Storia del Cristianesimo: TERTULLIANO

UTE DI ERBA

STORIA DEL CRISTIANESIMO

TERTULLIANO

APOLOGETICO

DE PRAESCRIPTIONE

HAERETICORUM

INTRODUZIONE:

FORTE PERSONALITA’

Quest’uomo sembra un masso erratico, perché la sua figura è indubbiamente molto forte, quasi granitica nel suo pensiero, e nello stesso tempo, anche per il suo carattere intemperante, si è trovato spesso isolato, un po’ contro tutti. Lo dobbiamo considerare tra i primi scrittori cristiani, ed è già notevole per la sua maestria nello scrivere e per la sua abilità nell’argomentare, riconosciuto come una penna ineguagliabile, da ammirare, senza per questo lasciarsi irretire nei suoi guizzi che lo fecero tenere lontano anche da chi in precedenza lo esaltava e avrebbe voluto seguirne il percorso di fede. È indubbiamente uno scrittore di vaglia, e proprio per questo non lo si può ignorare; ma si fatica a collocarlo dentro particolari schemi, rivelandosi un polemista non catalogabile, che può anche piacere, ma fa tenere comunque a debita distanza. Per tante sue opere, ancora oggi consultate, la Chiesa lo considera un valido esponente della sua dot-trina, anche se non tutte le opere si possono considerare entro i limiti dell’ortodossia. Noi lo dovremmo collocare tra i Padri della Chiesa, quelli che nei primi secoli, anche quando la persecuzione divampa, scrivono per chiarire le posizioni, per confutare gli attacchi, sia dei pagani, sia degli ebrei, che vi leggevano idee settarie, segnate dal fanatismo. Anche lui, come già alcuni scrittori del II secolo, ha cercato di mettere a profitto le sue abilità oratorie, per elaborare una dottrina che si potesse rivelare sicura, dando spazio alle sue conoscenze in diversi ambiti del suo sapere davvero enciclopedico. Nonostante la buona fama iniziale non ebbe guai, che potessero far presagire un attacco della persecuzione da parte del potere politico. La Chiesa riconobbe il suo ruolo di difensore della nuova fede religiosa, anche e prevalentemente nei confronti del mondo filosofico e religioso coevo, ma non gli diede alcun titolo onorifico e soprattutto non lo proclamò santo, come avvenne per altri, per le scelte che fece, abbandonando la retta fede. Questo non impedisce di valutare correttamente quanto egli scrisse in difesa della fede cattolica, che ancora oggi rimane per la Chiesa un riferimento non trascurabile. Risulta un personaggio di rilievo, con abilità in diversi campi e comunque battagliero nel proporre le proprie convinzioni, anche quando esse lo rivelano con una vena polemica che fatica a conservare un certo equilibrio. Questo non impedisce di riconoscergli una notevole bravura e di poter diventare una autorità di tutto rispetto, quando le sue posizioni risultano condivisibili.

È da segnalare che viene da un ambiente che noi dovremmo considerare periferico e addirittura atavicamente ostile al mondo romano, il quale secondo miti consolidati l’aveva sempre temuta e definitivamente sconfitta, e comunque da tenere sotto controllo per evitare che avesse ancora spazio per ripristinare le sue fortune. Ma sul finire del II secolo d. C. questa area geografica fornisce in diversi ambiti coloro che continuano l’eredità di Roma sia nel campo politico, sia, e soprattutto, nel campo culturale. Quando Tertulliano è nel pieno della sua attività, la dinastia che prende il potere a Roma è quella dei Severi, originari della Libia: per un quarantennio sono loro a dominare la scena, con il sostegno dell’esercito, e nel contempo con le aperture al mondo orientale, che fa diventare Roma una città veramente cosmopolita. Nello stesso periodo, sulle coste africane la nuova religione cristiana, dimostra non solo di attecchire, ma di entrare in certi ambiti esclusivi, soprattutto in famiglie di buona posizione, sia nell’ambito finanziario, sia in quello culturale. Le figure più significative emergono proprio in questa zona e lasciano documenti di grande valore, rivelando una immagine della nuova fede, che trova facilmente adepti non solo tra quanti avvertono nel nuovo credo un richiamo alla propria personale valorizzazione e liberazione, per un riscatto sociale; anche coloro che non hanno bisogno di simili sollecitazioni, aderiscono alla nuova fede e contribuiscono a rivelare una immagine nuova e vivace della fede stessa. In un simile contesto il contributo di Tertulliano è molto significativo, perché le sue abilità nell’ambito linguistico, ma anche la sua chiarezza nei diversi campi, in modo particolare in quello di natura giuridica, danno a lui buone argomentazioni per contribuire alla causa dei cristiani. Essi continuano a subire persecuzioni a causa di pregiudizi radicati nell’opinione pubblica, che a volte reagisce in modo violento, determinando poi l’intervento dell’autorità pubblica, propensa a sostenere certi convincimenti popolari, che pur non hanno senso e giustificazioni, ma derivano da pregiudizi incontrollabili. A questo riguardo già il martire Giustino era intervenuto all’epoca dell’imperatore filosofo, Marco Aurelio, con le sue opere apologetiche, in difesa di ciò che i cristiani sostenevano e vivevano nelle loro riunioni, giudicate sediziose nella loro clandestinità, se ci si immaginava qualcosa di orribile, come ad esempio gli infanticidi, visto che in essi si celebrava il sacrificio, ricordando quello della croce del proprio Maestro. Erano necessari interventi chiarificatori, che comunque non sortirono l’effetto sperato.

