L’interesse dell’Europa per l’Africa si fa più marcato a partire dal XV secolo, anche e soprattutto in riferimento alle terre abitate da popolazioni negroidi. Nel Medioevo l’Africa del nord, quella mediterranea, apparteneva al mondo musulmano, e come tale era preclusa all’occupazione da parte degli Europei. Solo con la presenza dei Turchi, lanciati nella loro avanzata in Europa, soprattutto dopo la conquista di Costantinopoli, aveva chiuso il Mediterraneo orientale e di fatto l’accesso al mondo indiano sempre più favoleggiato come la terra delle ricchezze e delle spezie. Di qui il bisogno di una nuova rotta, quella definita occidentale, che viene intrapresa in modo particolare dalla Spagna, navigando al largo dell’Oceano Atlantico. In competizione con essa il Portogallo cerca la via delle Indie sempre sull’Oceano Atlantico, ma muovendo attorno alle coste africane, sulle quale mette alcuni centri che costituiscono gli scali necessari per i rifornimenti e per l’esplorazione del territorio, l’Africa, comunque non conosce un particolare interesse diretto, anche se alcuni centri sulla costa vengono fondati per assicurare il passaggio alle navi dirette in Oriente. Nessuno si addentra, anche perché le aree insalubri e l’intrico delle foreste equatoriali impediscono questo genere di operazione. L’Africa acquista interesse quando la scoperta dell’oro, che la Spagna accumulava nelle terre americane, fornisce lo strumento per sostenere queste campagne, come pure le continue tensioni in Europa, dove le guerre, prima di natura dinastica e poi di natura religiosa nascondono le rivalità fra gli Stati alla conquista di un posto di prestigio. Le continue rivalità sul territorio europeo e la fissazione di voler acquisire le ricchezze in India, presto sostituita dalle nuove terre americane, avevano di fatto tenuto sempre più ai margini il continente africano, che ancora non diventa terra di conquista diretta e permanente, come succede poi nell’Ottocento.
Tutta questa serie di eventi spettacolari costituiscono la prima grande prova di coscienza dell’unità del pianeta, e poteva rappresentare l’inizio di una unione degli uomini per il progresso. Per l’Africa non si trattava forse dell’occasione tanto attesa per rientrare nel grosso della carovana umana? Al contrario, era l’inizio di un travaglio infinito: la rapina cinica e febbrile delle sue ricchezze, compresi gli uomini, durerà quattro secoli. (Ki-Zerbo, p. 260)
Già era noto che l’impero del Mali, ma anche le terre limitrofe, erano ricche di oro e che questo andava utilizzato per le nuove esigenze imperialistiche degli Stati europei, sempre alle prese con le nuove conquiste e soprattutto con le guerre. Era dunque necessario approvvigionarsi, se non altro perché nello stesso periodo la Spagna, con le sue conquiste americane, si rivelava lo Stato meglio provvisto di oro, a cui si poteva accedere mediante la pirateria. Congiunto alla depredazione dell’oro c’è il fenomeno della schiavitù, che non compare solo qui, ma era già diffuso nei tempi antichi ed era rimasto largamente sfruttato anche nel Medioevo, soprattutto con il fenomeno della pirateria mediterranea, resa più organica con le scorribande saracene a spese della popolazione rivierasca, che poteva essere riscattata se si trovavano le somme necessarie. Nei primi anni del secolo XIII ad opera di S. Pietro Nolasco (1189-1256), in Barcellona, si era fondato un ordine religioso, quello dei Mercedari, che si ponevano l’obiettivo di liberare i cristiani caduti in schiavitù degli arabi o dei saraceni. Sulla base di questo fenomeno gli Arabi, prima, e in genere i musulmani venivano riconosciuti come fautori dello schiavismo sia nei confronti della popolazione europea, sia, e in modo ancor più notevole con le popolazioni subsahariane, sempre più strappate dalla loro terra per diventare portatori di merci. Ma non si può escludere affatto che un simile fenomeno fosse sostenuto anche fra le popolazioni locali africane …
Il termine schiavo deriva com’è noto, dal fatto che nel corso del Medioevo specialmente gli Slavi dell’Europa centrale erano oggetto di vendita. Abbiamo anche visto come degli schiavi bianchi fossero al servizio dell’imperatore del Mali. In Africa la schiavitù esisteva, e in linea generale si distingueva tra schiavi domestici e schiavi di guerra, che dopo un certo periodo finivano per rientrare nella prima categoria. Indubbiamente nelle regioni africane dove l’evoluzione economica era maggiore, come intorno ai centri di Gianna e di Timbuctu, essa aveva assunto un carattere di marcato sfruttamento: talvolta un solo principe o un grosso mercante possedevano da cento a duecento schiavi, e probabilmente lo stesso accadeva nelle isole afro-arabe della costa orientale come Zanzibar. … Scrive monsignor Cuvelier; “L’istituzione della schiavitù come esisteva nel Kongo, appariva tollerabile”, e sottolineava che uno schiavo onesto e stimato poteva anche fungere provvisoriamente da capo. (Ki-Zerbo, p. 261)
Insomma, il fenomeno iniziale, pur con la presenza comunque di forme violente e di abusi e maltrattamenti, non appariva così deprecabile, se non altro perché ovunque tollerato.
Non si arrivava a tollerare che la ragione di una simile condizione di vita provenisse dall’appartenenza a religione diversa e che la schiavitù si potesse superare solo con l’apostasia e con l’adesione alla religione altrui.
