A CENA: Prendete e mangiate,
questo è il mio corpo offerto Per voi1
INTRODUZIONE
La “Via Crucis” è una devozione molto popolare, che si è affermata da noi sull’esempio di quanti, andando in Terra Santa, camminano per le vie di Gerusalemme sulle quali sono segnate le tappe del percorso fatto da Gesù, una volta uscito dal palazzo del Pretorio, per salire la collinetta del Calvario. Quando questo cammino non è più possibile là, si diffonde da noi la stessa cosa, con la creazione, soprattutto in alcune zone montuose, dei percorsi che altri pellegrini possono fare, meditando sulla Passione di Gesù. E poiché l’itinerario è faticoso, si creano delle fermate, chiamate stazioni, durante le quali si eleva il pensiero ai dolori di Cristo. Le stazioni, poi, vengono segnalate da alcune immagini capaci di suscitare la compunzione e di favorire la meditazione e la preghiera. In genere queste fermate richiamano alcuni episodi evangelici, ma non vengono mai a mancare anche altri che il vangelo ignora e che la devozione popolare evoca, come possono essere le probabili cadute, come può essere l’incontro con la Madre, come è il particolare della Veronica, legata all’immagine sul panno, che si dice proveniente come reliquia dalla Palestina. Di fatto, trattandosi del cammino che conduce Gesù verso il Calvario, le stazioni mettono in risalto questi momenti. Oggi si tende ad ampliare la meditazione su altri momenti delle ore drammatiche della Passione di Gesù, facendo sempre affidamento alle immagini, che noi possiamo ricavare non solo dalla figure dei quadri appesi alle pareti della chiesa, ma anche alle opere d’arte, e, ultimamente, anche alle espressioni di altri generi, come sono le musiche, le immagini da film, le opere di letteratura e di poesia. Se tutto concorre al bene e alla edificazione spirituale, anche queste espressioni possono servire perché il nostro cammino, sempre più virtuale e non più esercizio fisico, sia un autentico accompagnamento ai dolori del Signore, ma soprattutto al suo messaggio di vita e d’amore che deve risultare più evidente. Il Signore non vuole che noi soffriamo, ma vuole che nelle nostre immancabili sofferenze, ci dimostriamo, come lui, capaci di continuare ad amare, a servire il disegno del Padre, a rivelare da noi lo Spirito, a manifestare un vivere all’insegna del bene, del dono, della generosità, della vera passione. Ciò che contempliamo, ciò che meditiamo, ciò che riviviamo deve aiutarci a concepire la sua e la nostra passione come il modo migliore di vivere. Tutte le volte che facciamo la Via Crucis entriamo in questa sua Passione, che dobbiamo fare anche nostra, sapendo che essa è il vivere di Dio e deve diventare il vivere dell’uomo..
Qui ci lasciamo condurre da “Una vita di Cristo”, scritta dal romanziere milanese, Luigi Santucci (1918-1999), con cui egli ci offre una rilettura dei vangeli, in chiave moderna. Lo scrittore ripercorre la vita di Gesù, come se si trovasse anche lui in quelle situazioni e ci fa sentire presenti in quei momenti, anche perché il Signore è sempre con noi e vive ogni giorno il suo vangelo che trova carne nella nostra carne e diventa spirito e vita nel nostro spirito e nella nostra vita. Dovendo fare il percorso della Passione, andiamo a cercare alcune pagine che riguardano quei momenti. Non sono state scritte per un esercizio come quello della Via Crucis, ma noi ce ne possiamo avvalere per trovare nelle sue parole qualche suggestione che ci faccia desiderare sempre più l’incontro umano con colui che è Dio, essendo uomo, e che fa diventare sempre più figli di Dio, coloro che da soli resterebbero sempre poveri uomini, gravati dal male. Queste parole, molto umane, possono elevare lo spirito a farci desiderare sempre più lo Spirito del Signore. Di fatto in questo primo momento ci fermiamo dentro il Cenacolo, dove si consuma il mistero eucaristico, che è già introduzione al grande evento pasquale: Gesù ci prepara al trauma della violenza successiva, insegnandoci a leggere in quei momenti drammatici più che il tradimento di Giuda, la consegna che Gesù fa di sé; più che l’abbandono e il rinnegamento dei suoi, il desiderio che lui ha di vivere per noi; più che la cattiveria degli uomini, la bontà di Dio che sacrifica suo Figlio..
