Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con i quadrumviri:
da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi.
Il militante in primo piano a sinistra copre la figura di Michele Bianchi.
La foto fu scattata il 30 ottobre
quando Mussolini arrivò a Roma, convocato da Vittorio Emanuele III.
GLI EVENTI
E IL GIUDIZIO STORICO:
UN FATTO EVERSIVO
E COSTITUZIONALE
1
INTERPRETAZIONE DEL FATTO
Questo evento (la marcia su Roma) e questa data (il 28 ottobre 1922) sono ormai entrati nei libri di storia come l’avvio del regime fascista in Italia. Contribuì a questa lettura già lo stesso regime, che nella nuova datazione, obbligatoria sui documenti ufficiali, si faceva partire tutto da lì e naturalmente tendeva a presentare i fatti successi con un alone mitico e, per certi versi, addirittura epico, quasi fosse stato concepito e realizzato un evento grandioso e glorioso, come se fosse stata combattuta una battaglia degna di essere enfatizzata, e di lì derivasse qualcosa di decisivo che segnava una sorta di spartiacque. Il fascismo già esisteva e la sua nascita è da far risalire al 1919, quando a Milano vengono fondati i Fasci di combattimento. Invece il regime, inteso come sistema totalitario, non è propriamente realizzato qui, se il governo presieduto da Mussolini è ancora di coalizione e i partiti hanno pur sempre voce in Parlamento. L’azione, considerata di forza e messa in campo con manipoli di milizie non inquadrate nell’esercito, si rivela di fatto una manifestazione, che poteva diventare eversiva e che in realtà non ha prodotto alcunché. Piuttosto il fatto mediante il quale si può dire che prende avvio la dittatura fascista è il famoso discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Tuttavia già nell’insediamento del suo primo governo le parole usate da Mussolini non lasciano dubbi circa la maniera con cui egli vuole prendere e tenere il potere e di fatto dall’incarico ricevuto nell’ottobre 1922 egli diventa Capo del governo, che poi presiedette fino al Gran Consiglio del 25 luglio 1943. I giudizi storici, che furono – e sono ancora – emessi sugli inizi della dittatura, sono di fatto legati a questo episodio, che fu ingigantito dal regime stesso e che invece deve essere meglio riletto, anche per capire la natura di certi eventi. Il partito, che qui pretende di avere la gestione del governo, nonostante l’esigua rappresentanza in Parlamento, sulla base dei risultati elettorali, proprio per questa sua determinazione, e per i fatti che accompagnano la sua richiesta di avere e di esercitare direttamente il potere, con il ricorso alla violenza, esprime parole e azioni che devono essere considerate di natura eversiva. Lo dimostra mettendo in campo uomini armati che convergono su Roma; nello stesso tempo si deve riconoscere che sia i dirigenti di partito, sia gli affiliati che vengono messi in campo esprimono la volontà di andare contro la legalità. E tuttavia non viene prodotto nulla di anticostituzionale, se di fatto è il re a chiamare Mussolini al governo. Insomma, la lettura da fare circa quanto è successo in quei momenti, non può essere lasciata alla retorica usata dal regime, quando lo diventa; e neppure va considerata a partire dalla retorica opposta che maschera la reale incapacità dei partiti di opposizione di comprendere i fenomeni in corso e di porvi gli argini necessari. Una lettura più attenta di ciò che è successo in quel giorno deve servire a comprendere eventi analoghi, mai identici, che possono generarsi e dare origine a fenomeni sicuramente aberranti. Se davvero questa “marcia”, poi ostentata con la figura possente del capo del fascismo che sta avanti alle sue “truppe di occupazione” – ma questo non avvenne affatto – è da considerarsi l’episodio emblematico della nascita di una dittatura, come il regime voleva e come i partiti d’opposizione hanno pure pensato, allora noi dovremmo vedervi una occupazione di stampo militare che non ci fu.
FU UN COLPO DI STATO?
Evidentemente la retorica ha bisogno di un fatto significativo da accampare per un fenomeno, quello della dittatura ventennale, che indubbiamente deve essere considerato un “regime”. E tuttavia si deve pensare che ci fossero ancora le condizioni per contenere il fenomeno e per evitare quella “deriva”. Non possiamo comunque scrivere la storia con i “se”. Dobbiamo stare ai fatti e cercare di leggerli, oggi, senza lasciarci andare alle emotività, che in quei frangenti sono emerse da tante parti, anche per una concomitanza di fenomeni che facevano presagire una rivoluzione proletaria sul modello di quella sovietica, e più ancora sulla possibilità reale di uno scontro da guerra civile, con l’appello ai combattenti della guerra, appena conclusa, e le diverse bande armate che il potere civile faticava a tenere a freno. Di fatto il colpo di Stato non ci fu. E non ci fu neppure un intervento da parte dell’esercito. Inoltre il re, che pur temeva la deriva rivoluzionaria, cercò di canalizzare il fenomeno dentro gli schemi costituzionali di una carta, lo Statuto albertino, il quale non era affatto rigido e risultava ormai superato rispetto al periodo in cui era stato redatto. Così, al momento in cui certamente c’erano nelle piazze e nelle strade d’Italia gruppi che si presentavano armati e decisi a convergere su Roma per forzare la mano al re, più che ai partiti governativi, non ci fu scontro alcuno e conseguentemente non si può neppure parlare di forzatura che fa pensare sia ad un colpo di Stato, sia all’inizio di un vero e proprio regime. Insomma, gli eventi, pur con le possibili derive rivoluzionarie, si sono incanalati su un percorso che può essere definito “legale”.