LA TRATTA
A PARTIRE DALL’ATLANTICO
Il fenomeno della “tratta”, quella che fa diventare tanta parte della popolazione locale la massa dei diseredati che venivano brutalmente portati via alla propria terra e ai propri affetti per lavori disumani altrove, senza alcuna possibilità di riscatto, ha come manovalanza iniziale le tribù arabe penetrate nel continente nero, presto seguite o sostituite da una campagna ad hoc da parte dei Portoghesi, inizialmente, e poi da parte delle altre potenze europee, non tanto da utilizzare in Africa quanto piuttosto nelle nuove terre “scoperte”. Un simile fenomeno non può essere derivato dalla circostanza di avere vinto la guerra e quindi di poter ridurre i prigionieri a schiavi, ma di arrivare alla cattura di questi esseri umani, che tali apparivano nei loro tratti fisionomici, ma ridotti ad esseri inferiori, di cui del resto nelle università teologiche si poteva ancora discutere se avessero l’anima e proprio per questo se si dovessero considerare esseri umani. Superate simili remore, si organizzava la cattura e proprio per questo era necessario affidarsi a personale esperto, che potesse assumersi un simile lavoro sporco. Di qui le compagnie nate per questo apposito lavoro e, vista la richiesta degli Stati europei, la Compagna veniva approntata con questa finalità da avventurieri: se tendenzialmente la razzia nei villaggi e la trasferta dei prigionieri avveniva ad opera degli Arabi, poi messi in consegna alle compagnie europee, il trasferimento, soprattutto nelle colonie americane, avveniva ad opera degli Europei stessi che si premuravamo di tenere buono il carico per avere sempre di più e sempre meglio da vendere sui mercati americani. Il fenomeno aveva l’avvallo dei governi europei e non c’erano segnali di contestazione da parte dell’opinione pubblica, che, o non sapeva, o non aveva di fatto nulla da obiettare. Anche da parte della Chiesa non fu sempre lineare la questione, se non altro perché si discuteva in modo particolare in Spagna, se si potessero considerare esseri umani i neri d’Africa o i nativi d’America, ai quali si negava la presenza dell’anima. Questo giustificava l’utilizzo della loro mano d’opera nella forma della schiavitù.
Per favorire il commercio dei neri, razziati all’interno dagli Arabi e venduti poi sulle coste, si erano costituite le Compagnie apposite che poi creavano centri di smistamento lungo le coste Atlantiche dalle quali era più facile partire per dirigersi verso le coste americane.
Sulla costa africana i punti di attracco non avevano nulla dello splendore orgoglioso dei porti europei: c’era soltanto il centro commerciale difeso talvolta da un fortino, una vera e propria ventosa. Il centro aveva il vantaggio di per-mettere una più rapida rotazione della flotta per il fatto che i negri vi venivano ammassati in attesa dell’arrivo delle navi. Ma intorno a esso i principi locali esigevano diritti e “dogane” piuttosto elevati; tutta una teppaglia, talvolta razzialmente mista, di mediatori, di interpreti, di stregoni, di intermediari di ogni risma si moltiplicava in un brodo di cultura in cui la cupidigia e la scaltrezza si scontravano con il vizio e la crudeltà. Questi ladroni bianchi e neri se la intendevano alla perfezione … Il traffico avveniva perciò essenzialmente nelle stazioni, scali e centri commerciali che come una morsa di ferro attanagliavano tutta la costa dell’Africa nera; normalmente erano collocati in isole facilmente difendibili o su un’altura vicina alla costa, come Arguin, Gorée, le isole di Losa, Elmina, Fernando Poo, Sao Tomé, Luanda ecc.
(Ki-Zerbo, p. 265-6)
ISOLA DI GORÈE – SENEGAL
La descrizione del fenomeno è particolarmente drammatica, tenuto conto che si trattava di masse notevoli, più che mai ammassate nei magazzini, da cui uscivano per la compravendita, che considerava queste persone, senza più diritti e dignità, come degli oggetti da valutare per la loro rendita futura, soprattutto in riferimento all’utilizzo che si poteva avere da loro nelle coltivazioni americane. Ogni Paese rivierasco dell’Atlantico forniva il “materiale”, in relazione con il punto di approdo successivo e nella speranza che la navigazione non presentasse particolari difficoltà, anche per le eventuali rivolte di coloro che non avevano nulla da perdere.
La vita del campo di concentramento scatena nei neri, che fino a ieri si muovevano liberi nella loro boscaglia natale, delle rivolte selvaggiamente represse (…). I capi vengono aggiudicati soltanto dopo un esame anatomico dettagliato, complesso e approfondito che non risparmiano alcun organo degli schiavi, e dopo un mercanteggiare serrato; poi i neri sono marchiati a fuoco sul petto, i glutei o il seno con le iniziali del proprietario. Il marchio è indelebile. Quando il carico è completo hanno luogo altre separazioni perché molti partenti lasciano nei barracons dei loro cari ancora da vendere. Al momento di abbandonare il suolo natale e varcare la passerella della nave sono colti dalla disperazione: degli schiavi approfittano di un attimo di disattenzione per buttarsi in mare e annegare, altri si strangolano con le proprie mani. I restanti, rasati e nudi ad eccezione di un cache-sese per le donne, sdraiati l’uno contro l’altro, talvolta “a cucchiaio”, iniziano la grande traversata: sono così stretti che navigano letteralmente in un fango di sangue, di vomito e di deiezioni di ogni tipo.