1 – GESU’ DESIDERA STARE CON I SUOI AMICI
Lo scrittore insiste sul desiderio che ha Gesù di stare a tavola con i suoi, senza nulla nascondere della passione imminente. E su questo non vuole essere contraddetto. Noi lo dobbiamo seguire su questa strada. Ma ce la faremo? Almeno fino a quando è possibile resistere …
FINCHE’ RESISTEREMO
“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”.
Bastava che soffiasse sul mondo. Il peccato, questa inferriata fra gli uomini e l’amore, si sarebbe dissolto come la lanugine di quei fiocchi del prato su cui soffiano i ragazzi. Il mondo si sarebbe riscosso, quel giorno, come l’e-pilettico riemerge dalle convulsioni e sorride ai passanti che lo hanno soccorso. Bastava che soffiasse. Ma egli preferì così, così disse di desiderare: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”. Non la carne gustosa dell’agnello, la delizia d’indugiare a tavola fra gli amici. L’ar-dente desiderio era di farsi mangiare, di mettersi al posto dell’agnello. E per essere mangiato, farsi prima sgozzare, vuotarsi di tutto il sangue. Non ritenne che avessimo altra strada per accorgerci di ciò che privava per noi e ricordarci fino all’ultimo giorno di lui. Certo, la frase che più gli appartenne di quante ne pronunciò nei tre anni fu questa che pareva un affettuoso modo di dire: “Non c’è amore più grande che dare la vita per gli amici”. A noi la sua passione ripugna, a chi per tenero amore verso di lui, a chi solo per orrore del sangue e della morte. Ma non glielo possiamo dire; quando Pietro si ribellò all’annuncio che il maestro sarebbe morto fra quei supplizi, egli ebbe per lui la parola più aspra: “Va’ via da me, Satana”. Così, nella fa-miglia umana già carica di dolori egli ha preferito portare un nuovo dolore, la sua morte, un ultimo rimorso, il suo massacro sulla collina. Come esser-gli grati di questa scelta, la più tragica fra le mille che aveva per salvarci? In verità Cristo non ci domanda la nostra gratitudine né le nostre lagrime. Anche questa volta non ci domanda di capire; e nemmeno come certi maestri di devozione ci hanno insegnato, di struggerci con gli artificiosi rimorsi di una nostra diretta corresponsabilità: i miei egoismi sono i colpi di martello, le mie impudicizie il suo denudamento sul calvario. Ci domanda di bere anche il mistero di questa scelta, solo perché misteriosamente amiamo lui, come lui ha bevuto il calice nell’orto. Di vedere da quel venerdì il dolore e la morte che quotidianamente ci consumano, come un assopirci con la testa sul suo petto. E di seguire la sua passione, passo per passo, anche così senza capire. La nostra parte non potrà essere quella di Giovanni che lo accompagnò fino ai piedi della croce. C’è però in queste ultime pagine un personaggio anonimo nel quale potremo riconoscerci: Lo seguiva un giovinetto coperto solo di un drappo di lino sul corpo; i satelliti lo afferrarono, ma egli, lasciando andare il drappo di lino, nudo se ne fuggì. Finché resisteremo, andiamogli dietro. Poi lasceremo il nostro vestito in mano ai carnefici, e scapperemo via dove il Vangelo non dice.
Preghiamo
O Signore, hai manifestato ai tuoi il desiderio di una cena con loro,
e continui ad esprimere il medesimo desiderio nei nostri confronti.
I tuoi amici non si rendevano neppur conto
di quanto stava succedendo, per te, e, di riflesso, per loro;
e, impreparati, si sono lasciati andare, presi dalla stanchezza,
assaliti dalla paura, abbattuti dalla disperazione.
Tu esprimi anche a noi il desiderio di vederci,
di parlarci, di rimanere al nostro fianco, di donarti a noi;
ma la nostra risposta non è sempre fedele, appassionata,
perché i nostri incontri con te sono rari e frettolosi,
avvengono solo quando ci sentiamo noi nel bisogno,
e soprattutto li viviamo con scarso impegno e con poco entusiasmo.
Risveglia in noi il desiderio di te,
l’ardore per le tue parole veramente capaci di scuotere,
la passione per un vivere che, anche ad essere segnato dal male,
merita sempre di essere vissuto con te e nel tuo Spirito..
