti, che, insieme, per quello che dicono e soprattutto per il modo con cui lo dicono, permettono di avvertire il dramma di uno scontro particolarmente teso. Bisogna riconoscere che l’autore ha saputo creare questo clima per il contenuto del coro, ma anche per la forma espressiva a cui ricorre.

Che cosa è questo coro? È l’azione drammatica che succede ai due atti prece-denti, e che l’autore non può mettere in teatro, come vi mette i capitani; è la battaglia; da una parte sono gli avventurieri di Filippo Visconti, dall’altra quelli del Conte di Carmagnola; non ci sono riflessioni sui fatti di cui si è parlato innanzi. L’autore sotto forma di coro è presente alla battaglia, ma ha ricuperata la sua coscienza che avea voluto far tacere nel resto della trage-dia … Dapprima egli guarda la battaglia come uno spettacolo interessante, per curiosità, e vede i preparativi della pugna … e come si fa quando uno guarda un oggetto interessante, lo descrive … Appena vede spicciare il san-gue, la curiosità muore, sorge un altro sentimento. … sorge qui l’uomo nuovo moderno, che ha la coscienza del sentimento nazionale …(De Sanctis, p. 226-7)

Bisogna riconoscere al poeta una notevole capacità in questo coro: egli esprime con i rumori e le immagini proprie di una battaglia, in cui le due parti che si affrontano, sono viste insieme accozzarsi, uno scontro che vuol essere epico e tragico insieme, soprattutto quando insieme con le spade spiccia e gronda il sangue: nello stesso andamento del verso e degli accenti si avverte il movimento della battaglia, che suscita sempre più orrore, dolore, avversione per un quadro desolante: questo appare sem-pre più ributtante al solo pensiero che si riconosca in questo scontro l’a-mara realtà di una guerra tra fratelli, tra gente dello stesso Paese, fra chi dovrebbe coltivare il senso della comune appartenenza alla medesima terra e alla medesima storia. Se la lingua usata è debitrice agli schemi classici, che ben si addicono a un canto di guerra, poi però il linguaggio, quello che fa ricorso a moduli espressivi particolari, è di ben altro spirito, perché qui prevale l’onda del sentimento. E in effetti si ha come l’impressione che il poeta ci voglia dare con il suo ritmo incalzante non solo il rumore della battaglia, ma anche il sentimento di chi vi assiste ed è progressivamente turbato dal fatto che deve constatare nei fronti avversi persone che appartengono al medesimo popolo. E allora le frasi che all’inizio sono incalzanti con i loro accenti, a rappresentare il suono delle trombe, il dispiegarsi dei vessilli, il calpestio dei soldati, il fragore delle armi, poi diventano più faticose con il loro spezzarsi, mediante la tecnica dell’enjambement che esprime bene lo stato d’animo di chi sta a vedere un simile scontro ed è sempre più inorridito non solo dal sangue versato, ma anche dal fatto che chi si sta scontrando è dello stesso sangue. La metrica è così di grande peso per conferire alla poesia quegli accenti epici che sono propri di un testo enfatico, ma è anche significativa per creare nel dramma quel sentimento che si fa giudizio impietoso nei confronti di un popolo che non sa far emergere la propria coscienza: il senso di appartenenza non si è mai affermato, anche in epoche in cui non c’era da attribuire questo difetto alla mancanza di libertà per la presenza di un popolo invasore. Così le responsabilità non sono da attribuire ad altri, laddove le colpe sono da ricercarsi dentro l’Italia stessa. Non appare qui una sorta di livore nei confronti di un governo liberticida come poteva essere in quel momento l’impero asburgico, che di fatto esercitava il suo controllo sulla penisola; qui c’è da ricostruire una coscienza. Le strofe sono ottonari, secondo lo schema classico dei poemi epici; ma i versi sono decasillabi, che permettono la scorrevolezza di rumori che rimbombano e come se si trattasse di una cavalcata o di un rullio di tamburi, che deve sostenere anche musicalmente questo scontro armato.