(Ki-Zerbo, p. 269-270)
L’arrivo poi a destinazione non porta ad alcun cambiamento, perché la vita diventa più grama. Anche quando compaiono anime elette ad alleviare i loro disagi, si tratta di un breve momento di respiro che non modifica radicalmente la loro condizione di schiavitù. L’azione del prete gesuita san Pietro Clavier (1581-1564) a Cartagena di Colombia, da lui stesso descritta, non lo spinge alla denuncia dello schiavismo, che del resto non modificherebbe di molto la condizione di quella gente disperata. Da una sua lettera sentiamo il resoconto dell’arrivo degli schiavi …
Ieri, 30 maggio 1627, festa della SS. Trinità, scesero da un’enorme nave moltissimi schiavi negri provenienti dai fiumi d’Africa. Accorremmo, portando in due sporte frutti, limoni, dolci e non so cos’altro. Entriamo nelle loro capanne. Ci sembrava di entrare in una seconda Guinea! Dovemmo farci strada attraverso la massa di persone, finché riuscimmo ad arrivare fino agli ammalati il cui numero era altissimo: essi si trovavano distesi sul terreno umido, o piuttosto fangoso; perché l’umidità non fosse eccessiva, si era cercato di fare in modo di costruire un terrapieno, interponendo tegole e frammenti di laterizio. Questo dunque era il loro giaciglio, estremamente scomodo non solo per questo motivo, ma soprattutto perché erano nudi, senza alcuna protezione di vestito. Deposto il mantello, trasportammo dal magazzino delle merci quanto era necessario per mettere assieme un tavolato: e così riuscimmo a costruire un luogo dove portammo alla fine gli ammalati, passando a forza attraverso affollamenti di gente. Infine li dividemmo in due gruppi: dei primi si prese cura un mio confratello insieme ad un interprete, del secondo io stesso. Vi erano due negri, più morti che vivi, ormai freddi: non si riusciva neppure a trovare le pulsazioni delle vene. Per mezzo di una tegola raccogliemmo dei carboni ardenti e li portammo in mezzo, vicino ai moribondi; quindi su quel fuoco gettammo dei balsami odorosi, di cui avevamo due borse piene e che in quell’occasione consumammo completamente. E così, grazie ai nostri mantelli (essi infatti non hanno nulla di simile e invano ne avremmo chiesti degli altri ai loro padroni) cercammo di far respirare loro quei vapori. E infatti, grazie a quel calore sembrò che riprendessero vita. Bisognava vedere con quale gioia negli occhi guardavano verso di noi! In questo modo parlammo a loro, non con le parole, ma con le mani e con le opere: e certamente qualsiasi altro discorso sarebbe stato del tutto inutile per persone che erano persuase di essere state portate lì per essere mangiate.
Alla fine ci sedemmo, o piuttosto ci inginocchiammo presso di loro e ci mettemmo a lavare i loro volti e i loro corpi con il vino, dandoci da fare per allietarli con le moine e dispiegando davanti a loro i motivi naturali che in qualche modo possono portare i malati alla gioia. In seguito cominciammo a spiegare loro il catechismo inerente il battesimo, e cioè i suoi effetti mirabili per il corpo e per l’anima. Quando, in base alle risposte che davano alle nostre domande, ci sembrò che avessero sufficientemente compreso, passammo a un insegnamento più approfondito circa l’unicità di Dio che distribuisce i premi e le punizioni secondo i meriti di ciascuno, e tutto il resto. Chiedemmo loro di fare un atto di contrizione e di manifestare il pentimento per i peccati commessi. Infine, quando sembrò che fossero sufficientemente preparati, spiegammo loro il mistero della Trinità, dell’incarnazione e della passione e, mostrando loro Cristo confitto in croce, così com’è dipinto sopra il fonte battesimale nel quale defluiscono dalle ferite di Cristo rivoli di sangue, li prevenimmo, recitando nella loro lingua l’atto di contrizione.
Ci vorranno secoli perché ci si renda conto dell’estrema gravità del male. E anche quando vengono scritte leggi per l’abolizione della schiavitù, questo fenomeno non scompare del tutto, neppure nell’Europa illuminista e rivoluzionaria che ribadisce i sacrosanti diritti dell’uomo. Grazie a queste idee e insieme anche all’esaurirsi della domanda, per il semplice motivo che costava meno far crescere la popolazione nera in America, piuttosto che comprarla sul mercato degli schiavi, la questione della tratta prese una piega diversa, soprattutto nella prima parte del secolo XIX.
La domanda di schiavi, naturalmente, dipendeva dalla vasta espansione di piantagioni a elevato impiego di manodopera che gli Europei avevano sviluppato nelle Americhe. Nell’ultimo periodo del XVI secolo il Nuovo Mondo superò l’Europa e le isole dell’Atlantico e del Golfo di Guinea come mercato per gli schiavi africani. Ma la sua capacità di assorbimento di manodopera africana rimase bassa, finché negli anni quaranta del Seicento, non fu rotto il monopolio iberico del suo sfruttamento, grazie all’intervento della Compagnia olandese delle Indie occidentali. Da quel momento il numero degli schiavi africani portati nelle Americhe crebbe costantemente fino intorno agli anni novanta del Settecento, quando le guerre rivoluzionarie e napoleoniche francesi iniziarono a interrompere il traffico attraverso l’Atlantico. Con il ritorno della pace, nel 1815, la tratta atlantica degli schiavi prese a rifiorire. Ma gli europei avevano incominciato a interrogarsi attivamente sulla moralità di commerciare esseri umani e, dal momento che nel frattempo le loro economie più prospere avevano raggiunto uno stadio in cui l’investimento in schiavi sembrava meno rimunerativo di quello in altri mezzi di produzione, presero provvedimenti per bandire la tratta degli schiavi.