LA FISIONOMIA DELLO SCRITTORE

Le notizie biografiche di Tertulliano, come di tanti altri scrittori cristiani dei primi secoli ci sono offerte da S. Girolamo, il grande enciclopedico fra i Padri della Chiesa, coevo di S. Ambrogio e di S. Agostino, autore di opere, in gran parte esegetiche, a commento della Bibbia, che si era prefisso di tradurre in un latino nuovo e più curato, rispetto a quello in uso in quel tempo. Non avendo, Girolamo e neppure noi, riscontri sicuri circa la vita di quest’uomo, si ricostruisce l’essenziale, anche a partire da ciò che scrive. Si dice che appartiene alla metà del II secolo, originario del mondo africano, e di Cartagine in particolare, in un ambiente che deve a-ver favorito la partecipazione a scuole di un buon livello, se dobbiamo stare ai risultati da lui prodotti nelle sue opere, sempre di pregevole fattura. L’ambiente frequentato è quello che noi oggi definiremmo “pagano”, nel senso che in casa e a scuola non ha ricevuto informazioni o suggestioni provenienti dal mondo religioso cristiano, che pure già attecchiva da quelle parti. Non sappiamo quando avviene l’incontro con il Cristianesimo e quando matura la decisione del battesimo. Non è improbabile che la sollecitazione gli provenisse dalla notizia di coloro che subivano il martirio: non erano infrequenti i casi di spettacoli circensi dove la popolazione si divertiva a veder morire questa gente che era stata accusata spesso dai vicini per certi loro raduni e per certi loro discorsi che alimentavano il pregiudizio. Lo scrittore deve essere rimasto colpito da questi indecorosi spettacoli, che non avevano giustificazione alcuna e proprio per questo esalta le vittime di una simile brutalità, ritenendole i veri eroi del suo tempo, coloro a cui guardare con ammirazione per la capacità con cui sanno rispondere al male mediante la propria offerta sacrificale. Non manca di scrivere su questo, segno evidente che tali figure sono da lui giudicate in maniera molto positiva e da considerare meritevoli che siano riconosciute per quella forza d’animo che non veniva segnalato, essendo la mente popolare attirata dallo spettacolo indecoroso delle brutalità, in cui il senso di umanità svaniva. Per questa gente, oggetto di burla e di atroce violenza, Tertulliano usa accenti di poesia, ma soprattutto espressioni che vogliono riconoscere in loro la conservazione di una dignità e di una fierezza umana, che i persecutori non hanno, per cui la situazione che lì vi si trova va rovesciata per cogliere in un momento drammatico una lezione positiva di vita. Ecco un passo dell’Esortazione ai martiri …

E’ questa serena pace che alcuni non trovano nel seno della comunità, e vengono allora a chiederla ai Martiri nelle tenebre delle loro prigioni; per questa ragione appunto voi dovete custodirla intimamente questa pace serena, e alimentarla col fuoco della vostra fede e mantenerne la fiamma gelosamente, perché ne possiate far dono ad altri, che a voi ricorrono per ottenerla. E fino alla soglia della vostra prigione vi avranno, ed è del resto naturale, accompagnato i pensieri, le preoccupazioni inerenti alla vita, come anche fino a questo punto vi hanno seguito i parenti vostri. Voi siete stati segregati, allontanati dal mondo; ma se pensiamo che il mondo è un’immensa prigione, noi comprendiamo bene come dovremmo dire che siete usciti dal carcere, piuttosto che entrati. Maggiori di quelle che non circondino voi qui, sono le tenebre in cui è avvolto il mondo, e gli animi degli uomini ne sono turbati e sconvolti; più strette catene delle vostre vincolano e tormentano il mondo, e le anime degli uomini ne sono dolorosamente oppresse; non è da codesto vostro carcere, ma è dal mondo che si sollevano i miasmi più pestilenziali, che sono appunto le sfrenate passioni umane. È il mondo proprio che ha in sé il maggior numero di colpevoli; il genere umano, nel suo complesso, è degno di biasimo, e non è il giudizio del Proconsole che il mondo deve temere, ma il giudizio che scenderà direttamente da Dio. E voi, o eletti, pensate pure d’essere ormai passati da un carcere a un luogo di ritiro sereno e tranquillo, e se pure la tenebra vi opprime, voi stessi rappresentate la luce; se vincoli dolorosi vi stringono, voi ve ne dovete sentire sciolti per opera e per volere di Dio; se da codesto luogo giungono ai vostri sensi esalazioni non buone, sappiate che siete voi stessi il profumo d’ogni soavità; voi ora attendete che taluno vi giudichi, ma sorgerà giorno in cui voi darete il vostro giudizio su coloro che ora sono i giudici vostri. In codesto carcere provi tristezza ed intimo rincrescimento chi aspira ancora, chi agogna ai beni del mondo: ma il Cristiano, anche fuori del carcere, ha ormai rinunziato al mondo. Entrando in prigione, poi, avete sfuggito in certo modo prigionia più dura, che è appunto il mondo stesso. Non importa nulla affatto in quali condizioni o dove voi vi troviate nel mondo: voi siete fuori del mondo, ormai! Ammettiamo che veniate a perdere qualche godimento della vita: ma è sempre un buon affare perdere qualcosa per guadagnare ciò che è di gran lunga superiore: e intendiamoci che non voglio qui alludere al premio al quale Iddio chiama i Martiri suoi. (AM, 1.2)

Questa opera è una delle prime e rivela uno scrittore proteso non solo alla difesa dei martiri, quanto piuttosto alla loro esaltazione. Ci sono alcuni che ritengono che possa essere stato lui a concludere il “diario”, scritto in carcere dalla giovane signora cartaginese, Vibia Perpetua, esposta alle fiere con la sua ancella, Felicita, e con altri giovani, il giorno 7 marzo 203. Il testo è un documento singolare che offre di prima mano la condizione di questi martiri sempre dell’Africa proconsolare. 

L’opera si conclude con il racconto del martirio, che ovviamente non può essere redatto da chi si trovava nel circo. La carica emotiva di questo passo presuppone un autore che ha la tecnica giusta per proseguire quanto ha scritto la protagonista. Di qui l’ipotesi che possa essere stato lo stesso Tertulliano.

ATTIVITA’ DI SCRITTORE

Al momento della “conversione” che lo vede assumere la fede cristiana in maniera convinta, anche per la ricerca che non può essere mancata ad uno scrittore e uomo di cultura, come lui stesso sentiva di essere, Tertulliano si dedica con fervore alla difesa della nuova religione, ma più ancora di coloro che egli vedeva travolti in persecuzioni immotivate, se non altro per le accuse ingiustificate di certa gente e per il desiderio delle autorità di accontentare gli “appetiti circensi” del “popolino”, in cui le violenze sugli esseri umani erano di casa. Se le prime opere appaiono l’espressione della ammirazione che l’autore ha nei confronti dei martiri, poi però egli avverte la necessità di mettere al servizio della verità le sue abilità di scrittore, avendo come suoi interlocutori i capi politici dell’Im-pero e insieme quegli uomini di cultura, che in presenza dei cristiani si abbandonavano a giudizi impietosi, spesso per accondiscendere all’opinione pubblica che sovrastava tutti con le accuse più infamanti e con la richiesta di pene severe e soprattutto sadiche. Lo scrivere diventa per lui una necessità, e più ancora il servizio migliore alla causa del mondo cristiano; in aggiunta è da segnalare il suo richiamo a quel senso di giustizia, che sembrava perso in ragione delle violenze senza ragione, che soprattutto nel suo territorio venivano considerate lesive di un mondo che si considerava già elevato nel suo grado di civiltà. Questa sua azione, benemerita, diventa una missione che non solo serve la causa dei perseguitati, ma più ancora cerca la salvaguardia di quell’umanesimo, che in modo particolare nell’Africa proconsolare appariva come il miglior retaggio ricevuto dalla colonizzazione romana. Insomma, Tertulliano, anche ad essere considerato uno scrittore cristiano, per il suo modo di esporsi e in modo particolare di trattare gli argomenti che affronta si rivela l’erede della latinità umanistica, tenuto conto che nell’ambito letterario gli si riconosce una abilità che emula Cicerone e il retore Quintiliano, le grandi figure che sono alla base di una lingua latina di valore.