S’ode a destra uno squillo di tromba;

a sinistra risponde uno squillo:

d’ambo i lati calpesto rimbomba

da cavalli e da fanti il terren.

Quinci spunta per l’aria un vessillo;

quindi un altro s’avanza spiegato:

ecco appare un drappello schierato;

ecco un altro che incontro gli vien.

Si notino in questo avvio le ripetizioni a due degli elementi, che permettono di avere davanti i due schieramenti pronti a darsi battaglia: tutto concorre a creare i primi scontri della battaglia e in effetti nella seconda strofa già le spade affondano nelle carni e già il sangue imbeve il terreno. A questo punto c’è un susseguirsi di domande accompagnate da considerazioni che dicono lo sgomento del poeta, capace di suscitare il medesimo sgomento del lettore che vi partecipa.

Già di mezzo sparito è il terreno;

già le spade rispingon le spade;

l’un dell’altro le immerge nel seno;

gronda il sangue; raddoppia il ferir. –

-Chi son essi? Alle belle contrade

qual ne venne straniero a far guerra

qual è quei che ha giurato la terra

dove nacque far salva, o morir? –

E qui, nell’incalzare di domande che diventano sempre più retoriche, nella misura in cui è ben visibile la realtà amara dello scontro civile fra schieramenti opposti che appartengono allo stesso popolo, il movimento cadenzato dell’inizio lascia spazio ad un movimento più faticoso ed ansimante per la presenza di enjambement. C’è pure un richiamo classico con la traduzione del famoso testo di Tibullo: “Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?”.

-D’una terra son tutti: un linguaggio

parlan tutti: fratelli li dice

lo straniero: il comune lignaggio

a ognun d’essi dal volto traspar.

Questa terra fu a tutti nudrice,

questa terra di sangue ora intrisa,

che natura dall’altre ha divisa,

e ricinta con l’alpe e col mar.

-Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando

trasse il primo il fratello a ferire?

Oh terror! Del conflitto esecrando

la cagione esecranda qual è?

-Non la sanno: a dar morte, a morire

qui senz’ira ognun d’essi è venuto;

e venduto ad un duce venduto,

con lui pugna, e non chiede il perché.

-Ahi sventura! Ma spose non hanno,

non han madri gli stolti guerrieri?

Perché tutte i lor cari non vanno

dall’ignobile campo a strappar?

E i vegliardi che ai casti pensieri

della tomba già schiudon la mente,

ché non tentan la turba furente

con prudenti parole placar? –

-Come assiso talvolta il villano

sulla porta del cheto abituro

segna il nembo che scende lontano

sopra i campi che arati ei non ha;

così udresti ciascun che sicuro

vede lungi le armate coorti,

raccontar le migliaja de’ morti,

e la piéta dell’arse città.

Là, pendenti dal labbro materno

vedi i figli che imparano intenti

a distinguer con nomi di scherno

quei che andranno ad uccidere un dì;

qui le donne alle veglie lucenti

de’ monili far pompa e de’ cinti,

che alle donne diserte de’ vinti

il marito o l’amante rapì. –

Guarda e vede il fanciullo che apprende a distinguere il nemico con nomi di scherno, vede le donne che fan pompa dei monili e de’ cinti rapiti alle donne de’ vinti. Tutti questi non sono pensieri, ma fatti, sotto cui pullulano i pensieri che altri poeti metterebbero in forma di concetti e di raziocini. Giunto qui gli esce un lamento: “Ahi! sventura!” …

-Ahi sventura! sventura! sventura!

già la terra è coperta d’uccisi;

tutta è sangue la vasta pianura;

cresce il grido, raddoppia il furor.

Ma negli ordini manchi e divisi

mal si regge, già cede una schiera;

già nel volgo che vincer dispera,

della vita rinasce l’amor.