2 – GESU’ SI ABBASSA A STARE CON I SUOI
Lo scrittore tratteggia la figura di Gesù chinato sui suoi discepoli nell’atto di lavare i loro piedi. Così si rivela come loro Maestro, guardandoli dal basso per mostrare loro come essi devono vivere, se vogliono servire e cioè rendersi utili …
DAL BASSO
E sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre … versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi ai discepoli.
La sua ora è giunta. È il primo gesto che scatta da quel fatale colpo di gong, in un rito che sembra predisposto, è andare a prendere un catino. Il Vangelo c’impone come ovvia questa logica, questa consequenzialità espressa in un giro di stretta grammatica: sapendo che la sua ora era giunta, cominciò a … Che cosa comincia a fare, nel cenacolo, visto che deve morire? In che direzione scocca la sua prima, quasi automatica obbedienza al messaggio nero? Alzarsi da mensa, strapparsi al benessere di una siesta incantata, lavare dei piedi. Che cosa deve fare chi sa che di lì a poco morirà? Se ama qualcuno e ha qualcosa da lasciargli deve dettare il testamento. Noi ci facciamo portare della carta e una penna. Cristo va a prendere un catino, un asciugatoio, versa dell’acqua in un recipiente. Il testamento comincia qui; qui, con l’ultimo piede asciugato, potrebbe addirittura finire. Curvi su un foglio, noi scriviamo: “Lascio la mia casa, i miei poderi a …”. Gesù, curvo del pavimento, deterge entro l’acqua i piedi dei suoi amici: nel silenzio della stanza dura a lungo lo sciacquio discreto, il respiro dell’inginocchiato si fa un poco più pesante nel passare dei minuti, i capelli gli piovono sulla fronte. Cristo è lì all’opera, è al livello dei cani che sotto il tavolo rosicchiano l’ultimo osso spolpato dell’agnello e interrompono la loro cena pasquale per scrutare meravigliati quell’uomo che adesso è anche lui su quat-tro zampe. Dal basso, sì, ha voluto cominciare a salvarci. Nell’ultimo quadro ci dominerà di lassù, dal trave insanguinato, con le braccia aperte (“Quando sarò innalzato trarrò tutto il mondo a me”). Ma l’inizio è questo: rattrappito come una bestia sui nostri alluci callosi, sulle nostre impoetiche unghie, sui nostri odori più scostanti. Si concede questa regale gioia di umiliarsi … Vi ho dato l’esempio. Se dovessi scegliermi una reliquia della passione, raccoglierei tra i flagelli e le lance quel tondo catino di acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente sotto il braccio, guardare solo i talloni della gente; e a ogni piede cingermi l’asciugatoio, curvarmi giù, non alzare mai gli occhi oltre i polpacci, così da non distinguere gli amici dai nemici. lavare i piedi all’ateo, al cocainomane, al mercante d’armi, all’assassino del ragazzo del canneto, allo sfruttatore della prostituta nel vicolo, al suicida, in silenzio, finché abbiano capito.
Preghiamo
Anche questo gesto, Signore, è diventato spesso per noi
una cerimonia, un rito, una specie di teatro.
Tu invece ci hai detto di fare così,
per vedere dal basso come sono gli altri,
persone da comprendere, da considerare, da servire, da amare.
Proprio come hai fatto tu, che da grande ti sei fatto piccolo,
da Signore ti sei fatto servo, da Dio ti sei fatto uomo,
per essere alla nostra pari, anzi, addirittura più sotto di noi.
Così noi possiamo guardare gli altri con i tuoi stessi occhi,
possiamo servire gli altri con le tue stesse mani,
possiamo amare gli altri con il tuo medesimo cuore,
sempre aperto, aperto con tutti;
sempre disponibile, disponibile con tutti;
sempre appassionato, appassionato con tutti.
3 -GESU’ SI NASCONDE IN UN PEZZO DI PANE
Gesù non è mai alla ricerca delle nostre forme di spettacolarità. Anzi, si nasconde in un pezzo di pane, per poterci raggiungere e mescolarsi con noi fino a perdersi in noi. Ma soprattutto lui ci vuole raggiungere fisicamente e vuole lasciare un segno inconfondibile di questo suo modo di stare tra noi, perché noi lo possiamo vedere, toccare, mangiare …
IL NASCONDIGLIO
“Prendete e mangiate: questo è il mio corpo”.