Il recente articolo de “La Civiltà Cattolica” (n. 4135, 1/15 ottobre 2022) dice con estrema chiarezza che “con questo avvenimento ebbero inizio il “funesto ventennio fascista” e lo Stato totalitario”. Di qui, dunque una interpretazione dell’evento che fa pensare a qualcosa di traumatico e proprio per questo ad un contesto di totale illegalità, come se già fossimo entrati in un sistema dittatoriale. Ma non sembra che questa sia e debba essere la lettura degli eventi di quel momento particolare. In effetti l’articolo suggerisce qualche forma di attenuazione: “La presa del potere da parte di Benito Mussolini nell’ottobre 1922 avvenne per vie “semilegali”, in quanto la prospettiva insurrezionale fu “subìta” passivamente dallo Stato e immediatamente dopo “legalizzata” con l’incarico dato dal re a Mussolini di formare un nuovo governo”. Proprio per questi passaggi, che vanno definiti “costituzionali”, qui non si ha una forma traumatica e dittatoriale di intervento con l’assunzione dei poteri in maniera diretta e autoritaria. Tutt’altro. E nello stesso tempo però si deve riconoscere che, avendo messo in campo gruppi di facinorosi armati, Mussolini stava cercando una prova di forza nei confronti dello Stato, anche perché era in presenza di forze costituzionali deboli e divise fra loro, che non sapevano come reagire; come pure risultava esitante il re, che voleva evitare scontri armati e quindi un contesto di guerra civile, con lo spettro sullo sfondo di una rivoluzione dal chiaro intento antimonarchico. Insomma, un colpo di Stato non ci fu; e se il Re ha dato l’incarico a Mussolini e poi il Parlamento ha avallato il governo, bisogna riconoscere che tutto si è svolto secondo le procedure legali. Tuttavia in piazza e nelle strade sono stati ammassati uomini decisi a tutto e già avevano dimostrato di saper usare la violenza.
Che ci sia stata una sorta di forzatura, nessuno lo può negare. Qui in effetti, come si tende a dire da tempo, chi non aveva avuto una designazione popolare alle ultime elezioni (per quanto non fossero ancora veramente democratiche), e si era trovato con una percentuale molto bassa di deputati alla Camera, veniva investito della designazione di capo del governo e come tale dunque egli non faceva alcun colpo di mano. Inoltre il governo fu costituito facendovi entrare ministri di altri partiti, ed ebbe la maggioranza dei voti alla Camera. Certo, il contesto in cui nasce il governo presenta un clima di intimidazione, anche se le operazioni per crearlo erano fatte secondo una formale legalità. Del resto negli anni precedenti, da quando si era affacciato il partito fascista sulla scena politica italiana, erano incominciate le azioni violente in diverse direzioni e un po’ in tutto il Paese, con la volontà deliberata di intimorire e nel contempo di presentarsi poi come l’unica forza in grado di portare ordine.
Se i governi, che si succedevano dalla fine della guerra, non sapevano ottenerlo, allora era giocoforza coinvolgere i fascisti, nella vana speranza di poterli assimilare, tenuto conto che già Mussolini si era radicalmente trasformato da repubblicano convinto in monarchico, proprio perché non metteva più in discussione la forma costituzionale dello Stato. E così fu anche nel ventennio, per quanto lo Statuto venisse di fatto esautorato. Pur senza forzature, dunque, ma certamente con la mobilitazione della piazza, che comunque poteva benissimo essere sciolta, Mussolini viene chiamato dal Re, in quelle ore convulse, in presenza di un governo incapace di mantenere l’ordine. Viene incaricato di formare il governo, quando ci si rende conto che egli non si prestava alla sola partecipazione, facendo il ministro, senza l’assunzione della totale responsabilità. Va altresì segnalato che una simile azione di convergenza sulla capitale da parte di bande armate, era di fatto la soluzione migliore per Mussolini, anche in riferimento alla necessità di tenere in mano i vari gruppuscoli del suo partito, che, in alcune città, facevano capo ai ras locali, non del tutto compatti col “duce”; e lui ha bisogno di una prova di forza e di un risultato concreto per essere riconosciuto come il capo indiscusso. Ma nel minacciare una simile iniziativa, non si immaginava affatto né che tutti i fascisti fossero davvero compatti con lui, né che da parte del governo in carica e dei partiti conservatori ci fossero quei cedimenti che di fatto han-no avallato la presa di posizione di Vittorio Emanuele III.
L’idea di una “marcia su Roma” – con la suggestione dei richiami alla tradizione mazziniana e garibaldina, ripresa dal nazionalismo del dopoguerra con l’esperienza fiumana – era considerata, in un primo momento, tra gli attivisti fascisti, più come un mito, un pungolo per spronare la classe dirigente che come un programma di azione chiaramente definito, cioè un movimento armato per conquistare la Capitale dello Stato. (…) L’idea di “marciare su Roma” divenne, a partire dalla metà del 1922, nella strategia di Mussolini, uno strumento di pressione per consentirgli di trattare con gli altri attori politici da una posizione di forza. Ma il “grande atto”, come veniva chiamato, doveva essere preparato accuratamente, per evitare il rischio che venisse vanificato o indebolito dalle forze ostili all’impresa, presenti anche all’interno del partito, in particolare dai nazionalisti e dai monarchici più convinti. Ciò avveniva dopo le lotti sindacali di quei mesi e dopo le ardite azioni di forza condotte dagli squadristi in diverse parti d’Italia a livello locale … (CC, n. 4135, p. 11-12)
LE PARTI IN CAUSA NELL’OTTOBRE 1922
Raccontare qui i fatti in sequenza non significa solo fare la cronaca, accostando uno dopo gli altri i singoli episodi, ma cercare di leggere dentro un disegno, che, nel momento in cui si compie, non sembra aver dietro menti diaboliche nei loro intendimenti o intelletti lungimiranti che potevano già cercare di raggiungere quello che si erano prefissati. Certamente Mussolini voleva il governo, e voleva averlo in mano personalmente: questo è chiaro nei suoi intendimenti. Ma forse neppure lui si sarebbe aspettato un simile risultato, che fu possibile per il cedimento di altri. E anche i diversi partiti di contorno, con i loro veti incrociati, sebbene riconoscessero che il fascismo cercava con la violenza una supremazia di tipo dittatoriale, non si sarebbero mai immaginati di favorirlo con le loro incertezze e con le loro esitazioni; anzi, essi speravano di intrappolare il fascismo, assicurando un esercizio del potere che avrebbe rivelato le sue debolezze, nel non avere una squadra all’altezza dei compiti governativi.