Durante la prima metà dell’Ottocento questi provvedimenti iniziarono a produrre qualche risultato a nord dell’Equatore (…) Considerando la tratta atlantica degli schiavi, gli storici, e non soltanto loro, per molto tempo ritennero che il numero degli schiavi africani portati nelle Americhe dovesse ammontare almeno a 15 milioni di persone e che anzi potesse essere stato di molto superiore. (Fage, p. 294-295)
LA TRATTA VERSO L’ORIENTE
Sull’altro versante, nella direzione dell’Oceano Indiano, il fenomeno non è da meno, ma non ha la documentazione che viene registrata nei territori dove operano gli Europei. Il fenomeno della tratta in genere fa pensare alla presenza e all’azione di Arabi che si occupano di queste razzie, per garantire quantità notevoli di schiavi da immettere sui mercati orientali come manodopera essenziali per certi generi di lavoro, in modo particolare laddove sono ricercati i beni dei mercati indiani. Il fenomeno si conserva per parecchio tempo, anche perché non esistevano remore di ordine morale e non veniva meno il bisogno di possedere schiavi, così come non erano pericolosi e dispendiosi i trasferimenti.
Lo sviluppo della tratta dell’oceano Indiano, all’inizio del XIX secolo, coincide con un notevole consolidamento del potere degli omani (abitanti dell’Oman) sulla costa orientale, che cominciò verso la fine del secolo precedente e culminò nel 1840 con il trasferimento del loro principale centro di governo da Muscat a Zanzibar. Questo spostamento, grazie anche al sostegno finanziario dei mercanti indiani residenti a Zanzibar determinò un periodo di sviluppo del tutto nuovo, durante il quale le carovane arabo-swahili della costa penetrarono nell’interno, raggiungendo i grandi laghi dell’Africa orientale, e infine l’alto Congo.
(Fage, p. 299-300)
Nella ricostruzione del fenomeno è facile scaricare la colpa sugli Arabi, a cui si addebita l’organizzazione del fenomeno, e a cui si sarebbero accodati gli Europei, soprattutto quando si avverte l’assoluta necessità di questa manodopera nelle coltivazioni d’oltre oceano. Esse ancora dipendono dalle potenze coloniali, che sono per questo le vere artefici di un fenomeno sempre in crescita, nonostante le valutazioni di ordine morale, perennemente contrastate da chi non si faceva scrupolo di gestire e di far crescere il commercio.
Le prese di posizione dopo la Rivoluzione francese non impedirono del tutto la tratta, che trafficanti senza scrupoli facevano operare agli Arabi, anche se poi il beneficio rimane agli Europei e più che mai nelle colonie americane, dove in alcuni Stati era rimasta come pratica almeno tollerata, ma certamente ancora molto diffusa. E va pure segnalato che le stesse popolazioni locali, quando si resero conto del lucro che se ne poteva avere, non ebbero scrupolo di gestirlo a svantaggio di altre popolazioni rese schiave a motivo delle guerre locali e dei traffici di commercio locale. Furono insomma negrieri anche tribù di neri contro altre tribù.
Se la tratta atlantica avesse dovuto dipendere solo dai rastrellamenti degli europei, non sarebbe mai diventata un’impresa redditizia. A loro eterna vergogna, gli africani stessi si misero a procacciare schiavi agli intermediari europei, usando non tanto la forza delle armi, quanto quella della tradizione e dell’autorità politica. I capi e i ceti abbienti approfittarono di persone che la pratica consuetudinaria aveva reso schiave all’interno dell’economia indigena (pratica che perlomeno assicurava vantaggi a tutte le parti in causa), vendendole fuori del paese in cambio di merci che portavano benefici solo a loro stessi.
(Reader, p. 385)
Gli storici tendono spesso a considerare l’attività di fornitura degli schiavi prerogativa esclusiva di un ceto africano ricco e potente. Questo poteva essere vero per Stati come l’Asante, il Dahomey e il Benin, ed era certamente vero che le famiglie che controllavano i porti si arricchivano chiedendo ad ogni nave un pagamento in merci di valore variabile dai cinquanta ai cento schiavi solamente per il permesso di commerciare …
(Reader, p. 395)
LE PROPORZIONI DEL FENOMENO
Non sarà mai possibile quantificare questo fenomeno, nemmeno a partire dai registri che pur si tenevano delle persone tradotte sulle navi, trasferite altrove e vendute sui mercati. Non è possibile neppure fare un computo di coloro che morti per stenti o per malattie, e sottrattesi per suicidi o per fughe da un simile inferno sono stati comunque essi pure elementi di un dramma decisamente molto vasto. Anche in questo caso si può parlare di “olocausto”, se non di un genocidio programmato, che andrebbe valutato in relazione alla tribù di appartenenza: non c’era la volontà di voler estirpare dalla terra una popolazione piuttosto che un’altra, e neppure l’intento di cancellare una razza, ma di fatto deportazioni in massa e decimazioni hanno depauperato la demografia africana per secoli.