Tutto, anche la consacrazione, era previsto e scritto, lo so. Ma c’è anche nell’uomo Cristo una psicologia emotiva e fantastica, che sorprese lui stesso, e che in quella libertà d’improvvisazione va poi misticamente a coinci-dere con l’antichissima volontà del Padre. Allora io vedo i suoi occhi vagabondare, a questo punto, fra i rimasugli di pane sulla tovaglia, brillare d’un’ispirazione ineffabile: ecco, il suo nascondiglio. Là si andrà a rifugiare. Non lo prenderanno tutto, stanotte; crederanno di averlo preso, strappato ai suoi compagni, invece percuoteranno e crocifiggeranno un fantasma: lui si è rimpiattato in quel pane. Quasi come quando, in Galilea, allorché lo volevano catturare per ucciderlo o farlo re, egli aveva l’arte di nascondersi e di sparire alla vista. Allunga allora la mano su quel pane già rotto. Lo frantuma ancora e alzandolo nell’aria dice le parole del magico trapasso: “Questo è il mio corpo, il quale è stato dato per voi”. Non è stato un fuggire dalle lance, no. Tutta la sua carne – non un fantasma – resta ai carnefici che la strazieranno fra poche ore. Ma il nascondiglio rimane vero; e inven-tandolo in quell’attimo egli lascia realmente ai suoi un Cristo che nessuno potrà mai scovare e strappare loro di mano. Lo mangino. Si facciano coi loro petti nascondiglio del nascondiglio. Poco fa Gesù ha lavato ad essi i piedi, si è contaminato con la loro corporeità più fangosa. Adesso vuole fare di più: scenderà nelle loro gole, si mescolerà, sino a trasformarsi, con le loro mucose, si scioglierà a poco a poco in tutte le loro fibre. C’è nell’eucaristia questo primo significato non mistico, ma fisico, quasi l’aggrapparsi alla materia degli amici che resteranno e vivranno. “Questo è il mio corpo” dice con una tenerezza che esalta prima di tutti lui stesso. Non “questo è il mio spirito” o “ il bene che vi porto”; di ciò forse non avrebbero saputo che farsene. Occorre a loro ch’egli rimanga con l’unica cosa di noi che veramente conosciamo e a cui attacchiamo il cuore e la memoria: il corpo; e che sia un corpo appetibile, gradevole e famigliare. Per questo ha cercato, su quell’ultima tovaglia, la cosa più facile, più quotidiana e più concreta: il pane Per sfamare e per piacere. Soprattutto per restare.
Preghiamo
Hai proprio pensato, Gesù,
la cosa più semplice, più facile, più bella, più naturale:
ti sei nascosto e ti fai sentire dentro il pane,
perché esso è il cibo più nutriente e nello stesso tempo più buono.
Ti sei nascosto! Come sempre, non vuoi farti notare!
Ma comunque vuoi sempre esserci. E rimani!
Rimani sempre con noi, rimani per noi!
Poi, dentro di noi ti perdi, consumato come ogni altro cibo,
perché vuoi trasformarti in noi,
mentre dobbiamo noi trasformarci in te.
Giorno per giorno, come ogni altro cibo ci fa crescere,
noi sentiamo con questo pane crescere la tua grazia,
che ci fa superare tante cose, anche quando sembrano insuperabili.
Assumendoti, assumiamo la tua passione,
che hai messo in quel pane e che vuoi mettere nella nostra vita.
Aiutaci a conservarla e a comunicarla ad altri, come fai tu con noi.
4 – GESU’ SI CONSEGNA
Il momento più drammatico della cena è quello rivelatore del tradimento. Ma Gesù non vuole né spaventare, né umiliare; vuole solo richiamare i suoi a vedere, anche dove ci sarebbe una grande male, il solo gesto che conta e cioè la sua consegna al disegno di Dio e all’amore per noi.
UNO DI NOI
“Sarebbe meglio che non fosse mai nato”.