NEL CAMPO FASCISTA
A dimostrazione che Mussolini non voleva propriamente una prova di forza, per la quale si sentiva impreparato rischiando un insuccesso clamoroso, che gli avrebbe impedito di raggiungere i suoi obiettivi, basterebbe pensare a ciò che egli pubblicamente chiede nei giorni precedenti, quando il quadro è incerto, il governo tergiversa e le violenze continuano …
Chiede cinque Ministeri: Esteri, Guerra, Marina, Lavoro, Lavori pubblici e il Commissariato all’Aviazione. Personalmente rimarrà fuori. Insiste per le elezioni anticipate a breve scadenza e con altra legge elettorale. Sul problema di fondo, e cioè che cosa vogliono i fascisti, dice: “Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca conservata fra le forze della Nazione e quelle dell’antinazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria, abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata. Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo. Si è parlato di ministri senza portafogli, di sottoportafogli; ma tutto ciò è irrisorio. Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fa-scisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un miserevole piatto di lenticchie ministeriali! Il problema, non compreso nei suoi termini storici, diventerà un problema di forza”. (Bianchi, p. 203-4)
Le ultime espressioni evocano il ricorso alla forza, anche perché comunque il partito, ormai da anni, va insistendo con le prove di forza e con attacchi distruttivi ai giornali, con razzie delle sedi dei partiti, con pestaggi nei confronti di figure di spicco locali, con manifestazioni di piazza. Di fronte ad esse l’intervento della polizia e dei carabinieri mancava o avveniva solo per iniziativa di tutori dell’ordine locali. Intanto nelle diverse sezioni del partito si richiama alla mobilitazione: il quartier generale è collocato a Perugia, ma si fa sapere che la manifestazione si avvierà da Napoli.
Il 24 ottobre 1922, 40 mila fascisti si erano radunati a Napoli; vengono da ogni parte d’Italia. Per Mussolini si tratta di esibire al Paese, per la prima volta in misura così imponente, l’organizzazione militare del partito. La crisi è ormai al culmine. La classe politica liberale ritiene che si debbano accogliere i fascisti nel governo; Giolitti, Orlando, e soprattutto Salandra, sono pronti a guidare una coalizione in cui al fascismo dovrebbe toccare qualche ministero (…) A Napoli Mussolini comincia a credere di poter ottenere molto di più. Il suo peso parlamentare è esiguo: appena 35 deputati su 530; ma la crescente debolezza delle strutture dello Stato, cui egli dà mano con ogni mezzo, conferisce al fascismo una forza che supera di gran lunga quella della sua rappresentanza parlamentare. In questo quadro, con il pretesto formale di un convegno sui problemi del Mezzogiorno, Mussolini ha mobilitato lo squadrismo. (Zavoli, p. 122-124)
Da Napoli si marcerà su Roma: è la tonante volontà della folla che, nella piazza del Plebiscito, agita migliaia di gagliardetti acclamando Mussolini, con la passione con cui Napoli salutò solo Garibaldi. La rivoluzione vince.
(Bianchi, p. 204)
Ovviamente per evitare una prova di forza che neppure Mussolini dà per scontato di poter vincere, si cercano febbrili trattative con gli esponenti del governo in carica, che è sempre più debole e sempre più orientato a rassegnare le dimissioni. A Roma, proprio per trattare, c’è il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi (1884-1959), colui che appariva moderato e su posizioni monarchiche. In effetti egli cerca di forzare il Re, che si trovava nella tenuta di San Rossore, e nel contempo di mettere in gioco gli esponenti dei passati governi, per convincere il presidente del Consiglio, Luigi Facta (1861-1930) a dimettersi. Costui non doveva essere forzato a una simile decisione, perché era già sua intenzione; ma avrebbe voluto conferire con il Re che era lontano da Roma.
Anche Mussolini è lontano da Roma e se ne sta in attesa degli eventi, perché ormai la macchina della famosa “marcia” risulta avviata, e il suo regista, Michele Bianchi (1883-1930), tiene costantemente informato Mussolini, quasi forzandone la mano, perché la mobilitazione non può più essere fermata, con gli animi particolarmente agitati.
L’intransigenza di Michele Bianchi convince Mussolini: “La macchina è ormai montata e niente la può più fermare”. Con questo “viatico” Bianchi parte per Perugia, dopo aver tenuto rapporto e conferma: “Non bisogna lasciarsi sfuggire il momento. Agire dunque e a fondo”. (Bianchi, p. 206)
Vero istigatore della “marcia” fu il segretario del PNF, Michele Bianchi, temperamento chiuso, tenacissimo nelle risoluzioni. “Fu lui che inscenò la grande adunata di Napoli che, nelle sue intenzioni, doveva montare Mussolini e rompere gli indugi nelle trattative di compromesso parlamentare, che egli assolutamente non voleva”. (Bianchi, p. 207)
Tra il settembre e l’ottobre del 1922, mentre lo squadrismo consolidava ed estendeva il controllo dell’apparato fascista sul Paese, Mussolini e Michele Bianchi, il più convinto sostenitore della necessità di passare immediatamente all’azione, misero a punto il piano politico-militare della “marcia su Roma”, “cercando prima di tutto di rimuovere gli ostacoli che avrebbero potuto intralciarne l’attuazione”. Secondo i maggiori studiosi del fascismo (qui sono citati De Felice, Vivarelli, Gentile), questi erano principalmente tre: D’Annunzio e i nazionalisti; l’esercito fedele alla Corona; la monarchia. Per ottenere la vittoria era necessario guadagnarsi il sostegno o la neutralità di tali forze (CC, n. 4135, p. 12).
NEL CAMPO DEL VECCHIO LIBERALISMO
Con l’espressione “marcia su Roma”, sempre incorniciata dalle virgolette – come a dire che effettivamente non ci fu niente di sorprendente e so-prattutto di pericoloso –, si dovrebbe intendere un’azione di tipo paramilitare, che si sarebbe dovuto contrastare con l’esercito. Ma così non fu: propriamente non avvenne chissà quale fiumana di irregolari da diverse parti della capitale, anche se certamente c’erano manipoli di facinorosi, che erano stati caricati negli animi con questa prospettiva. E non avvenne neppure uno scontro militare, perché neppure l’esercito fu mobilitato, come ci si poteva aspettare. Le manovre, insomma, furono tutte lasciate alle diverse trattative di natura squisitamente politica, con rappresentanti che apparvero deboli e incapaci di fronteggiare la situazione.