… e si rivolge alla battaglia, come un uomo che dopo aver veduto una cosa orribile, la contempla a parte a parte, quasi volesse saziarsi di guardarla. La battaglia continua, si vedono alcuni darsi alle gambe, altri perseguitarli, la fuga, la vittoria … (De Sanctis, p. 229)

Che senso ha continuare in questo combattersi, in questo contrastarsi reciproco che non costruisce nulla? In fondo la colpa della situazione triste e dolorosa che vive l’Italia è dovuta agli stessi Italiani che non sanno trovare unità. Non si può dare la colpa ad altri, ed è necessario un riscatto che derivi proprio da uno spirito più religioso. La conclusione a cui giunge il poeta non è più solo di ordine politico e quindi espressione di un accentuato nazionalismo, come ci si poteva aspettare da quanto compare in precedenza. In nome della fraternità umana e non solo per ragioni di nazionalità e di politica, è doveroso riemergere da un vivere condotto in modo negativo …

Tutti fatti a sembianza d’un Solo;

figli tutti d’un solo Riscatto,

in qual ora, in qual parte del suolo,

trascorriamo quest’aura vital,

siam fratelli; siam stretti ad un patto:

maledetto colui che l’infrange,

che s’innalza sul fiacco che piange,

che contrista uno spirto immortal!

L’azione oltrepassa la nazionalità; diviene azione umana, le nazioni sono considerate uguali come gli uomini, unite in un sol patto. (De Sanctis, p. 230).

IL PRIMO CORO DELL’ADELCHI

DAGLI ATRI MUSCOSI, DAI FORI CADENTI …

Nell’Adelchi compaiono due cori, molto diversi fra loro. Alla fine del terzo atto, nel momento in cui viene portata la notizia della morte di Anfrido, lo scudiero fraterno di Adelchi, viene introdotto il coro che ha molte somiglianze con quello del Carmagnola, se non altro per i temi che vi si trovano. E tuttavia lo spirito con il quale Manzoni guarda al popolo, diviso e asservito, è ben diverso, se non altro perché sono passati alcuni anni, e la tragedia dell’Italia sembra ormai avviata a durare, se non altro perché chi coltiva il patriottismo è impedito in ogni modo di realizzare i suoi progetti. Siamo all’indomani del 1821, quando abbiamo prove di insurrezione un po’ dovunque, che in breve sono compresse e represse. E allora Manzoni, pur non potendo dire in maniera esplicita il suo pensiero, per la censura dominante, deve amaramente prospettare la visione desolante di un volgo che nome non ha. Si tratta del popolo latino, erede di un passato glorioso che ora è coperto di muschio, e fatto di sole rovine. In esso il poeta riconosce il popolo del suo tempo, che anche a dover inneggiare al passato eroico, come la poesia di stampo classico aveva fatto nei suoi anni giovanili, ormai non ha futuro, mentre altri spadroneggiano dividendosi le spoglie. Non resta che sperare, attendendo tempi propizi; ma, perché ci siano, occorre risvegliare la coscienza, ridestare gli animi, risollevare gli spiriti. È quanto si avverte nel coro che si effonde proprio nel momento in cui Adelchi, avuta la notizia della morte dell’amico, prosegue il suo cammino di lotta, solo perché questo è il suo dovere, anche ad essere consapevole della inanità del compito.

La metrica usata, per quanto differente dal coro precedente, suggerisce sempre un andamento incalzante, che vorrebbe ridestare questo popolo stanco, abbattuto, incapace di reagire. Ma tale rimane, aspettando che altri assumano responsabilmente il compito di offrire libertà e dignità. I tentativi di risurrezione espressi negli anni napoleonici per ridar vita ad uno Stato italiano, non hanno visto quel genere di partecipazione che possa far credere in una coscienza nazionale, radicata e convinta; ci si aspetta sempre che altri abbiano a dare quella libertà che invece deve essere assunta responsabilmente e soprattutto alimentata e conservata, mai poggiando su altri.