Il fenomeno, nato per iniziali ostentazioni di ricchezze, poi diventa una esigenza di lavoro in relazione alle diverse attività produttive, che devono servire laddove la manodopera diventa necessaria per incrementare la produzione, ma anche laddove il mercato cresce ed esige che si mettano in campo i prodotti sempre più richiesti. La manodopera a sottocosto consente una commercializzazione più ampia e più accessibile e proprio per questo il fenomeno non si riduce affatto neppure quando intervengono voci di condanna. Queste sono spesso isolate e inascoltate e comunque rimangono senza alcun segno di resipiscenza e di costruttivo cambiamento.
Il grande boom della richiesta di schiavi nella seconda metà del Seicento si accompagna a una graduale tendenza dei prezzi a salire, causata specialmente dall’aumento della concorrenza nel settore: infatti agli olandesi e ai portoghesi vanno ben presto affiancandosi interessi di diversi altri paesi europei, con netta prevalenza di Francia e Inghilterra. Fra il 1730 e il 1790 il prezzo medio è ormai salito a 25 sterline. Gli introiti dei venditori africani crescono grandemente, ma a metà Settecento l’aumento del costo reale di approvvigionamento comincia a incidere fortemente, provocando un mutamento della domanda nel senso di un maggior equilibrio nell’importazione fra uomini e donne, così da favorire la riproduzione della popolazione schiava nei luoghi di piantagione. Questa evoluzione accelera la stabilizzazione delle comunità di neri in America – peraltro già ampiamente in atto – e provoca una riduzione sensibile della pressione di sfruttamento con misure volte a incentivare le gravidanze e favorire la vita familiare e con un miglioramento nelle condizioni di vita. L’esportazione di schiavi tocca il culmine negli anni ottanta del XVIII secolo: secondo la stima di Lovejoy, sarebbero stati 797.000 durante i dieci anni. Nell’ultimo decennio del Settecento la riproduzione naturale della manodopera schiava americana determina una rimarchevole riduzione della domanda di rimpiazzo con nuovi elementi importati dall’Africa.
(Calchi Novati, p. 114)
Per giungere ad una più chiara, solida, rafforzata e condivisa convinzione circa l’immoralità di queste operazioni, bisogna arrivare all’Ottocento, quando non dovunque si arriva alla decisione di abolire simili interventi e soprattutto di operare azioni di contrasto e di contenimento di quanti continuavano una simile pratica. Anche le dichiarazioni scritte e le leggi volte all’abolizione della tratta non furono subito efficaci e si ebbero contraccolpi drammatici in certe nazioni, come è avvenuto a proposito della guerra civile negli Stati Uniti, una delle cui cause fu dettata dall’intervento del governo federale per l’abolizione della schiavitù e per l’affermazione della parità dei diritti fra bianchi e neri, mai pienamente raggiunta, se ancora se ne parla e ci si scontra negli anni ’60 del secolo scorso.
La stessa Chiesa Cattolica nel suo magistero interviene tardivamente e in modo inefficace, proprio per la presenza di interessi notevoli che si faticava a contrastare. Si cercò pure una forma di riparazione, favorendo il rientro di alcuni ex schiavi neri, che aspiravano al recupero della terra d’origine per rifarsi una vita all’insegna della libertà. Nasce così il territorio libero sulle cose del Golfo di Guinea, dove si sognava che potesse sorgere un Paese all’insegna della libertà e che potesse diventare esempio per le popolazioni locale. Ovviamente le potenze coloniali europee che avevano costruito e stavano consolidando il loro impero proprio in Africa non erano certo favorevoli a questa operazione.
LA LIBERIA
La storia della Liberia come entità politica comincia con l’arrivo dei coloni afro-americani che stabilirono una colonia di “liberi uomini di colore” sulle sue coste nel 1822 sotto il controllo della American Colonization Society. Le radici storiche in cui una certa maggioranza degli odierni liberiani ritrova la sua identità, comunque, affondano nelle differenti tradizioni dei numerosi gruppi tribali in cui si dividevano le tribù indigene: i coloni dovettero infatti affrontarle per guadagnare uno spazio sulla costa africana ed estendere successivamente il loro controllo sulle regioni interne. Il 26 luglio 1847 gli americani-liberiani dichiaravano l’indipendenza della Repubblica di Liberia.
I coloni vedevano nel continente africano, dal quale i loro avi erano stati deportati, la “terra promessa”, ma non mostravano intenzione di reintegrarsi nella società e nel metodo tribale africano. Si riferivano a sé stessi come «americani» e furono riconosciuti come tali tanto dalle autorità tribali africane quanto dalle autorità britanniche delle colonie vicine. Tutti i segni e i simboli del nuovo Stato riflettevano la dipendenza dagli USA e lo stesso tipo di governo fu plasmato su quello statunitense. Questi ideali coloravano in modo preponderante le abitudini dei coloni verso gli autoctoni: il nuovo Stato aveva l’estensione superficiale delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati, per cui grandi porzioni della storia della Liberia trattano i tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. Il Paese fu chiamato “Liberia”, per dargli il carattere di “terra degli uomini liberi”. La fondazione della Liberia fu finanziata da gruppi filantropici e religiosi americani, ma la colonia godette del supporto e della cooperazione non ufficiale del governo statunitense. Il governo liberiano, modellato su quello degli Stati Uniti, era democratico nello stile, per quanto non sempre nella sostanza. Due problemi che le amministrazioni liberiane dovettero affrontare furono soprattutto le pressioni delle nazioni coloniali vicine, e la minaccia di insolvenza finanziaria: entrambe le problematiche minacciarono seriamente la sovranità del Paese, poiché perse il controllo di alcune regioni all’interno che furono annesse alle colonie inglesi e francesi. Lo sviluppo economico fu poi pesantemente ritardato dal declino dei mercati per le materie prime su cui si basavano le esportazioni liberiche, e dall’indebitamento per una serie di prestiti, il cui rientro prosciugò l’economia nazionale. (da Wikipedia)
Di fatto furono relativamente molto pochi coloro che rientrarono in Africa e non furono certo coloro che erano partiti in catene. Per la maggior parte i territori dove si erano trasferiti e dove, raggiungendo la libertà, si erano fermati, divennero la casa e la patria abituali. Rimase comunque la questione della integrazione, non ancora pienamente raggiunta in certe aree, anche quando le leggi ribadiscono la parità dei diritti e la pari opportunità di sviluppo. Si crea comunque una certa contiguità tra bianchi e neri, che dà origine anche al meticciato e all’assunzione di alcuni elementi culturali, che permettono ad alcuni di conservare le tradizioni dei paesi di origine. Ma anche ad avere alcune affinità, ormai i neri d’America, discendenti degli schiavi di un tempo, si sono ben integrati e nessuno di essi coltiva il desiderio di tornare nel continente di origine. Studi storici , libri romanzati e film a tema, hanno cercato di recuperare le origini senza per questo suscitare interessi particolari per recuperare con le origini il desiderio di tornare là dove tutto era partito.