1.

L’APOLOGETICO

Bisogna riconoscere che l’abilità nell’argomentare e sostenere le sue convinzioni è notevole, anche se l’opera risente delle pulsioni emotive dell’uomo, che in alcuni momenti si lascia andare ai toni più accesi. Probabilmente questo “modus operandi” gli deve aver procurato anche dei nemici, o dei competitori che ribattono le accuse, soprattutto quando queste non appaino sufficientemente motivate e genericamente trattate, come se tutti fossero acritici verso i cristiani. Il fatto stesso che esistano varie redazioni dell’opera con relativi vari manoscritti, significa che non è mancato da parte sua qualche intervento di revisione, pur su un canovaccio che rimane stabile. L’autore non aveva di per sé modelli di riferimento a cui conformarsi nel trattare la questione; eppure prima di lui Giustino, il martire filosofo, aveva scritto due apologie per rispondere alle accuse dei pagani, soprattutto di coloro che appartenevano al mondo filosofico. Ma l’opera di Giustino non appare contrassegnata dalla vis polemica, che invece è presente in Tertulliano, perché si prefigge di essere spesso polemico.

L’Apologetico – lo dice il nome stesso – è un testo nato con l’intento di difendere i cristiani dalle varie accuse che sono loro mosse, e che dovrebbero giustificare tutto l’apparato persecutorio che si scatena contro. L’autore vuole trattare la questione avendo come interlocutori quanti sono ritenuti gli organizzatori della “mattanza”, che sembra provenire dalla pretesa delle gente di debellare un sistema costruito sulle nefandezze, di cui si sente parlare con le dicerie diffuse appositamente a proposito delle riunioni e delle loro forme di ritualità. Per il nome cristiano c’è già la colpevolezza e non viene condotta nessuna indagine per accertare se esistano tali riti e se questi debbano essere considerati nefandi da far intervenire la polizia e l’apparato giudiziario. E anche le accuse, tipiche del popolino che costruisce sul “sentito dire”, sulla maldicenza, non vengono affatto considerate tali da far aprire una inchiesta adeguata, come meriterebbe una simile accusa. L’autore ha buon gioco nell’inserirsi dentro questo apparato accusatorio che non tiene e che soprattutto mette in ridicolo il sistema giudiziario romano che da sempre viene considerato efficiente, rispettoso delle leggi, ma anche dell’accusato, di cui si devono accertare le colpe, prima di essere condannato e punito.

Ai Cristiani soli nulla si permette di dire che l’accusa confuti, la verità difenda, il giudice faccia non ingiusto; ma soltanto quello si aspetta che è necessario all’odio pubblico: la confessione del nome, non già l’inchiesta sul delitto; quando, se un colpevole processate, non vi contentate, per sentenziare, che egli abbia confessato il suo nome di omicida o sacrilego o incestuoso o nemico pubblico (per parlare delle imputazioni che fate a noi), se anche le circostanze non esaminate e la qualità del fatto, il numero, il luogo, il tempo, i testimoni, i complici. Nulla di ciò quando si tratta di noi, mentre ugualmente bisognerebbe strapparci quello che con falsità si blatera: di quanti infanticidi uno avesse già assaggiato, quanti incesti fra le tenebre compiuti, quali i cuochi, quali i cani presenti. Quale gloria per quel governatore, che a scovare qualcuno fosse riuscito, il quale avesse già mangiato carni di cento bambini! Invece noi troviamo che anche la ricerca di noi è stata proibita. E invero Plinio Secondo, quando era al governo della provincia, dopo aver condannato alcuni Cristiani, altri indotti ad apostatare, tuttavia turbato dallo stesso gran numero, l’imperatore di allora, Traiano, consultò circa il modo di condursi in seguito, allegando (toltone l’ostinato rifiuto a sacrificare) di non aver altro scoperto riguardo ai loro riti, se non delle riunioni antelucane per cantare in onore di Cristo, come di un dio, e per rinsaldare la loro disciplina, che vietava l’omicidio, l’adulterio, la frode, la slealtà e gli altri delitti. Allora Traiano rispose che persone di codesta sorta non si dovevano ricercare; ma, se deferite, si dovevano punire. O sentenza per necessità confusa! Dice che non si devono ricercare, come innocenti, e che siano puniti ordina, come colpevoli. Risparmia e infierisce, fa finta di non sapere e sa. Perché da te stessa nella censura ti avvolgi? Se condanni, perché anche non ricerchi? Se non ricerchi, perché anche non assolvi? Per la ricerca dei briganti si assegna per tutte le province un distaccamento militare; contro i rei di lesa maestà e i nemici pubblici ogni uomo è soldato: l’inquisizione fino ai complici e ai testimoni si estende. Solo il Cristiano non è lecito ricercare: è lecito però deferire, quasi che la ricerca fosse per avere altro effetto dal deferimento. Pertanto condannate un deferito, che nessuno avrebbe voluto venisse ricercato; il quale, penso, non per questo meritò il castigo, perché è colpevole, ma perché fu scoperto, mentre non doveva essere ricercato. (Ap. II, 3-9)

Bisogna riconoscere in questo scritto incalzante un argomentare piuttosto sostenuto, che non lascia molto spazio all’interlocutore, accusato di un comportamento ormai assodato da un secolo, per il quale non è in gioco la ricerca della verità, ma solo la ricerca di un malfattore da punire per il solo fatto che porta quel nome. Così viene distrutto l’impianto di tipo giuridico che andava per la maggiore nel sistema romano, dove non ci dovrebbe essere spazio per l’arbitrarietà e per la mancanza di rispetto nei confronti di coloro che potrebbero essere cittadini romani.