Quel popolo ha ancora un ideale, lo vedete memore del passato, ma è un ideale che rimane velleità senza forza come in Adelchi; non si può tradurre in azione: i Latini aspettano la loro liberazione non dalle proprie virtù, ma dai Franchi, dal Papa: non hanno ancora potenza di vivere da sé, non sono ancora popolo.

(De Sanctis, p. 239)

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,

dai boschi, dall’arse fucine stridenti,

dai solchi bagnati di servo sudor,

un volgo disperso repente si desta;

intende l’orecchio, solleva la testa

percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

qual raggio di sole da nuvoli folti,

traluce de’ padri la fiera virtù:

ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto

si mesce e discorda lo spregio sofferto

col misero orgoglio d’un tempo che fu.
Verrebbe da pensare che qualcosa possa smuovere dal torpore questo popolo rinchiuso nel suo passato di glorie, che oggi sono solo rovine ricoperte di muschio: ma al di là della consapevolezza amara della propria condizione attuale a fronte di un passato che non torna, che non può tornare, rimane la sola velleità di auspicare tempi migliori, senza avere mai la forza di poter effettivamente risorgere, nell’attesa che altri se ne assumano il compito. Al di là delle buone aspirazioni, non resta che attendere la liberazione da chi, invadendo, non può che portare il proprio dominio, descritto qui con de’ crudi signori la turba diffusa. E qui il testo si fa incalzante con queste rovinose invasioni di campo, da cui è inutile sperare quella libertà che sola si ottiene con la propria responsabilità.

 

E il premio sperato, promesso a quei forti,

sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

por fine ai dolori d’un volgo stranier?

Tornate alle vostre superbe ruine,

All’opere imbelli dell’arse officine,

Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,

col novo signore rimane l’antico;

l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti:

si posano insieme sui campi cruenti

d’un volgo disperso che nome non ha.

È una conclusione amara che prende atto della situazione immobilizzata da un ordinamento che non lascia spazio ad alcuna forma di speranza.

Il motivo tragico che comparisce, al principio, riappare all’ultimo. E che cosa ci si move in mezzo? Che cosa si muove in questo coro? Si muovono popoli operosi, liberi: i Longobardi e i Franchi, tutte e due forti quantunque il primo sia vinto e l’altro vincitore. Ed il coro è appunto la descrizione di due popoli viventi gettati in mezzo alle velleità di un popolo morto che per un momento crede vedere cangiato il suo destino e poi ricade nella tomba. …Questo coro dell’Adelchi fu concepito quando venne il disinganno, quando quello sforzo dell’Italia fu compresso dagli stranieri. Gli Austriaci intervennero a Napoli e a Torino, il principe di Carignano (Carlo Alberto) per assicurarsi la corona abbandonò e denunziò i suoi compagni, Francesco I (futuro re di Napoli) tradì i suoi fratelli di cospirazione e aperse la via agli austriaci. Rossetti e Berchet si avviarono all’esilio; Pellico, Oroboni e tanti altri si avviavano allo Spielberg … Questo coro produsse una grande impressione in Italia; quando tutto sembrava perduto, parve il primo rintocco del risveglio. Ci trovate altamente proclamata l’autonomia del popolo latino, che è oppresso ma si sente distinto dai suoi oppressori. Quest’affermazione della continuità della nazionalità italiana fin dal secolo ottavo, era una protesta in poesia, l’affermazione dell’indipendenza e della personalità del popolo italiano. (De Sanctis, p. 240-241).