La trasformazione è stata tale, spesso anche in termini molto positivi, da scongiurare un esodo verso l’Africa, pari a quello che è successo a molti ebrei di rientro nella terra di Israele.
LE CONSEGUENZE DELLA TRATTA
IN AFRICA
È immaginabile che il fenomeno abbia prodotto in loco un notevole depauperamento un po’ in tutti i campi. Certamente già sotto il profilo demografico, non solo abbiamo numeri esorbitanti di morti e di schiavizzati, che a ricorrenti ondate queste razzie creano la mancanza di generazioni in grado di assicurare il futuro, anche semplicemente umano, con la difficoltà, poi, ad assicurare non solo la continuità delle figure umane, ma anche di una tradizione e di una cultura, che è alla base del cammino umano. Sono altresì sottratte braccia lavorative insieme con le genialità che servono a migliorare metodi e mezzi di lavoro. Ovviamente questo si traduceva pure in un radicato impoverimento un po’ in tutti i campi, e la prospettiva di continue razzie non consentiva neppure sui tempi lunghi delle condizioni di vita migliori. Insieme con la paura si inoculava l’odio, e si coltivava il risentimento, poi tradotto in violenze e guerre, soprattutto quando le tribù vicine, coinvolte nei rapimenti, potevano scatenare successivamente la reazione vendicativa.
“Per la nostra criminale avidità – scrive un testimone dell’epoca – questi popoli sono stati trasformati in bestie feroci, fanno la guerra tra di loro e si sterminano a vicenda soltanto per vendere i compatrioti a barbari padroni. I sovrani stessi considerano i propri sudditi come merce che è utile a procurarsi ciò che per capriccio desiderano”.
(Ki-Zerbo, p. 277)
È in effetti una rovina umana e morale non facilmente superata, se non per valori più alti. Per chi ne ha provato le acute sofferenze, non solo fisiche, anche quando venivano meno le violenze e si sperimentava la libertà, il ricordo di esse erano rivelate dai segni inferti nella carne stessa, ma nel contempo la memoria segnava profondamente lo spirito e si faticava a trovare un senso a quello che si era sperimentato, anche perché indubbiamente non è possibile dare una spiegazione a simili orrori. Ben pochi hanno sa-puto trovare le parole per raccontare, perché anche in simili circostanze si preferisce tacere e non trascinare dentro di sé un’amarezza incancellabile.
È ben noto il caso della bambina definita poi “moretta”, originaria del Darfur sudanese, che dopo aver vissuto un’odissea drammatica in mano ai razziatori arabi, viene venduta al console italiano. Appartenente alla tribù nubiana dei Daigù, nacque intorno al 1868 nella regione del Sud Darfur in Sudan. Fu catturata dai negrieri arabi all’età di nove anni, messa all’asta come schiava e venduta cinque volte nei mercati di schiavi del Sudan. Affrontò estenuanti viaggi, subì atroci sofferenze, percosse e umiliazioni e fu tatuata per incisione in tutto il corpo. I suoi rapitori la definirono “Bakhita”, cioè “fortunata” e questo rimase il suo nome, anche quando passò tra le mani del console italiano Callisto Legnani. Per la prima volta dal giorno del suo rapimento si accorse, con piacevole sorpresa, che nessuno, nel darle comandi, usava più lo staffile; anzi la si trattava con maniere affabili e cordiali. Nella casa del Console, Bakhita conobbe la serenità, l’affetto e momenti di gioia, anche se sempre velati dalla nostalgia di una famiglia propria, perduta forse, per sempre. Situazioni politiche costrinsero il Console a partire per l’Italia. Bakhita chiese ed ottenne di partire con lui. A Venezia conobbe le Madri Canossiane, che la preparano al battesimo. Poi ottenne di entrare nell’Istituto religioso, rimanendo in esso, a Schio, fino alla morte, avvenuta l’8 febbraio 1947, già riconosciuta dalla gente locale come “santa”. Alcune sue espressioni, spruzzate di veneto, lasciano trasparire le sue amare esperienze di schiavitù, senza che vi si possa trovare risentimento di alcun genere …
In un convegno di giovani, uno studente bolognese le chiese: “Cosa farebbe se incontrasse i suoi rapitori?”. Senza un attimo di esitazione, rispose: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani; perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa”. Continuando il discorso sullo stesso argomento, non solo ne benediceva la provvidenziale mediazione nelle mani di Dio, ma li scusava in questi termini: “Poveretti, forse non sapevano di farmi tanto male: loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene, così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria”. Nelle sofferenze non si lamentava; ricordava quanto aveva patito da schiava, “Allora non conoscevo il Signore: ho perso tanto tempo e tanti meriti, bisogna che li guadagni ora…
Evidentemente sono casi più unici che rari, perché per la maggior parte è stata una esperienza dolorosa, che non è finita neppure quando generazioni più avanti viene raggiunta la libertà e con essa il riconoscimento dei diritti. Ma di rientro in Africa non si parlò mai, se non per il caso già noto della Liberia e di coloro che misero in essere questa realtà quale risarcimento delle violenze patite.