La marcia su Roma fu tutt’altro che un evento militare. Le tre colonne che si dirigevano in treno verso Roma, provenienti da Santa Marinella, da Monterotondo e da Tivoli, erano male in arnese, prive di ogni sostegno logistico. Fin dal mattino del 28 ottobre, avevano dovuto attardarsi a causa delle interruzioni ferroviarie disposte dalle autorità militari a Civitavecchia, a Orte, ad Avezzano. Roma era presidiata da quasi 30 mila uomini dell’esercito con mitragliatrici e persino artiglierie.(Zavoli, p. 130)
La vecchia guardia del liberalismo, che in quegli anni convulsi non era stata in grado di sfruttare la vittoria ottenuta nel conflitto mondiale, gestendo al meglio il potere, non aveva saputo comprendere che cosa stava succedendo nella società civile. Indubbiamente non era neppure facile trasformare una economia di guerra in un’altra che avrebbe dovuto garantire un diverso tenore di vita a chi più di ogni altro subiva le conseguenze, anche di natura economica di una guerra davvero disastrosa, per quanto vinta sul campo. Nuove forze politiche emergevano e cercavano di far sentire la loro voce, non solo nelle sedi opportune, come poteva essere il Parlamento, ma anche nelle piazze con manifestazioni e soprattutto scioperi. Si succedevano diversi governi, incapaci di reggere di fronte agli enormi problemi. Il vecchio sistema liberale faticava a fare le sue scelte con i nuovi partiti (i popolari e i socialisti con le loro scissioni interne) che nelle varie consultazioni popolari avevano numeri in aumento, mai comunque in grado di assumersi la responsabilità di governare. Nel frattempo il malcontento dilagava anche in presenza di scontri armati e di violenze impunite. Il dicastero, presieduto da Facta, che si era insediato nel mese di febbraio e che, dopo pochi mesi, era già dimissionario, era stato rimandato alle Camere dal re e aveva avuto di nuovo la fiducia, la quale tuttavia appariva molto formale. Sempre con la minaccia di dimissioni e con i ministri pronti a farle, sempre in procinto di salire al Quirinale per questo, manovrava dietro le quinte per cercare una scappatoia alle tensioni che montavano dalla piazza, con la minaccia di uno scontro armato: Facta pensava che si potesse risolvere coinvolgendo Mussolini con qualche dicastero al governo. Mussolini, in realtà, voleva il governo per sé. Tanti guardavano a Giolitti (1842-1928), considerato l’uomo che poteva accollarsi una responsabilità di governo in nome della sua fama. Ma si doveva ritenere ormai superato, non più adatto alla nuova situazione. Insomma, la dirigenza liberale appariva del tutto fuori gioco, proprio per le velleità che coltivava senza avvertire la gravità del momento.
A una domanda confidenziale fatta a Giolitti, Sforza (ministro degli Esteri con Giolitti e dopo la guerra con De Gasperi) si sarebbe sentito rispondere: “Facta non era un uomo cattivo, ma la vanità aveva fatto girare la testa ad alcune persone accanto a lui ed egli credette di fare la sua strada senza di me e contro di me. Pover’uomo!” (…) Sforza scrive che “quel primo Ministro, contrariamente al formale mandato che due volte gli era stato affidato dal Gabinetto, avesse sconsigliato il Sovrano, le due volte che il 28 ottobre andò dal Re, di firmare il Decreto della Legge marziale, e ciò nello stesso momento in cui glielo sottometteva, eccependo la mancanza di autorità di un Governo che era dimissionario e che egli stesso manteneva dimissionario”. (Bianchi, p. 208)
C’è, dunque, una notevole responsabilità della vecchia dirigenza liberale nella evoluzione che si ebbe in favore di Mussolini, uomo e fenomeno che si pensava di arginare e “digerire”: c’era chi pensava di acquisirlo alla propria causa e di conservare così lo Stato nelle forme e nei disegni politici, che in realtà la guerra aveva già largamente messo in discussione.
I leader del liberalismo – Giolitti, Salandra, Nitti, Orlando, Facta e altri – non presero troppo seriamente i programmi di azione lanciati dal fascismo e si opposero blandamente agli attacchi (soprattutto a livello locale) alle strutture dello Stato liberale, nonché egli atti di violenza compiuti ovunque contro gli oppositori politici. Essi erano convinti che la violenza fascista fosse un elemento ereditato dalle passate esperienze belliche e che non si potesse eliminarla di colpo, il loro compito doveva essere invece quello di incanalare il fascismo nel nuovo ordine costituzionale. A tale riguardo, i capi del liberalismo si mossero ognuno a suo modo, pensando di utilizzare il fascismo per le proprie fortune politiche e nella speranza di giovare al rinnovamento dello Stato liberale.
(CC, n. 4135, p. 13-14).
LA POSIZIONE DI VITTORIO EMANUELE III
Si discute ancora circa le responsabilità del Capo dello Stato in questa circostanza: l’intervento del Re, che sembra richiesto dal governo stesso, anche per le sue incapacità, avrebbe potuto evitare la deriva dittatoriale. In realtà va riconosciuto che, affidando in questo momento il governo a Mussolini, non si erano ancora create le condizioni per un potere assolutamente illiberale. Indubbiamente esisteva un forte rischio in tal senso, tenuto conto che Mussolini si presentava a capo di un partito che usava la violenza come sistema per imporsi e che dunque di lì si poteva già avvertire quale piega avrebbe preso in seguito.