IL SECONDO CORO DELL’ADELCHI

SPARSA LE TRECCE MORBIDE …

Il coro più lirico, in un contesto altamente drammatico, è quello presente al termine della prima scena dell’atto quarto dell’Adelchi, dove si ha l’abbandono alla morte di Ermengarda, rifugiata nel monastero di Brescia, dopo il ripudio di Carlo. È una sorta di mesto accompagnamento dell’anima che sta lasciando il corpo, con quella pietà che diventa preghiera. Qui si ha come l’impressione, pur non essendo esplicitata la cosa, che il coro sia quello delle vergini compagne, che, nello stesso monastero in cui Ermengarda trova ospitalità, le stanno vicino nell’ora della morte per affrettarne e alleviarne il trapasso. Quando ormai lei, adagiata all’ombra di un tiglio nel convento, sente avvicinarsi la morte e chiede alle sorelle che le si parli di Dio, perché già ne avverte la presenza, si avvia il coro, che sembra proprio l’estremo saluto delle vergini a lei vicine: non per nulla prevale una sorta di discorso diretto, come se l’autore si rivolgesse proprio a lei per calmarla, per distenderla e portarla così ad addormentarsi nella morte. 

Che è questo coro? Le vergini, mentre Ermengarda muore, le sono intorno, la confortano, pregano per lei. È questo un momento lirico cristiano interessante. È la vita di Ermengarda rappresentata non da lei, ma dagli spettatori, che ricordano la lotta da lei sostenuta nel convento, dove è stata per cinque anni, lotta tra la memoria del passato che non l’ha mai abbandonata e l’amore di Dio, col quale spesso ha cercato di cancellare l’affetto di lei per un uomo … Il sentimento del coro è che la lotta, la quale Ermengarda sostiene nel convento, quell’amore tenace che non può cacciar via, il dolore, il martirio le aprono la via del cielo: perché soffrire in terra è godere nell’altra vita. Intorno a questi pensieri è ricamato tutto il coro. (De Sanctis, p. 155-6)

L’avvio del coro serve a predisporre lei in quella pace che la dispone a Dio.

Sparsa le trecce morbide

sull’affannoso petto,

lenta le palme, e rorida

di morte il bianco aspetto,

giace la pia, col tremolo

sguardo cercando il ciel.

 

Cessa il compianto: unanime

s’innalza una preghiera:

calata in su la gelida

fronte, una man leggiera

sulla pupilla cerula

stende l’estremo vel.

 

Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terreni ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

fuor della vita è il termine

del lungo tuo martir.

 

Tal della mesta, immobile

Era quaggiuso il fato:

sempre un obblio di chiedere

che le saria negato;

e al Dio de’ santi ascendere,

santa del suo patir.

 

Ma per quanto ella cerchi pace al suo tormentoso vivere, questo riappare, sempre più tormentoso, perché i ricordi vanno ai bei tempi di un amore nutrito e manifestato, e tuttavia poi non più corrisposto: è mirabile la scena di caccia, a cui lei partecipa, rincorrendo lo sposo che colpisce il cinghiale. Sono a contrasto due animi molto diversi: tanto è ardimentoso lui, quanto tenera e delicata è lei, che vive ed esprime un amore non condiviso, visto che “il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor”. Lei si tormenta e l’amore diventa sofferto, causa continua di turbamento interiore. Di qui l’invito conclusivo a trovar pace …

 

Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

nel suol che dee la tenera

tua spoglia ricoprir,

 

altre infelici dormono,

che il duol consunse; orbate

spose dal brando, e vergini

indarno fidanzate;

madri che i nati videro

trafitti impallidir.

 

Ermengarda viene accumunata alle tante donne che hanno patito nel corso della storia, vittime esse pure della violenza che domina il mondo e che proprio nella donna trova l’accanimento, e l’accumularsi del male e del dolore. Anche Ermengarda, come lo stesso Adelchi, è la vittima di un’ingiustizia che lei sconta nella sua persona, vittima sacrificale di una provvida sventura, perché dal suo sacrificio venga un bene più grande: l’immagine usata di un tramonto splendido, sull’orizzonte di un temporale finito, dice che si preparano tempi migliori dopo un periodo di lotte, di guerre, di violenze, che solo il sacrificio scongiura.