IN AMERICA
In genere il fenomeno della tratta viene considerato in riferimento a coloro che sono trascinati in catene verso le Americhe e lì dovettero sottostare ad un regime di schiavitù piuttosto duro e in modo particolare sottoposti ad un lavoro massacrante, che li vedeva impegnati nelle piantagioni di cotone o di canna da zucchero, la cui esportazione verso i Paesi europei sarà più facile in ragione dell’enorme quantitativo prodotto.
Al suo arrivo lo schiavo negro era già stato privato del proprio nome, diviso dalla propria famiglia e dagli appartenenti alla sua tribù. L’anonimato della schiavitù, la rapida dispersione e rotazione di questi operai li sottoponeva a una tale atomizzazione da ridurli a oggetti immersi nell’alienazione assoluta. Assenza di qualsiasi rapporto sociale. Le donne, che, come in Africa, lavoravano nella piantagione e nella casa, svolsero oltre al loro ruolo economico anche una funzione biologica, sociale e culturale di primo piano; numericamente molto inferiori agli uomini (il rapporto era di una donna su due, cinque o anche quindici uomini), esse furono davvero la moglie e la madre comuni: più legate ancora degli uomini al continente perduto, le loro nenie, le loro storie, le loro danze furono per secoli l’unico filo, fragile ma infrangibile, che faceva da ponte con l’Africa. La rotazione geografica e cronologica degli schiavi era tale che se la donna non fosse stata più stabile molti elementi dell’eredità negro-africana sarebbero scomparsi. La vita media di uno schiavo era tra i cinque e i sette anni. Nonostante gli aborti e gli infanticidi l donna africana ha svolto una funzione storica nel senso della sopravvivenza biologica e culturale, in ragione della scarsità delle donne bianche e nonostante i decreti di endogamia che, come quello del 1778 nelle Antille francesi, proibivano il matrimonio misto, la donna nera diventò spesso la donna, la madre o quantomeno la nutrice del padrone della “casa grande”. Il bianco latte che scaturiva dal corpo d’ebano abbeverava tutto quel mondo eterogeneo di umori negro-africani, senza però riuscire a inculcarvi il senso dell’eguaglianza.
(Ki-Zerbo, p. 279-280)
Uno dei Paesi americani che per primi, dopo gli Stati Uniti, conobbe l’indipendenza fu la parte francese di “Ispaniola”, la terra scoperta da Colombo nei suoi viaggi e così chiamata. Essa poi, occupata da uomini di lingua spagnola divenne S. Domingo, mentre la parte prospiciente Cuba, occupata da uomini di lingua francese, bucanieri di professione, diede origine ad Haiti, così chiamata nella lingua locale.
Il legame con la Francia li portò a risentire degli effetti rivoluzionari, con la richiesta dei diritti fondamentali, che furono accordati, tranne a quanti erano ancora schiavi. Il passo per il riconoscimento dell’indipendenza fu breve e così si poté assistere al sorgere di uno Stato in gran parte fatto di meticci e di popolazione nera. La storia di Haiti è stata comunque travagliata, nonostante abbia avuto presto l’indipendenza e nel contempo un cospicuo numero di neri e di meticci a formare il primo Stato di popolazione nera con autogoverno.
FORME NUOVE DI SCHIAVITU’
Il fenomeno non è mai totalmente sparito, nonostante le alte dichiarazioni in tal proposito e i decreti redatti nei diversi Paesi e negli organismi internazionali. Di fatto è al Congresso di Vienna (1815) che si affronta la questione, proprio in un consesso dove si volevano abolire tutte le novità provenienti dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica. Su questo argomento si ebbe invece la convergenza nel volere l’abolizione del ricorso alla tratta. Se almeno formalmente e per decreto il fenomeno tende a scomparire, di fatto nel continente africano stesso si assiste ad un prolungamento del fenomeno sia dove prevalgono gli arabi, sia dove i neri stessi nei loro villaggi proseguivano con questa pratica: se qualcuno di essi cadeva nella schiavitù ciò si verificava a motivo dell’indebitamento, come era sempre successo e come viene pure registrato nel testo biblico. Qui poi si prevedeva anche un intervento di carattere religioso per garantire, dopo un certo periodo, il ritorno alla libertà. Lo stesso fenomeno del Giubileo, di cui si racconta nel libro del Levitico, avrebbe dovuto avere questa funzione e questa valenza sociale, che tuttavia non facilmente si riusciva a praticare.
Levitico 25,35-46
Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te, sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi né utili, ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, per darvi la terra di Canaan, per essere il vostro Dio. Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un ospite. Ti servirà fino all’anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri.