E comunque si sarebbero dovuti tutelare anche solo perché sudditi dell’Impero. Tertulliano attacca il mondo romano proprio sui suoi principi fondamentali, rivelando di conoscere bene l’apparato, anche a trovarsi in un contesto di tipo provinciale. Ovviamente queste cose possono essere intese da quanti fanno parte dell’apparato statale e devono dare il loro apporto per il benessere e il vivere di tutti e per accondiscendere a bassi istinti con cui può dilagare una violenza inarrestabile. Fa specie sentire che presso i cristiani si operino nefandezze come l’incesto e l’infanticidio: queste accuse erano da tempo sostenute e non si era mai fatta luce a sufficienza per mettere a tacere dicerie popolari assolutamente fuori controllo. Lasciandosi prendere la mano dagli argomenti di confutazione del paganesimo, c’è il rischio in questa opera di non riuscire ad offrire una visione positiva del Cristianesimo stesso. In opposizione al politeismo diffuso qui si dà ragione dell’esistenza di un unico Dio, anche se poi si dà largo spazio all’esistenza e all’azione nefasta dei demoni, che evidentemente appariva una questione impossibile da ignorare, soprattutto nel voler combattere le dicerie astruse e nel contempo il convincimento dell’influsso negativo che potevano avere creature infernali, così radicate negli incubi di gente credulona.

Ciò che noi adoriamo è un Dio unico, che tutta codesta mole, insieme a tutto il corredo di elementi, corpi, spiriti, con la parola con cui comandò, con la ragione con cui dispose, con la virtù con cui poté, dal nulla trasse fuori a ornamento della sua maestà; onde anche i Greci all’universo dettero il nome di “kòsmos”. Esso è invisibile, sebbene si veda; inafferrabile, sebbene per grazia si renda presente; incomprensibile, sebbene si lasci dalle facoltà umane comprendere: per questo è vero e così grande. Il resto che comunemente si può vedere, afferrare, comprendere, minore è degli occhi da cui è abbracciato, della mano con cui viene a contatto, dei sensi da cui viene scoperto. Invece ciò che è incommensurabile, solo a se stesso è noto. Questo è ciò che Dio fa comprendere, il fatto che non si riesce a comprendere; così l’immensità della sua grandezza agli uomini lo presenta noto e ignoto. E in questo sta la colpa principale di coloro che non vogliono riconoscere Colui, che non possono ignorare. (Ap. XVII,1-3)

Tertulliano vuole poi rassicurare i suoi lettori circa le reali intenzioni dei cristiani: essi preferiscono subire violenze e morte che reagire con violenza alla pari, ed esercitando anche quelle forme non-violente che comunque mettono in difficoltà la Stato e la società.

I cristiani sono invece propensi ad agire nello Stato per contribuire al suo benessere. In questo modo i cristiani diventano una risorsa. Se così sono considerati non ci può essere pregiudizio nei loro confronti, perché essi non sono come i barbari, popolazioni da assimilare, nel loro insediarsi en-tro i confini dell’Impero, perché i cristiani sono già cittadini dell’Impero e quindi essi collaborano alla sua edificazione e al suo mantenimento.

Se, come sopra si è detto, abbiamo l’ordine di amare i nemici, chi possiamo odiare? Del pari se, offesi, ci è vietato di rendere il contraccambio, per non essere di fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo offendere? Riconoscetelo infatti voi da questo. Quante volte infatti contro i Cristiani non infierite, parte per animosità vostra, parte in obbedienza alle leggi! Quante volte, anche, indipendentemente da voi, come fosse un suo diritto, il volgo ostile a colpi di pietra ci assale e con incendi! Con furie proprio da Baccanali nemmeno i Cristiani morti risparmiano, ma dalla requie del sepolcro, dall’asilo, per così dire, della morte, già de-composti, già non più integri li strappano, li fanno a pezzi, li disperdono. E tuttavia che avete mai da riprendere sul conto di persone così unite, da ripagare, per ingiurie patite, individui così disposti fino ad affrontare la morte, quando anche sola una notte con pochi focherelli potrebbe la nostra vendetta largamente attuare, se ricambiare il male con il male fosse tra di noi permesso? Ma lunge da noi vendicare una setta divina con fiamme umane, o dolerci di patire per ciò con cui essa è provata. Se infatti volessimo comportarci da nemici scoperti, non soltanto da vendicatori occulti, mancherebbe a noi la forza del numero e dei soldati? Già più numerosi sono i Mauri e i Marcomanni e i Parti stessi o quante si vogliano genti, contenute tuttavia in un sol luogo, entro propri confini, che un popolo di tutto il mondo! Noi siamo di ieri, e abbiamo riempito città, isole, castelli, municipi, borgate, gli accampamenti stessi, tribù, decurie, il Palazzo, il Senato, il foro: solo i templi vi abbiamo lasciato. A qual guerra non saremmo stati preparati e pronti, anche se impari per numero di soldati, noi che così volentieri ci lasciamo trucidare, se tra gli appartenenti a questa setta non fosse lecito piuttosto farsi uccidere, che uccidere? Avremmo potuto anche solo inermi, senza ribellarci, ma soltanto con la nostra separazione, con l’odiosità del solo allontanamento contro di voi combattere. Se, infatti, noi, così grande numero di uomini, l’avessimo rotta con voi, in qualche angolo lontano del mondo ritirandoci, la perdita di tanti cittadini, quali che siano, avrebbe indubbiamente coperto di rossore voi, dominatori: anzi anche col solo fatto di avervi abbandonati, vi avrebbe puniti. Non v’è dubbio: avreste di fronte alla vostra solitudine paventato, di fronte al silenzio delle cose, allo stupore, per così dire, del mondo quasi colto dalla morte; avreste cercato a chi comandare: più nemici che cittadini sarebbero a voi rimasti.