Te dalla rea progenie

degli oppressor discesa,

cui fu prodezza il numero,

cui fu ragion l’offesa,

e dritto il sangue, e gloria

il non aver pietà,

 

Te collocò la provida

sventura in fra gli oppressi:

muori compianta e placida;

scendi a dormir con essi:

alle incolpate ceneri

nessuno insulterà.

 

Muori; e la faccia esanime

si ricomponga in pace;

com’era allor che improvida

d’un avvenir fallace,

lievi pensier virginei

solo pingea. Così

 

dalle squarciate nuvole

si svolge il sol cadente,

e, dietro il monte, imporpora

il trepido occidente:

al pio colono augurio

di più sereno dì.

 

In questo inno, che esalta Ermengarda, non si dà una donna eroica, una figura epica, un’immagine grandiosa secondo i moduli classici. Qui c’è una debole che in questa sua fragilità, resa ancora più grave dall’abbandono alla morte, emerge per il suo sacrificio: essa è la vittima sacrificale, che pur assurge a una posizione di grandezza, in quanto viene destinata a rappresentare il vero ideale umano su cui costruire un nuovo umanesimo. Non è dagli eroismi militari, non è dai monumenti dei contributi culturali o scientifici, non è dalle grandi scelte di natura politica, che si può avere colui o colei che porta un verbo salutare, una prospettiva di salvezza, una speranza da alimentare. La salvezza, anche per la formazione cristiana che Manzoni ha e al cui servizio egli si è messo, deriva dal sacrificio, dal saper vivere un’ingiustizia, senza commettere altre ingiustizie, perché la sola giustizia possibile, da mettere in campo per costruire una storia “provvida”, è quella del sacrificio attinto alla croce. Non poteva essere diversamente da uno scrittore che usciva in quegli anni con questo spirito cristiano, alimentato anche nei suoi studi, e che egli auspicava potesse condurre ad un impegno più costruttivo rispetto a quello tentato e naufragato con i conati rivoluzionari, destinati al fallimento, come la cronaca di quegli anni ben documentava.

CONCLUSIONE

Che cosa ci ha dato Manzoni con i suoi cori? Solo pause meditative nel corso delle scene? Considerazioni su una politica che non si poteva allora affrontare con chiarezza e con libertà di spirito in presenza di un clima poliziesco? E, di conseguenza, la sola via d’uscita era immaginata nel sacrificio, quello personale e quello di un popolo nel suo insieme che deve avvezzarsi a ben altri sogni di gloria rispetto a quelli coltivati nel passato o fatti balenare nei tempi presenti con atti di eroismo, tanto generosi quanto infruttuosi? Bisogna riconoscere che qui sta emergendo progressivamente il suo pensiero, che poi meglio sarà elaborato con le opere successive, laddove si prefigge una sorta di educazione popolare che porti ad una coscienza più libera e più chiara, come strumento indispensabile perché i disegni sul futuro, prospettati dalle vicende tumultuose vissute dalla generazione di Manzoni, siano davvero in grado di generare tempi nuovi e migliori. C’è dunque da mettere in campo uno strumento che possa essere in grado di parlare al popolo, per renderlo sempre più consapevole delle sue responsabilità. Se in genere il teatro è sempre da considerarsi scuola di vita, dove vengono dibattute idee diverse perché ciascuno si costruisca il suo pensiero, per un certo uso enfatico nei toni e nei personaggi, esso non risultava in quel momento il veicolo da coltivare. Il racconto in prosa, che diventa romanzo, proprio come affresco corale e non solo come esaltazione di figure singole, è destinato a svolgere una autentica lezioni di vita e divenire strumento di scuola per la formazione di una coscienza robusta. Per certi versi lo strumento poetico del “coro” poteva servire a introdurre questa lettura corale di sentimenti che devono educare e stimolare ad una partecipazione più viva e più attiva. Di concerto con i sentimenti più profondi e più autentici coltivati da quanti poi saranno definiti “patrioti”, è necessaria una coscienza “religiosa”, quella che egli pensava di individuare soprattutto nella fede cattolica. Se in precedenza aveva pensato di divenir maestro di una spiritualità cristiana con gli Inni Sacri, ora egli vuol diventare maestro, sempre nello spirito cristiano, di virtù civiche, per le quali il romanzo appare essere lo strumento migliore, il mezzo più incisivo.