Di fatto il Re, come pure l’establishment liberale, pensava che, una volta insediato al governo, questi aspetti illiberali sarebbero scomparsi. A voler ben considerare, Mussolini non aveva in Parlamento un numero di deputati che gli permettesse di assumere responsabilità di governo e altrettanto si deve dire che neppure nel Paese aveva un consenso popolare che giustificasse la sua chiamata a formare il governo. Il Re, invece, gli dà il mandato, che continuerà a ricevere e a mantenere fino alla famosa sedu-ta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Perché il Re abbia preso questa decisione non è dato sapere, se non arguendo che in una simile impasse e per evitare l’ipotesi sciagurata di uno scontro armato, avendo sullo sfondo la rivoluzione bolscevica, era comunque meglio muoversi in quella direzione, anche perché Mussolini, da repubblicano convinto e pure fanatico, si era convertito alla monarchia, che conserverà per tutto il ventennio. Tuttavia, così facendo, il Re avalla il sistema fascista, che, se in quel momento non aveva ancora mostrato i suoi connotati dittatoriali, li avrebbe comunque segnalati più avanti. Sta di fatto che questa sua scelta non verrà più modificata successivamente, se non con la sconfitta militare del 1943. Evidentemente gli bastava assicurarsi quel tipo di tranquillità che gli garantisse la continuità dinastica, prima e più della conservazione dei principi fondamentali che sono alla base dello Statuto albertino, pur bisognoso di modifiche per le mutate condizioni storiche.
STATO D’ASSEDIO?
Si è discusso, e molto, circa l’eventualità che si dichiarasse lo “Stato d’assedio”, con la possibilità di far intervenire l’esercito. Certamente, in un simile caso, si poteva parlare di una sorta di colpo di Stato, anche se esso veniva dichiarato e firmato dal Re, in presenza di un governo dimissionario e in assenza di figure che potessero subentrare con un governo forte e autorevole, capace di far fronte alla situazione. Il clima sembrava far prendere una brutta piega agli eventi, con il rischio che scoppiasse una sorta di guerra civile, in un frangente già molto teso per le violenze che potevano degenerare in una rivoluzione dai risvolti inimmaginabili e comunque molto temuti negli ambienti monarchici. La dichiarazione era comunque stata scritta e si rimaneva in attesa della decisione del Re. La discussione circa la firma da parte del Re è dovuta al fatto che comunque lo Stato d’assedio non ci fu e che Facta non ha mai fatto sapere che cosa sia successo nel colloquio tenuto con il Re per questo motivo.
Alle 8.30 del 28 ottobre, il manifesto per lo stato d’assedio è sui muri di Roma. Quando, alle 9, Facta si recò dal re per la firma del decreto, è tranquillo, nutre fiducia. Ma c’è un colpo di scena: il re rifiuta di firmare. Del rifiuto del re di firmare lo stato d’assedio sono state date interpretazioni diverse. Si è scritto, fra l’altro, di un accordo tra il sovrano e Mussolini. Per certo, ci furono pressioni della regina madre (Margherita) e di Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, dichiaratamente filofascisti. In quelle ore cruciali, il re ebbe numerosi colloqui con esponenti liberali, fascisti e nazionalisti. Un ruolo importante giocò l’esercito: tra i militari, soprattutto tra gli ufficiali, il fascismo godeva di larghe simpatie. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, il re interpellò i generali Pecori Giraldi e Diaz e l’ammiraglio Thaon de Revel; gli ultimi due saranno poi ministri nel primo governo Mussolini. Tutti sconsigliarono l’uso della forza contro i fascisti. L’esercito avrebbe fatto il suo dovere, questo fu il loro giudizio, ma sarebbe stato più prudente non metterlo alla prova. (Zavoli, p. 134-5)
Se già circolavano i manifesti, fu necessario intervenire per segnalare che lo stato d’assedio non era comunque in esecuzione. Del resto non si saprà mai da nessun attore di queste ore se effettivamente il decreto sia stato presentato, preso in considerazione, e, addirittura, firmato, anche se poi rinchiuso in un cassetto per venire eliminato in seguito. Va anche detto che nelle ore di quella mattinata così convulsa per le stanze del potere, non ci fu comunque nessuna ondata di militanti fascisti che convergevano su Roma e che cercavano di trovarsi al Quirinale, per forzare la mano del Re. Mussolini, del resto, non era affatto nelle vicinanze, ma attendeva da Milano l’evolversi della situazione, forse anche lui incerto sul da farsi. Insomma, erano possibili diversi scenari, soprattutto era possibile l’esplosione della tempesta. Ma non successe nulla di drammatico. Ci fu solo la convocazione di Mussolini da parte del Re. Il testo della convocazione a Roma, fu redatto e inviato nella forma di un telegramma a Milano, con cui si diceva con chiarezza che era atteso a Roma dal Re, il quale desiderava offrirgli l’incarico di formare un nuovo governo. Mussolini parte da Milano in treno la sera del 29 e arriva alle 10.50 del giorno successivo, portando la lista dei ministri. Nel frattempo occorreva tenere a bada coloro che scalpitavano per quella famosa “marcia su Roma”, sempre minacciata e mai portata a termine. Di fatto non ci fu bisogno della loro mobilitazione, se l’obiettivo era raggiunto. Ecco l’ordine del giorno del Comando militare fascista per questa circostanza:
La battaglia che voi avete ingaggiata e condotta con impareggiabile spirito di sacrificio volge ormai al suo termine vittorioso. Sua Maestà il Re ha telegrafato a Mussolini invitandolo a Roma con l’incarico di formare il nuovo Governo. Il Duce partirà stasera. Egli intende dare prestissimo alla nazione un Governo degno della Nazione e che consacri, in faccia all’Italia e al mondo, la rinnovata volontà della Patria. I resti delle vecchie caste politiche, risalgono senza speranza le valli sospinti dalle nostre gagliarde milizie, che precluderanno ogni ritorno al passato. Fascisti! Gloriosi soldati dell’Italia nuova! Attendete con la massima disciplina e nella calma dei forti e dei vittoriosi l’ordine di smobilitazione che vi verrà dato non appena il Governo d’Italia sarà tenuto solidamente in pugno dal Fascismo. Viva l’Italia fascista!”
(Bianchi, p. 211-2)
CI FU LA MARCIA?