Ora infatti avete un numero di nemici minore per causa della moltitudine dei Cristiani, quasi tutti cittadini; ma, pur avendo in quasi tutti i Cristiani dei cittadini, nemici del genere umano avete preferito chiamarli, piuttosto che dell’umano errore. Chi, inoltre, voi a quei nemici occulti e incessanti devastatori delle vostre menti e della vostra salute strapperebbe, voglio dire dagli assalti dei demoni, che noi scacciamo da voi senza premio, senza compenso? Sarebbe bastato solo questo alla nostra vendetta, che di qui in avanti rimaneste, libero possesso, alla mercè degli spiriti immondi. Eppure, senza pensare a compensarci per così grande difesa, noi, gente non solo non molesta a voi, ma anzi necessaria, avete preferito giudicarci nemici, noi, che effettivamente nemici siamo, non tuttavia del genere umano, ma piuttosto dell’errore umano. (Ap. XXXVII, 1-10)

Bastano alcuni brani per comprendere non solo l’impostazione dell’opera, ma anche il suo valore storico e letterario, perché in effetti il testo ha ricevuto una buona rispondenza. Le argomentazioni messe in campo non hanno il solo scopo di respingere le accuse e i pregiudizi diffusi, quanto piuttosto dare una immagine del cristianesimo meritevole di più attenta considerazione, soprattutto per superare quel genere di malanimo che si avvertiva montare presso la gente comune, portata a scaricare sui cristiani ogni problema, soprattutto quando potevano sorgere questioni anche di natura interna all’Impero stesso, che già conosceva la sua corruzione e la tendenza ad un inesorabile declino, soprattutto per le pressioni barbariche. La conclusione del testo riserva la ormai famosa battuta con cui Tertulliano diventerà famoso nella storia cristiana e cioè che il “sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani” (semen est sanguis Christianorum), a riprova che l’eroismo dimostrato in occasione delle violenze subite, incentivava una visione positiva di queste persone, che dunque non si rivelavano imbelli e meschini, ma suscitavano nuove adesioni, come deve essere avvenuto allo stesso scrittore, il quale, una volta conosciuto questo mondo, non se ne vorrà distaccare.

Onde il fascino, che da questo scritto emana, e l’ammirazione, di cui fu per tutti i secoli circondato. Indubbiamente, anche per quel che concerne le argomentazioni dell’Apologetico, ad apprezzarle al loro giusto valore, si dovrà non prescindere dal criterio storico. Per esempio la parte che riguarda le assurdità e la insostenibilità della religione e ideologia pagana, è certo roba sorpassata. Anche: sopra tutto nelle ritorsioni, la logica non è sempre serrata; talora tradisce lo sforzo. Né mancano ingenuità, come certe operazioni attribuite ai demoni.

Ma giudicato nel suo complesso, l’Apologetico è un modello di argomentazione forense. La conclusione di Tertulliano che semenza sarebbe stato il sangue dai martiri versato, ebbe la consacrazione del tempo futuro. Venendo a toccare della forma dell’opera tertullianea, avrebbe torto chi volesse giudicarne lo stile e la lingua con i criteri della prosa ciceroniana e quintilianea. Egli se ne discosta molto: non tanto per quanto concerne i costrutti sintattici, quanto per il significato assunto da molte parole, lontanissimo ormai dall’originario, vuoi per una evoluzione naturalmente subita, vuoi per una decisa volontà dello scrittore, che a quel significato le piega. Indubbiamente il suo scrivere risente, più che della scuola di retorica, da cui egli proveniva, e della regione, ov’era nato, della sua forte personalità. Per questo il suo periodo torna spesso difficile e oscuro dovuto al suo temperamento, ardente e aggressivo, sprezzatore del puro formalismo ed alla sua fede ardente e sincera.

(Introduzione Monastero Virtuale).

LA DOTTRINA DI TERTULLIANO

Tertulliano appare destinato a muoversi su posizioni oltranziste, che di fatto non solo lo conducono verso l’eresia, ma ben presto lo spingono ad andare sempre oltre, staccandosi pure dalla dottrina eretica a cui aveva aderito. Queste sue posizioni che lo renderanno inviso e lo rinchiuderanno sempre più non in se stesso impediscono comunque di riconoscere la validità delle sue opere, soprattutto quelle che si conservano nell’ambito dell’ortodossia. La dottrina che si può derivare da quanto ha scritto si dimostra comunque ben solida, e la sua visione di Dio, della Trinità e dei rapporti fra le persone trinitarie, sarà la base di ciò che si discute a Nicea, in contrapposizione all’arianesimo e soprattutto è quanto viene codificato nel Simbolo di fede ancora oggi in uso. Certi termini, usati e lì ben definiti, derivano da ciò che Tertulliano in tempi non so-spetti aveva già avanzato. Pertanto non può essere facilmente messo da parte, anche a sapere che egli si è collocato su posizioni estreme che non si possono non considerare eretiche. Così prima ancora che si trovasse il linguaggio giusto nel Concilio di Nicea del 325, Tertulliano ricorreva alle parole chiavi per chiarire la dottrina trinitaria. Dio non può che essere considerato unico e tuttavia in questa unicità si devono distinguere, non dividere, le tre persone, che vengono definite secondo la sostanza, in base alla quale le tre persone sono della medesima sostanza divina.

Tertulliano fu storicamente il primo scrittore ecclesiastico ad utilizzare la parola latina Trinitas con riferimento al Dio biblico, e il primo a definire Dio come una sola sostanza in tre che coeriscono (Adversus Praxean, 12.7). Questi tre sono “persone”; i termini “persona” e “sostanza” sono derivati dalla filosofia stoica. In questo modo distingueva l’unicità della sostanza divina rispetto alla pluralità delle persone, tra loro coeterne e consustanziali su un piano paritetico. Proprio questi termini sono alla base della dottrina trinitaria come verrà affermata al primo concilio. Tertulliano sottolinea il fatto che il “procedere” delle persone nella Trinità presuppone come punto di partenza Dio Padre, il quale genera il Dio Figlio e da cui procede lo Spirito Santo Dio. Figlio e Spirito sono “inviati” dal Padre e tuttavia sono consustanziali e coeterni con il Padre. La dottrina qui elaborata anticipa di circa un secolo il Concilio di Nicea del 325. (da Wikipedia)

Pure su altre questioni di natura teologica Tertulliano interviene, anche se le sue posizioni, non del tutto sicure, per i trascorsi dentro altre forme di dottrina, impediscono di poter assumere in maniera chiara ciò che egli sostiene. Egli è dell’avviso che c’è una disposizione naturale dell’uomo verso l’unico Dio, e che dunque bisogna andare oltre le tante disquisizioni, legate ai nostri schemi verbali e ideologici. C’è dunque una religiosità naturale sulla base della quale è più facile incontrarci ben oltre certi schemi.