Così scrive Luigi Russo nel suo commento ai cori:

L’affetto, esacerbato delle imbelli speranze del popolo italiano, così diventa amaro rimprovero ai delusi, e sarcastico invito al volgo disperso che nome non ha, perché torni alle sue superbe ruine. Ma anche questo motivo più strettamente nazionale si colora del sentimento cristiano dello scrittore. C’è un certo suo pessimismo contemplativo, che vorrebbe concludere che è meglio passare nella schiera degli oppressi, anzi che appartenere alla progenie degli oppressori (il motivo di Ermengarda e di Adelchi moribondo); ma c’è un altro pessimismo attivo, che comanda all’uomo e ai popoli l’opera e le virtù, per il loro riscatto interiore. Nel Coro è sublimata la stessa tragica contraddizione di Adelchi; esso non fa eco alla rovina di Desiderio o all’epopea gloriosa di Carlo, ma al dissidio doloroso, profondamente cristiano, di Adelchi, combattuto tra l’”opra” e la persuasione che, in questo mondo, “loco a gentile, ad innocente  opra non v’è”. Il motivo che un popolo può riscattarsi, se questo riscatto è uno sforzo interiore, era un motivo assai comune nella propaganda nazionale del primo ottocento; ma nel Coro manzoniano esce colorato da questo sentimento angoscioso per la dura fatalità di questa necessità del combattere. Come in alcune parlate di Adelchi, così nel Coro c’è lo stesso drammatico cristianesimo; un cristianesimo che vuole che tu sia atto a fare, soffrendo, mentre pur teoricamente vorrebbe che tu patissi, non facendo. La morale di fra Cristoforo militante e quella di Adelchi moribondo, avvicinate e contrastanti fra di loro, e mai vittoriosa l’una sull’altra, in una nota d’intensissima poesia. Su un’analoga contraddizione dolorosa nasce anche il Coro di Ermengarda; il desiderio di sgombrare dall’ansia mente i terrestri ardori, e il bisogno incontenibile di richiamare alla fantasia gli irrevocati dì. È la stessa logica di Adelchi, trasferita in un mondo femminile. Ma il secondo Coro ha qualcosa di più contingente che non ci sia nel primo, che è un canto assolutamente liberato, librato assai in alto, sulla ruina di un impero e la nascita dolorosa di uno nuovo, e la perplessità della sorte di un popolo sempre soggetto. Di fatti, la parte più intensamente lirica del coro di Ermengarda è nelle strofe centrali; nelle prime, il poeta è ancora legato ad una situazione di fatto: Ermengarda moribonda e morta. È la voce del poeta che parla anche lì, ma non del tutto disviluppata dalle vicende particolari della scena. Da ciò la controversia dei critici, che si sono domandati, se sono le suore che pregano e ricostruiscono poeticamente la vita di Ermengarda, o se è il poeta che interviene a esprimere i suoi sentimenti, ad accompagnare con un suo commento lirico il trapasso della donna. Ormai la critica ha abbandonato la tesi che fu del De Sanctis e del Carducci, che il Coro, cioè, sia la voce delle suore o di pietose vergini della razza oppressa che si stringono intorno alla morente; e ben di tutti si riconosce che esso è invece la solitaria voce del poeta, il “cantuccio” in cui egli, secondo le note avvertenze premesse al Carmagnola, parla in prima persona, e che, al solito, come nel primo Coro, sublima il dramma interno degli stessi protagonisti. Ma l’equivoco in cui sono caduti insigni critici, pur sta a testimoniare questo sopravvivente e ambiguo legame con la situazione di fatto. … Distinguendo queste varie fasi nel Coro, non si vuole deprimere una parte per esaltare l’altra, ma solo mettere in rilievo la diversa ispirazione della poesia e giustificare  gli stessi equivoci della critica per la parte introduttiva, di cui qualche peso va al poeta stesso. … In questo secondo Coro poi è già visibile (ma non manca neanche nel primo), lo schema, caro alla musa manzoniana, in cui la rappresentazione lirica delle passioni si alterna con la poesia della meditazione morale (le riflessioni sulla “provida sventura”) e con la fede parenetica finale (“Dalle squarciate nuvole …”): preannunzio sistematico della complessa ispirazione del poeta nel romanzo. (Caretti, p. 55-57)