È evidente in questo proclama la rivendicazione di una vittoria che in realtà non c’è stata, per il semplice motivo che non si è neppure ingaggiata la lotta, che sembrava inevitabile. Certo, il risultato che il fascismo si prefiggeva era stato ottenuto e comunque per il capo era necessario ora portare la calma e l’ordine, soprattutto tra le fila di un movimento sempre da controllare e da disciplinare. Sono anche evidenti, nelle parole usate, i richiami al proclama di Armando Diaz (1861-1928) scritto al termine della guerra: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.. Qui il nemico è di fatto riconosciuto nel sistema liberale dello Stato, definito con le vecchie caste politiche, le vere sconfitte di questa “marcia”, che non c’è stata. In effetti lo stesso Mussolini rimane stupito di come sia riuscito nel suo intento “senza colpo ferire”: in nessun Paese al mondo si è mai vista una rivoluzione del genere, per la quale il cambiamento del Paese è assicurato senza dover spargere sangue e senza dover forzare le cose. In effetti è il vecchio Stato liberale che mette in mano a Mussolini quello che restava dell’Italia, che si riteneva uscita dalla guerra con una vittoria mutilata. Ora invece emerge la giusta vittoria, quella che fa apparire un’Italia diversa, potente e gloriosa, in quanto dà una immagine grande di sé con il fascismo al potere. Dandone l’annuncio sul giornale del suo partito Mussolini definisce la “sua” Italia, quella che lui vuole gestire a modo suo, come l’Italia di Vittorio Veneto, per darle quel posto di rilievo che invece non aveva raggiunto nonostante la vittoria sugli Imperi Centrali.
Lo stesso Mussolini avrebbe così commentato (è la relazione raccolta dalla bocca del Duce) la sera in cui sono sfilate le camicie nere sotto il Quirinale:
Bisogna riconoscere che altrui divisioni ci hanno potentemente aiutato. Ah! Tutti quei candidati al governo: Bonomi, De Nicola, Orlando, Giolitti, De Nava, Fera, Meda, Nitti. Sembrava il disperato appello nominale dei santoni del parlamentarismo in agonia. E quel povero Facta che apre una crisi ministeriale dopo la nostra adunata di Napoli?! Ti raccomando poi la passività dell’antifascismo. Sì, va bene, dopo lo “sciopero legalitario” quella barca faceva acqua da tutte le parti: l’Alleanza del Lavoro l’aveva portata a picco. Ma, insomma, anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe, ci avrebbe assai entravé (= intralciato). Certo, se al Governo ci fosse stato Giolitti, forse le cose non sarebbero andate così liscie (sic). Quell’uomo sa dare ai Prefetti la sensazione della sicurezza e della stabilità. Nelle nostre zone, in Toscana e nella Valle Padana, ci sarebbero state delle fiere resistenze e non ce l’avremmo fatta davvero. Quando uno Stato vuole difendersi può sembrare difendersi, e allora esso vince. La verità è che lo Stato in Italia non esisteva più.
(Bianchi, p. 217-8)
Tenuto conto che simili considerazioni vengono dal protagonista della scena, colui che voleva assumere in questa circostanza un posto di spicco nella storia, dobbiamo riconoscere che il grande avvenimento “epico” della cosiddetta “marcia su Roma” è tutt’altro che un grande evento, e che di fatto la presa del potere non sarebbe stata del tutto garantita, se solo ci fosse stata una reazione più composta e più seria da parte del gruppo di coloro che in precedenza avevano governato il Paese in ben più tremende contingenze. Qui, nella dichiarazione fatta dallo stesso Mussolini, abbiamo l’ammissione di aver avuto fortuna, solo perché altri non si sono dimostrati all’altezza della situazione. Perciò dovremmo ricavare che Mussolini non avesse affatto la piena convinzione di poter raggiungere l’obiettivo, anche se in piazza declamava diversamente e ai suoi voleva far credere che fosse necessaria una prova di forza, che in realtà non ci fu. Anche don Sturzo (1871-1959) ebbe a dire che “di rivolta armata non ci fu che ombra nell’ottobre del ’22”. Così quell’azione, che poi passò come un mito, più che come un evento storico, anche perché se ne fece un’esaltazione senza alcun riscontro nella realtà, diventa l’atto fondatore del regime, anche se in realtà non è qui l’inizio della dittatura. Mussolini rivela il suo vero volto antiparlamentare già nel discorso inaugurale alla Camera, dove dice che sta facendo una formalità.