Dunque, Tertulliano riconosce che il «concetto di Dio» (per lo più quando lo si esprime, quando lo si dice) viene fuori nel momento in cui il soggetto umano si allontana da tutti i tipi di costruzioni artificiali: e tale spontaneità è sintomo dell’intrinseca presenza della religione cristiana all’interno di ogni soggettività ed è l’indicazione fondamentale della superiorità della religione cristiana rispetto alle molteplici religioni pagane.

(da Wikipedia)

2.

DE PRAESCRIPTIONE HAERETICORUM

In presenza di simili posizioni che rivelano un ricercatore e quindi un animo aperto, può sorprendere che poi si sia lasciato deviare da quella che lui stesso avrebbe dovuto considerare la retta via, e seguire idee eretiche. In effetti non è rimasto su una sola posizione, ma anche sulla base del suo carattere e dei suoi toni espressivi, si è lasciato trascinare verso le eresie.

Questa sua instabilità e certe forme di indurimento lo hanno progressivamente isolato. Eppure aveva ben considerato il fenomeno delle eresie durante il suo percorso nell’ambito della fede cattolica. Scrive addirittura un’opera, davvero unica nel suo genere, circa le posizioni eterodosse che pullulavano nella Chiesa nel periodo stesso in cui essa era sottoposta alla persecuzione e poteva sembrare travolta da forze esterne, ma soprattutto da quelle disgregatrici interne. Noi dovremmo intendere la parola “eresia” come una scelta che ci fa uscire dalla comune fede per inseguire un convincimento radicato, che di fatto ci “sradica” dalla “vite”, per stare al-la bella immagine evangelica. Il tralcio, tagliato dalla pianta, non porta frutto; diversamente, chi rimane nella pianta, che è il Cristo stesso, può rivelare che da sé provengono i frutti desiderati. Le eresie, dunque, distaccano dal corpo della Chiesa e, secondo l’efficace immagine di Tertulliano, è una specie di stato febbrile che indebolisce fino a far morire. Esse sono un indebolimento; e tuttavia possono servire a rafforzare la fede stessa, nella misura in cui richiedono che le acquisizioni fatte siano sempre elaborate, risvegliate, comprese sempre meglio, in quanto la dottrina non è solo un apparato di idee e di concetti, ma è soprattutto, in quanto religione, un legame con il corpo di Cristo nella sua persona e nel suo essere la Chiesa che vive nel tempo. Questo legame non va interrotto, facendo una scelta che separa, che stacca dalla vera vite. Comunque le eresie sono un dato di fatto, come deve constatare Tertulliano, che pure si lascerà conquistare, nonostante quello che qui afferma. Potrebbe sembrare che essa dipende dal fatto, che cristiani tiepidi non coltivare la fede, perché cresca; ma, secondo lui, anche persone che possono dare una immagine sicura e forte di sé, finiscono per lasciarsi irretire …

Bastano alcuni individui, che siano rimasti presi dall’eresia, perché, con gran facilità, si abbandonino alla rovina di una credenza falsa questi ingenui creduloni. Perché quella donna, quell’uomo dalla fede così salda, persone dotate di tanta saggezza e che alla Chiesa avevano dato opera di tanto amore e di tanto zelo, passarono dalla parte degli eretici? Chi è che, ponendosi tale questione, non risponderà a se stesso che quelli che le eresie hanno potuto far deviare dalla retta via, vuoi dire, che non erano da considerarsi veramente né saggi, né stretti da saldezza di fede, né dediti con tutto l’animo loro alla Chiesa? Ma è proprio una cosa da far molta meraviglia, penso, che da uno, che per il passato sia stato riconosciuto uomo al dì sopra di ogni dubbio e di fede saldissima, dopo ne venga ad uscir fuori uno diverso? …

Eppoi… anche se un vescovo, se un diacono, se una vedova, se una fanciulla, se un dottore, se perfino un martire si allontanano, ammettiamo, dalia regola di fede, basterà forse questo fatto perché le eresie debbano acquistare carattere di verità? Dobbiamo noi dunque riconoscere il valore della fede dalle persone o le persone dalla fede che esse professano? Non v’è nessuno che sia sapiente veramente, nessuno che possa dir di possedere chiarezza di fede; nessuno si chiamerà grande, se non il cristiano; ma nessuno potrà chiamarsi così, se non chi abbia perseverato in questo lume di fede fino agli ultimi giorni della sua vita. (DPH, III)

Tertulliano ritiene che le eresie trovano il terreno adatto laddove le forme di sapienza mondana, quella che si trova nelle varie filosofie dilagate anche nel territorio romano, prendono il sopravvento, per cui uno crede di spiegare ciò che dice il vangelo a partire dagli schemi filosofici, come se il vangelo avesse consistenza, perché supportato dalle dottrine filosofiche. Già all’epoca dell’età apostolica, come sentiamo dire nelle lettere dell’apostolo Paolo, quando accenna al serpeggiare di dottrine strane e peregrine, e, allo stesso modo, si fa cenno nelle lettere di Giovanni, in cui si parla di anticristo e di dottrine gnostiche, costruite sui ragionamenti umani, si dà la colpa ai vuoti ragionamenti, propri della gnosi, nel tentativo di rendere la fede accessibile anche a coloro che apparivano conquistati dalla filosofia. S. Paolo, reduce dall’esperienza amara all’areopago di Atene (Atti 17) dice ai Corinzi che, giungendo da loro, ha comunicato non ragionamenti di natura filosofica, ma la sapienza della croce, ritenuta stoltezza e debolezza. Tertulliano prosegue su questo terreno, giungendo alla conclusione che non c’è bisogno di ricorrere alle dottrine filosofiche, soprattutto se esiste la “Regola d’oro” della fede che è lo stesso “Credo”, di cui dà una sintesi, segno della presenza di vari formulari, con cui si diceva anche allora pubblicamente la fede dentro le varie comunità ecclesiali. Erano comunque formulari sintetici e sostanzialmente identici, in un periodo in cui non ancora si era cercata e trovata la sin-tesi che poi si troverà a Nicea. Sulla base di questo non si può pensare che sia necessario cercare e trovare altro: viene qui affermato un principio che noi oggi fatichiamo a intendere, perché la dottrina non può congelarsi in schemi fissi; la Chiesa e allo stesso modo i singoli cristiani sono chiamati ad un percorso di fede nel loro segmento di storia e ben oltre la propria storia personale. È comunque molto importante che si abbia un punto di riferimento comune come quello qui redatto. Poi si arriverà al Simbolo niceno-costantinopolitano …

È proprio questa REGOLA DI FEDE, che noi professiamo come base della difesa nostra: è essa che ci dà la linea nella nostra ferma credenza.