Soprattutto a partire dai cori delle tragedie, dove Manzoni riflette più intensamente sulle vicende storiche, avendo davanti agli occhi la realtà amara dei suoi tempi, nasce in lui il desiderio di una più matura analisi del cammino umano, segnato dal dolore e dalle ingiustizie, ma non lasciato al caso disperante, bensì raccolto e condotto dalla Provvidenza. È di qui che prende avvio il lavoro sul suo romanzo, anche questo accidentato, e tuttavia destinato ad una visione più serena e ariosa. Per arrivare alla decisione di gettarsi con rinnovato fervore in questa sua impresa, in anni segnati da molte amarezze per le malattie in famiglia e per le sventure sul fronte politico, è necessario uno studio più attento della storia, che gli deriva anche da quanto ha elaborato per comporre le sue tragedie e per comporre questi cori, che dicono meglio di ogni altra cosa il taglio con cui lo scrittore legge e interpreta la storia e la realtà che ha davanti a sé.

Quando ha trattato del Carmagnola o degli ultimi longobardi, ha visto che il succo di qualunque vicenda consente ben poco di rallegrarsi. A ogni pretesa gloria corrisponde un prezzo di sopraffazione da una parte, di offesa e di umiliazione dall’altra. Se i vincitori sono fatalmente degli oppressori, i vinti sono degli sconsiderati, oppure degli inetti e dei vili. La sola dignità che valga la pena di considerare è quella della sventura iniquamente inflitta. Ma anche qui, com’è difficile essere sventurati nel senso positivo della parola, senza essere tutt’insieme passivi e rinunciatari. Non gli si venga perciò a parlar bene degli antichi popoli italiani, cioè dei romani, di quei tempi là. Di oppressi non c’era che qualche creatura nobile, straziata per iniqua sventura. Quando da quei tempi remoti si viene a epoche recenti, ci si accorge, poi, di una cosa: che un gruppo delle antiche popolazioni, quello all’incirca “romano”, spinto avanti o indietro da una catena di concause (istituzioni, condizione di operaio o contadino) ha finito con l’impersonare senza più demerito la parte degli oppressi. Da fatto prima etnico e nazionale, il nucleo di costoro si è tramutato in una condizione umana, ed è possibile ormai identificarli con quelli che non avranno mai, senza colpa, una voce e una presenza nei capitoli di storia; e proprio costoro, inermi, indifesi, poveri, conservano l’essenza della promessa cristiana. Cristo, dovrebbe essere chiaro, non ha promesso libertà agli schiavi o rivendicazione agli sfruttati, ha elevato a valore la loro condizione. Quanto alla possibilità di vedere attuati quei precetti, non si saprebbe come e dove sperare che ciò avvenga, nessuno meglio di Cristo sapeva di portare la spada in un mondo di avversioni. Nessun dubbio che Cristo ha ragione.  (Ulivi, p. 240-241)

BIBLIOGRAFIA: FERRUCCIO ULIVI – MANZONI – Rusconi, 1984

FRANCESCO DE SANCTIS – MANZONI – Einaudi, 1983.

LANFRANCO CARETTI – MANZONI – GUIDA STORICA E                                          CRITICA – Laterza, 1979  

Colombo don Ivano  –  Erba – 6 dicembre 2019