La forzatura, però, che lo fa diventare senza ambiguità il dittatore, si ebbe con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, fatto dal duce per cercar di uscire dalla crisi determinatasi con l’assassinio di Matteotti. Nei libri di storia e nel racconto, fatto dal regime stesso, l’episodio della “marcia su Roma”, ben poco glorioso, viene decantato come qualcosa di epico e addirittura marziale. E anche nell’immaginario delle stampe, che vengono elaborate per essere diffuse come strumento di propaganda, l’evento viene descritto con Mussolini, nel suo atteggiamento fiero ed impettito, contornato dai quadrumviri, che sta alla testa di una fiumana di popolo, mentre procede alla conquista del potere. Eppure quando la situazione a Roma è al culmine, Mussolini si trova a Milano. Chiamato dal re, parte in treno per Roma, e qui sale al Quirinale in camicia nera presentando la lista dei Ministri …
Il movimento – deciso, rapido, contemporaneo – si iniziò il 27 ottobre con l’occupazione dei gangli vitali periferici, paralizzandosi con tale occupazione immediatamente preliminare ogni possibile reazione dall’esterno. Le forze fasciste destinate ad agire direttamente non potevano subito concentrarsi nei punti stabiliti e mirare all’obiettivo: Roma. Dei due elementi avversi, quando – dopo un simulacro di vana difesa tentato dal ministro Facta – il Partito Liberale abbassò le armi, anche l’altro elemento si affrettò ad imitarlo con un appello al proletariato nel quale caso veniva invitato a rimanere neutrale. La chiamata di Benito Mussolini a Roma da parte del Re rappresentava la vittoria senza combattimento. E le colonne fasciste procedevano in tal modo alla marcia su Roma senza trovare ostacoli, reprimendo solo qualche vano estremo tentativo di opposizione da parte di elementi sovversivi, con conflitti insignificanti nel vasto quadro della operazione con la quale il Fascismo si impadroniva del Governo. (…) Salvemini commenta: “Senza dubbio la marcia su Roma possiede alcuni degli elementi di un “colpo di mano” o di una “rivoluzione politica”, in quanto un gruppo di persone che non erano al potere, approfittando della debolezza del Re e della stupidità del Presidente del Consiglio, si impadronirono del Governo. Ma in una rivoluzione i capi militari rimangono fedeli al governo regolare e l’esercito è sconfitto dalle forze rivoluzionarie. Nel caso della marcia su Roma uomini che non erano al potere si impadronirono del governo con la connivenza delle autorità militari. Durante l’estate e l’autunno del 1922 i fascisti parlavano di imminente “colpo di Stato” e non di una “rivoluzione”. Definire come una “rivoluzione” la marcia su Roma, significa assolvere le autorità militari e lo stesso Re da ogni accusa di mancata fedeltà allo Statuto e contornare Mussolini di un alone di conquistatore rivoluzionario”. (Bianchi, p. 223-4)
IL PRIMO GOVERNO MUSSOLINI
Con l’incarico dato dal Re a Mussolini venne formato un governo e così tutto rientrava nell’alveo costituzionale. Quello che poteva sembrare una prova di forza, un tentativo rivoluzionario, un colpo di mano o, addirittura, di Stato, si era rivelato piuttosto come un avvicendamento di governi. Alla guida di esso veniva chiamato uno tra i più giovani rappresentanti della politica, che comunque si presentava come leader di un partito. Questo aveva, sì, fatto ricorso alla violenza, ma nella circostanza della marcia, che fu solo una mobilitazione di squadristi, non aveva fatto uso di essa e neppure di forzature delle leggi e della legge costituzionale, perché comunque il governo fu servito su un vassoio, senza che il futuro duce dovesse ricorrere a minacce o a colpi di mano. Il governo che Mussolini presentò al Re e poi alla Camera, era di fatto un governo di coalizione con una maggioranza non preventivata, ma comunque raggiunta al momento stesso di presentarsi in aula. Chi vi entrava ovviamente lo faceva per cooptazione del Primo Ministro, o per indicazione del Re, come nel caso dei militari presenti, e non certo in quanto designato da altri partiti o da altre forze in campo. Ovviamente ci sono dei fascisti, come pure un nazionalista; non mancano i popolari presi dall’area di destra del partito, quando in realtà il segretario, don Sturzo, non voleva aver niente a che fare. Erano stati coinvolti anche esponenti dell’esercito e tra essi il generale della Vittoria, Armano Diaz. Insomma, non si ebbe certo quello che i più scalmanati ed intransigenti fra i fascisti avrebbero voluto ottenere per la mobilitazione delle squadre paramilitari e per l’animazione di tanti attivisti del partito. Ma Mussolini mirava a prender tempo per avere progressivamente molto di più, senza dover lottare con il rischio anche di perdere e di non poter più rientrare in campo. Se nei primi atti sembrava dunque muoversi in un contesto di legalità, il suo primo discorso in Parlamento fu invece la manifestazione della vera natura del suo governo, che non cercava propriamente il consenso, ma dichiarava che poteva fare anche a meno della Camera stessa. Potremmo dire che già in queste sue parole affiora qual è, e soprattutto quale sarà, l’immagine che Mussolini intende dare del suo governo. Ma per essere tale devono ancora manifestarsi delle decisioni e soprattutto delle nuove leggi che decretano il passaggio alla forma del regime, sempre più incamminato a divenire altro e soprattutto ad esautorare, con il Parlamento, i partiti che l’elettorato aveva fin qui votato.
IL MITO E IL GIUDIZIO STORICO
Il 28 ottobre diventa una data significativa per i fascisti e già l’anno successivo veniva ricordata. Ma diventa una festa da celebrare solo quando il fascismo assume una evidente conformazione di regime, e quindi a partire dal 1925. Addirittura si comincerà a parlare di una nuova era, e a dividere il tempo da questo “spartiacque”, fino a imporre come datazione ufficiale quella del computo degli anni a partire da qui. Si continuò per tutto il ventennio a ricordare quell’evento in forme plateali e con manifesti celebrativi, dove veniva raffigurato anche quello che di fatto non era successo, ponendo il duce a capo del gruppo dirigente e nella posa di chi guida il suo popolo alla conquista del potere. Ma i fatti andarono diversamente e in quell’episodio non si può ravvisare la natura vera del fascismo, se non per la mitizzazione che ne viene fatta. Il regime compare dopo: si affaccia con il primo discorso alla Camera per ottenere la fiducia; si consolida con la legge che gli permette il premio di maggioranza per le elezioni successive; si afferma senza alcuna smentita con le dichiarazioni di Mussolini all’indomani del delitto Matteotti.
È una trasformazione progressiva che comunque aveva già tutti i suoi elementi eversivi, perché il DNA del partito lo muoveva in questa direzione. E tuttavia si tratta di un fenomeno che sarebbe stato possibile arginare, se tutti gli attori della scena politica avessero avuto più consapevolezza della reale consistenza del fenomeno, che presentava una ideologia arrogante nei toni, ma deficitaria nei contenuti
Quanto scarso fosse però il contenuto ideologico del fascismo (anche rispetto agli analoghi movimenti stranieri) è documentato dalla giustizia sommaria che di esso fece Giuseppe Prezzolini, osservatore attento delle cose italiane e, nei decenni successivi, accusato addirittura di silenzioso sostegno del fascismo. All’epoca della marcia su Roma Prezzolini rilevava che il fascismo non valutava i mezzi necessari, per portare avanti quella politica imperiale, di cui Mussolini cianciava ad ogni piè sospinto … In questa non eccelsa dottrina Prezzolini individuava un miscuglio di “camorra e brigantaggio”. E sul futuro era pessimista. Mentre molti suoi amici fascistizzanti, pur riconoscendo di qual genia, “tra canaglie ed idioti” si circondasse Mussolini, gli facevano credito di una mente superiore, mentre parecchi avversari di collaudato senno politico, come Salvemini e Turati, ne profetavano la caduta entro pochi mesi, Prezzolini vedeva nero. L’annientamento della vita italiana era tale, secondo lui, da non lasciare speranza per venticinque anni almeno. Il fascismo sarebbe caduto per i suoi sbagli, non per la forza dell’opposizione e da esso gli italiani non si sarebbero liberati altro che con un disastro nazionale. (Silvestri, p. 119)
Anche questo genere di valutazione a distanza rivela la debolezza nell’analisi del fenomeno e l’incapacità di avvertire dove e come si manifesta “il male” e quali debbano essere i rimedi più efficaci. Se l’analisi appare insufficiente, non possono esserci soluzioni adeguate: nel momento stesso in cui gli eventi si presentano e non sembrano così tragici – lo possono essere solo col senno di poi – neppure ci si rende conto che sta sorgendo un regime. Ben pochi se ne avvedono e comunque costoro ne avevano già il sentore, mentre non ritengono che questa marcia sia da considerarsi eversiva e foriera di chissà quali iatture. Poi il regime vi costruì il mito e la controparte si rese conto che una migliore gestione di quelle ore e di quei fatti avrebbe portato in ben altra direzione: tutto questo a riprova della cosiddetta “banalità del male”!