Che vi è un Dio solo, creatore del mondo, né alcun altro al di fuori di Lui. Questi ha tratto il tutto, esistente nell’Universo, dal nulla per mezzo del Verbo suo, generato al principio delle cose tutte: Figlio suo fu chiamato questo Verbo, e nel nome di Dio apparve ai Patriarchi sotto varie figure; in ogni tempo fu ascoltato dai Profeti, e di poi discese per lo spirito e virtù di Dio Padre, in Maria Vergine, e nel seno di Lei divenne carne e da essa ebbe vita Gesù Cristo. E nuova legge egli promulgò alle genti, e formulò una nuova promessa di un Regno dei Cieli; fece dei miracoli, fu posto in croce, ma nel terzo giorno della sua morte risorse, e ascese in Cielo, dove sedette alla destra del Padre suo; e mandò in terra la potenza dello Spirito Santo, in vece sua, perché fosse la guida di tutti i credenti. Egli poi ritornerà in pieno fulgore di gloria e di luce per prendersi i Santi e condurseli ai frutti della vita eterna e delle celesti promesse, e per giudicare i profani, pronunciando contro di loro la condanna del fuoco eterno, dopo aver compiuta la restituzione dei corpi agli uni e agli altri. (DPH, XIII)

Il Simbolo di fede deriva, come era tradizione già a quei tempi, e lo è tutt’oggi, dagli Apostoli stessi: c’è chi asserisce che il Simbolo apostolico, quello breve, quello appreso da noi con le prime nozioni del Catechismo, è considerato composto di 12 affermazioni, ciascuna delle quali viene attribuita ad ogni apostolo – è una credenza radicata, ma senza fondamento! –; esso è alla base delle fede cristiana e deriva da ciò che è contenuto nella Scrittura. Questo “Simbolo” è arrivato fino a noi, anche se altri simboli dobbiamo riconoscere presenti nella tradizione, come quello recitato nella messa, ma anche quello utilizzato nella celebrazione del Battesimo e della Cresima. Questa formula viene ritenuta valida, perché già dai primi anni i testi scritti di cui è composta, sono ritenuti degni di fede in quanto veicolati dalla Parola stessa di Dio, e riconosciuti da parte di tutte le Chiese allora presenti nel mondo. E altrettanto risulta ancora oggi. Il canone biblico è l’insieme dei libri riconosciuti da tutti e da sempre. Qualora si trovassero altri testi, di cui sappiamo l’esistenza (co-me la lettera ai Laodicesi di Paolo, di cui non abbiamo alcun manoscritto), questi non possono essere considerati “parola di Dio” e quindi non sono autorevoli circa la fede cattolica. Di qui l’intervento chiarificatore di Tertulliano, il quale elabora la cosiddetta “prescrizione”, che dà il titolo all’opera: per essa gli eretici sono tali ponendosi fuori della Scrittura stessa e di conseguenza di fuori della Chiesa, che ha il deposito della fede.

Fondamento della PRESCRIZIONE contro gli eretici

È da qui, da ogni considerazione esposta, che noi facciamo muovere la nostra PRESCRIZIONE contro gli eretici. È pure vero che Gesù Cristo inviasse gli Apostoli a predicare la sua dottrina. Ebbene: noi non dobbiamo accettare altri, all’infuori di loro, come divulgatori di essa. Chi può conoscere il Padre se non il Figlio suo e quelli a cui il Figlio lo rivelò? E sembra che a nessun altro, se non agli Apostoli, il Figlio abbia rivelato i! Padre suo. Ad essi poi diede l’incarico della predicazione e di divulgare, s’intende, ciò che era stato loro manifestato. Ciò che essi, dunque, predicano alle genti, è quello che Cristo rivelò all’intelligenza loro; ed è da questo punto anche che noi possiamo alzare il nostro grido di prescrizione, in quanto non deve esser possibile conoscere la verità della dottrina di Cristo, se non ricorrendo alle Chiese che gli Apostoli fondarono e dove essi ammaestrarono i fedeli, sia con la voce viva ed ardente, sia rivolgendosi poi con lettere alle genti. Se dunque le cose stanno esattamente così, ne risulta che ogni dottrina, la quale si accordi ai principi di quelle Chiese Apostoliche Madri, sorgenti di ogni fede più pura, si deve riconoscere come veritiera: essa contiene in sé, senza dubbio alcuno, ciò che le Chiese attinsero dalle labbra degli Apostoli, ciò che a loro volta gli Apostoli colsero dalle labbra di Gesù, ciò che infine Gesù attinse da Dio. E si può affermare, senz’altro, falsa ogni dottrina che si schieri contro la verità della Chiesa e quindi contro la parola degli Apostoli, di Cristo, di Dio. Quello che ci resta da dimostrare è questo appunto: che la dottrina nostra, di cui prima abbiamo dato la regola di fede, trae l’origine sua dalla pura tradizione apostolica e che quindi, posto questo riconoscimento, tutte le altre dottrine vengono segnalate come false, in quanto traggono la loro sorgente da principi non veri. Noi siamo nel rapporto più intimo con le Chiese Apostoliche, perché la nostra dottrina non è in alcun punto diversa dalla loro: questa è la prova sicura dell’assoluta verità. (DPH, XXI)

Così il criterio di fondo che garantisce la verità dottrinaria nella Chiesa è il fatto che alla Chiesa è stata affidata la Scrittura, che essa ne ha il deposito e quindi solo essa ne può dispensare la Parola. Viene così ribadita la centralità della Scrittura, di cui si fa garante la Chiesa : chi si mette fuori della Chiesa non può avere con sé la Scrittura e quindi gli eretici si squalificano non avendo con sé la Verità, che è Cristo-Parola e il Cristo di cui la Chiesa è il Corpo lungo il cammino storico.

Le Scrittore Sacre non possono appartenere affatto agli eretici.

Le cose stanno dunque così: che noi possediamo la verità; che essa deve a noi proprio venire aggiudicata; a noi, che avanziamo, ognuno, sicuri in questa nostra regola, che le Chiese ricevettero dagli Apostoli, gli Apostoli a lor volta attinsero dalla voce di Cristo, Cristo, da Dio.