Essi sono infatti miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo tratterai con durezza, ma temerai il tuo Dio. Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava. Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi, tra i loro figli nati nella vostra terra; saranno vostra proprietà. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai vostri fratelli, gli Israeliti, nessuno dòmini sull’altro con durezza.
Quanto si trova qui scritto non è di facile realizzazione ed in effetti il Giubileo ebraico rimane sulla carta, mentre quello cristiano, introdotto nel 1300, si pone anche questi problemi di natura sociale, che danno alla religiosità un contenuto umano di grande portata e valore. Ancora oggi viene richiamato il dovere di giungere ad un intervento circa l’indebitamento di certi Stati – e questi sono in gran parte da Terzo mondo e in particolare nel continente africano – perché possa essere ripianato. Se si è creato nel tempo, ciò lo si deve anche a partire da una politica predatoria nei confronti dei Paesi africani ad opera di sistemi e di organizzazioni senza scrupolo. Anche in queste situazioni l’indebitamento continua e di fatto in altro modo si perpetua il sistema della schiavitù, eliminata per decreto, ma non altrettanto nella pratica. Si continua a pensare al fenomeno aberrante del passato, e questo viene liquidato con gli interventi fatti nei secoli recenti; ma i problemi permangono, spesso incancreniscono e trovano forme più sofisticate di ripresa che richiedono urgenti riforme, se non si vuole che la tensione sociale salga e si trasformi in violenza incontenibile. Il fenomeno dello schiavismo come si era attuato in occasione delle scoperte in America o delle occupazioni in Asia, di cui ha fatto le spese la popolazione nera dell’Africa, sembra sparito nell’Ottocento, quando il colonialismo europeo assume un altro tipo di intervento. Il territorio africano diventa terra di conquista per le nazioni europee, che sono affamate di materie prime, men-tre nel proprio territorio, oltre alla crescita demografica, si ha bisogno di beni da usare nelle fabbriche per accrescere la propria potenza economica, politica e militare. Così continua il sistema che riduce di fatto in schiavitù la popolazione locale. Il caso dell’“Etat libre du Congo”, monopolio assoluto del re del Belgio, Leopoldo II (1835-1909) che lo possedeva a titolo personale, riducendo di fatto la gente locale in schiavitù, è emblematico di questa particolare concezione del colonialismo, che richiedeva correttivi.
Questi furono imposti dalle altre potenze al Belgio, il quale non ha minimamente preparato il Congo a raggiungere nel 1960 la sua indipendenza, mancando affatto di gruppi dirigenziali nella conduzione dello Stato, rimasto, ancora oggi, nei continui cambi di regimi, un paese fragile e impoverito, pur essendo tra i più ricchi della terra. Per quanto le potenze coloniali europee non facciano più ricorso alla schiavitù e ai fenomeni di tratte di persone come nel passato, ci ritroviamo comunque con interventi che sottopongono i territori e le popolazioni locali ad un continuo “dissanguamento” di beni e di forze, ancora non del tutto esaurito, anche ad essere finito da tempo il colonialismo. Se non esiste propriamente la tratta delle persone in maniera diretta, si ha comunque quel genere di spostamento della popolazione che va alla ricerca di lavori e di forme di ricchezza, che vengono negati oggi nel continente. Il fenomeno della migrazione, così tanto deprecato e divenuto la preoccupazione principale e assillante dei Paesi europei, che presenta immagini molto simili a quelle dello schiavismo d’altri tempi, nel contempo diventa una questione seria da affrontare, sia perché questa forza-lavoro appare necessaria laddove non esistono più lavoratori in particolari settori, sia perché il decremento demografico in Europa richiede un rincalzo di tipo generazionale da affrontare in modo serio e soprattutto urgente. Se nel passato il fenomeno è stato trattato nella maniera più brutale, oggi questo sistema non è più possibile, e tuttavia si può rischiare una tale tensione sociale, che non è possibile padroneggiare. Va pure rilevato il fenomeno della nuova tratta costituita da donne asservite con la prostituzione sui mercati occidentali, che appaiono remunerativi e per nulla rispettosi della dignità delle persone.
CONCLUSIONE
Anche se il commercio degli schiavi non ha inciso negativamente sulla crescita della popolazione nera nel suo complesso fino ai limiti estremi delle stime più pessimistiche, non c’è dubbio che l’abbia sostanzialmente ritardata o addirittura bloccata per circa due secoli. Una battuta d’arresto che, tradotta in termini generali di capacità di sviluppo delle società e delle economi, è tanto più gravida d’implicazioni per il futuro del continente, intanto perché il problema della crescita della popolazione è sempre stato un tema centrale nella storia dell’Africa e poi perché nel medesimo periodo altre parti del mondo conobbero tassi eccezionali di aumento demografico, in particolare l’Estremo Oriente. Considerando l’insieme d’Europa, Americhe, Medio Oriente o Africa, la proporzione degli Africani sul totale scende del 30 per cento del totale nel 1600 a poco più del 10 nel 1900.
(Calchi Novati, p. 119)
BIBLIOGRAFIA
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Joseph Ki-Zerbo
STORIA DELL’AFRICA NERA
Un continente tra la preistoria e il futuro
Ghibli – 2016
2.
John Reader
AFRICA
Biografia di un continente
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3.
John Fage
STORIA DELL’AFRICA
Sulle tracce di una leggenda
Odoya, 1995
4.
Gian Paolo Calchi Novati – Pierluigi Valsecchi
AFRICA: LA STORIA RITROVATA
Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali
Carrocci editore, 2016
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