Comunque sia, col colpo di mano del 28 ottobre 1922, pur circondato da canaglie e idioti, Mussolini si mise anch’egli a fare la sua “rivoluzione legale”. Ma in un paese in cui coesistevano Vaticano e monarchia, spazio – anche pseudo rivoluzionario – ne restava ben poco.
Un ripetersi di frasi truculente, di aggressioni banditesche contro gli avversari dalla lingua più tagliente, molta polizia e, sul piano economico, un liberismo “manchesteriano”, che gli industriali salutarono con piacere: a ciò si erano ridotti i propositi rivoluzionari del 1919. (Silvestri, p. 120)
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Per noi oggi la parola “fascismo” risulta, nella considerazione pressoché universale, sinonimo di potere dittatoriale, di forma violenta dell’impadronirsi dello Stato e della conservazione del potere sempre in maniera assoluta, tale da precludere qualsiasi altro genere di partito e, più ancora, di una possibile alternanza al potere mediante l’esercizio del voto. In effetti così esso si è proposto e così si è imposto fino alla sua sconfitta, che viene a coincidere con la sconfitta militare della Germania nazista e dell’Italia fascista. C’è chi pensa che tale degenerazione subentri con il Patto d’acciaio stipulato tra i due Paesi, per il quale l’alleanza appare sbi-lanciata a favore della Germania, sia al momento in cui l’Italia entra in guerra nel 1940, sia e soprattutto quando essa, nella sua parte settentrio-nale e centrale, si trasforma nella Repubblica Sociale, meglio nota come Repubblica di Salò. In una simile visione l’errore commesso dal fascismo viene trovato nel suo allearsi con il nazismo e nella sua partecipazione al-la guerra che l’avrebbe degenerato con l’esaltazione delle forme violente e il ricorso alla oppressione e alla soppressione di quanti cercavano di re-sistere e di opporsi. Eppure le forme dittatoriali di questo partito erano già presenti in precedenza; e, nel suo stesso affacciarsi sulla scena del di-battito e del contenzioso politico, il ricorso alla violenza e alla soppres-sione anche fisica degli oppositori appariva come il metodo o il sistema da adottare. E questo non succede perché ci sono davanti oppositori che fanno altrettanto, anche se da parte di alcuni viene resa la pariglia, ma perché l’identificazione degli aderenti al fascismo, fin dalla prima ora, con molti degli “arditi” della guerra e con ex combattenti abituati a “menar le mani”, portava in questa direzione. Del resto Mussolini e i gerarchi, che lo affiancano e lo sostengono, spesso anche con più veemenza di lui nel parlare e nell’agire, si presentavano con i toni più accesi e facendo scate-nare violenze sfrenate che neppure si dimostravano in grado di contenere e di sopire. Analizzando l’evento che viene successivamente decantato come l’atto di fondazione del regime, viene da registrare che qui tali mo-dalità non risultano esercitate, perché tutto l’apparato militare messo in campo dall’apparato fascista per forzare la mano al governo e al Re, di fatto non viene scatenato; anzi, viene sciolto nell’immediato, dando così l’impressione che tutto si sia svolto nella legalità. Ma non fu così! Del resto la violenza ricompare e viene esaltata. Occorre prendere atto che molta della responsabilità degli eventi va data anche a chi non aveva colto la natura eversiva del fascismo, o, cogliendola, non voleva darle peso, lasciando così manovrare chi faceva ricorso alla forza brutale per la gestione della cosa pubblica, nei suoi mezzi e metodi, ma soprattutto nelle sue finalità e nella sua ragion d’essere e di operare. Così, se anche nell’analisi della marcia su Roma non è possibile trascurare il fatto che Mussolini non dovette forzare più di tanto gli eventi, comunque egli, sia prima, sia, e più, dopo di essa, ha fatto ricorso ad ogni mezzo pur di raggiungere l’obiettivo di diventare il capo assoluto e incontrastato del Governo del Paese. “Quanto è successo in Italia un secolo fa – scrive Giovanni Sale – deve farci riflettere e rendere più vigili e attenti alla difesa della democrazia e dei diritti delle persone … al fine di evitare, nella gestione della cosa pubblica, svolte autoritarie, sempre dannose per il bene delle popolazioni e degli Stati”.
BIBLIOGRAFIA
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DA PIAZZA SAN SEPOLCRO A PIAZZALE LORETO
Primo volume (1919-1924)
Vita e Pensiero, 1978
2.
Sergio Zavoli
NASCITA DI UNA DITTATURA
SEI, 1973
3.
Giovanni Sale SJ
A 100 ANNI DALLA “MARCIA SU ROMA”
Articolo de “La Civiltà Cattolica” n. 4135, pp. 10-23
4.
Mario Silvestri
LA DECADENZA DELL’EUROPA OCCIDENTALE,
III. Equilibrio precario (1922-1939)
Einaudi, 1979
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