È chiaro ed evidente dunque che noi abbiamo pieno il diritto di non riconoscere agli eretici la facoltà di discussione e di esame delle Scritture Sacre; sono proprio loro che noi possiamo benissimo convincere, senza appoggiarsi affatto all’aiuto dei Libri Sacri, che su di questi non possono vantare diritto alcuno. Non si possono dire Cristiani costoro, dal momento che, non traendo da Cristo la loro dottrina, ne seguono una a loro scelta, onde si acquistano appunto il nome di eretici. Se dunque non sono Cristiani, è chiaro che sui Libri Sacri non possono vantare diritto alcuno, e noi potremmo rivolgerci a loro con queste parole e giustamente: Chi siete voi? quando e donde siete venuti? di che vi occupate e vi intromettete nelle cose nostre, voi, che non ap-partenete affatto a noi, che non siete dei nostri? Marcione, si può sapere di dove attingi la facoltà di tagliar legna dalla mia selva? chi ti ha dato il permesso, o Valentino, di deviare le acque dalle mie fonti? e in nome di qual diritto, tu, Apelle, sposti i confini delle mie terre? È casa mia, questa; questi sono possessi miei; come può avvenire che voi altri tutti, secondo il piacimento vostro, seminiate e raccogliate pascolo in queste mie terre? È mia questa terra: ve l’assicuro; da tanto tempo è mia; ed è chiaro il diritto di priorità che io ne ho su di voi, e delle prove non me ne mancano e son prove sicure, autentiche e le traggo proprio dai loro primi ed autentici padroni. Sono io l’erede degli Apostoli, e, precisamente, come essi hanno disposto per testamento, come confermarono e tra-smisero per fedecommesso e come poi essi infine fissarono sotto la santità del giuramento, io sento di possedere la loro dottrina. Per quello poi che riguarda voi eretici, gli Apostoli, senza dubbio, vi hanno sempre rinnegato, vi hanno considerati lontani da loro, come estranei, come nemici. Ma gli eretici, in seguito a che cosa possono apparire agli Apostoli come estranei, come nemici, se non per una intima e profonda diversità di dottrina, la quale ciascuno di loro, secondo il proprio capriccio, o inventò o accolse, contrariamente a quanto era stato affermato dagli Apostoli?

(DPH, XXXVII)

Questa opera va considerata all’interno della vita della Chiesa e l’autore vuol dare un contributo rilevante all’autorità dei vescovi in presenza di dottrine svariate che un po’ dovunque creavano problemi e minavano l’unità del “gregge”. Il riferimento essenziale alla Scrittura come il criterio di base da cui viene fatta derivare la “regola d’oro” e quindi il “simbolo di fede”, costituisce un elemento importante e si dovrebbe ritenere decisivo per garantire la Chiesa da questi assalti interni, che continueranno a sorgere e a creare “zizzania”. Colpisce piuttosto il fatto che di lì a qualche anno lo stesso autore, qui così sicuro nelle sue tesi, si troverà fuori della Chiesa per aver abbracciato dapprima la setta dei Montanisti, e poi per aver fatto parte di se stesso, mai del tutto soddisfatto laddove si trovava, segno di una inquietudine, derivata, certo, dal suo carattere, ma nel con-tempo da spiegare con qualche particolare esperienza dentro la Chiesa che gli ha determinato amarezza e livore.

Come non ci è dato sapere perché si sia determinato a diventare cristiano e ad esserlo con il fervore che troviamo nei suoi scritti, così non è facile ricostruire le cause del disorientamento che subentra e che lo conduce su strade sempre più deviate dalla retta via, senza che per questo possano essere smentite le opere che egli ha lasciato con tanta lucidità di pensiero.

CONCLUSIONE

Tanto è scarna la biografia di quest’uomo, per quanto sia stato un carattere indomabile e una tempra poco duttile, quanto è invece viva e accattivante la sua produzione, che spazia su diversi temi, per la molteplicità degli interessi che egli ha coltivato. In generale però si mostra molto attento ad alcune questioni di dottrina, che poi attengono anche alla prassi di vita, in riferimento ai cristiani, soprattutto dell’Africa proconsolare, che già si rivelavano una forza vivace, una presenza significativa. Probabilmente esulava da lui l’intenzione di dover dare rilievo ai cristiani e ai gruppi che si formavano e che avevano un certo peso nella società; se poi di fatto si trova a dover scrivere in loro difesa e a parlarne come di un gruppo determinante per riaccendere una cultura spenta, egli lo fa ben consapevole che il futuro dell’Africa romana, ma anche quella di Roma, madre di civiltà, è nella capacità di saper leggere più in profondità i nuovi fenomeni. La gente comune, affamata e appagata, come sempre, di “panem et circenses”, sembra voler ignorare le minacce che vengono dall’esterno, perché già i barbari premono ai confini dell’Impero, e lui stesso vi accenna; questa gente sente, invece, come un fastidio la presenza di persone e di gruppi non assimilabili alla società e al potere costituito: è portata a considerare con saccenteria, come un fenomeno pericoloso, quello dei cristiani, se costoro attirano sulla base di richiami al sacrificio e all’impegno generoso, proprio di chi, pur contestando il sistema costruito sulle ingiustizie, non si limita ad accusare, ma si impegna a cambiare. Tertulliano si rende conto che è in corso una trasformazione della società romana, e che questo momento vede proprio gli Africani come i protagonisti di una fase storica, per un contributo efficace a salvaguardare le migliori tradizioni del mondo romano.

BIBLIOGRAFIA

Si possono reperire i testi delle opere di Tertulliano qui citate sul sito

MONASTERO VIRTUALE

LA BIBLIOTECA

LA PATRISTICA

L’APOLOGETICO (Ap.)

È una difesa appassionata della fede cristiana contro gli attacchi di coloro che la vorrebbero denigrare con le accuse infamanti di azioni depravate. È stata scritta attorno al 197

ESORTAZIONE AI MARTIRI (AM.)

È uno scritto per confortare quanti sono in carcere in attesa dell’esecuzione a motivo dell’accusa di essere cristiani. Anche questa breve opera è del 197

DE PRAESCRIPTIONE HAERETICORUM (DPH)

È dei primi anni del III secolo e riguarda le diverse eresie presenti nella Chiesa da cui si devono tenere le distanze, perché essi mancano della giusta interpretazione della Scrittura, essendo fuori della Chiesa.

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