La cena si è aperta, prima che egli lavasse loro i piedi, con un chiaro rintocco di addio. Gesù ha passato ai discepoli un calice: “Prendetelo e dividetelo tra voi: quanto a me vi dico che non berrò più il succo della vite fino a quando non sia venuto il regno di Dio”. Eppure, a leggere le prime battute dell’agape sembra che sopra le teste dei dodici commensali l’orgasmo dell’imminente tragedia non si sia addensato. C’è stata all’inizio – goffa e inopportuna, forse in bilico tra burla e vanitosa malizia – una discussione per sapere chi debba essere tenuto come il più grande e quindi sedere più vicino al maestro. Poi la cena, coi fumi e i sapori delle vivande, le gustose sorsate, ha aperto un golfo di concretezza euforica e insieme di magia esorcizzante. L’agnello, il buon pane, il buon vino, le prime macchie sulla tovaglia, gli occhi dei compagni che si fanno più lucenti e affabili. Mangiare insieme è importante, niente dà più coraggio nella vita e allegria contro la morte. Forse quella battuta – “non berrò più del succo della vite” – è stata un’altra delle sue intellettuali metafore. E che significa, del resto, “fino a quando non sia venuto il regno di Dio”? Questo “Regno” non hanno mai capito bene cos’è; e può darsi che domani, final-mente, esso si apra sotto i loro passi, verde di vigneti. Chi spiasse ora, da una delle finestre dove già si appoggia la notte, troverebbe che non c’è un luogo sulla terra più soave di quel cenacolo, armonia più invidiabile di quel far buio insieme, né mitezza più fraterna di quei corpi di giovani amici stesi attorno alla mensa come in un sicuro porticciolo. Uno ha la testa appoggiata sul petto del maggiore, e sembra che sogni. Da nessun altro sodalizio sembrano più lontani l’odio e la minaccia, i ricordi vaporano alle tempie e fuori i grilli cantano tra i fichi d’India. Eccolo il Regno. Cos’altro può essere se non questo gaudio pasquale, questo aver bevuto a volontà nel calice dove lui ha immerso per primo la bocca? Gli occhi sono chiusi o spalancati entro rosei miraggi, quando gronda su di loro la frase più dolce con cui egli li abbia mai accarezzati: “Voi siete coloro che sono rimasti sempre con me nelle mie prove, e io vi preparo un Regno”. Oh, maestro, questo che ci dici è più bello di quando poco fa hai lavato a ciascuno i piedi. Ma subito, con lo stesso timbro Gesù dice ancora: “Uno di voi mi tradirà, uno che sta mangiando con me”. La bufera è in moto. Da questo attimo – gli altri tutti stipati al caldo sotto il corpo della chioccia – un pulcino resta fuori nel gelo della tempesta. Un uomo è perduto; e se fosse anche il solo, questo destino che sprofonda nella perdizione, questa creatura recisa è la tragedia del creato, immensamente più grave di tutte le guerre e i pianti della nostra storia da Adamo in poi.
Preghiamo
Sì, o Signore! Un uomo che ti tradisce può perdersi. Ma tu non lo vuoi perdere!
E se fosse anche il solo, tu lo vai a cercare,
come la pecora perduta che porti a casa tutto contento,
anche ad aver fatto tanta fatica per ritrovarla,
anche ad aver patito e non poco, per riaverla.
Posso essere io, Signore, chi ti tradisce!
E lo sono, quando penso al mio tornaconto e non a te;
quando non voglio essere implicato nei problemi altrui,
in faccende, che – dico io – non mi riguardano,
quando volto la faccia altrove per non vedere il dolore altrui.
Ma tu lo sguardo non lo giri mai altrove.
Tu mi guardi, tu mi scruti, tu mi conosci,
e sai come sono debole, come sono fragile.
Ma come in quella notte, quella per te dolorosa,
hai pensato a Giuda, che pur ti aveva tradito e si era rinchiuso in sé,
hai pensato a Pietro, che pur ti aveva rinnegato e non si dava pace,
hai pensato a tutti, uno a uno, dispersi e disorientati,
così ora pensa a me, a ciascuno di noi, per farci ritrovare la via che porta a te,
che porta alla tua passione, dolorosa, certo, ma anche piena d’amore.
E stendi la tua mano per risollevarci.
Solo così non sarà naufragio totale. Solo così potremo rivivere e tornare a sperare!
5. GESU’ CONFORTA I SUOI
Sembra quasi che Gesù non se ne voglia andare e che voglia trattenersi con i suoi. sa bene che sono deboli e vorrebbe essere loro d’aiuto in quella notte tenebrosa. Non gli resta che lasciare loro le sue parole piene di Spirito e vita.
IL LUNGO ADDIO
“Nessuno di voi mi domanda: Dove vai?”
La cena è finita. Come i cibi, anche i gesti e i fatti sono tutti consumati. Giuda ha tradito, Gesù ha trasformato il pane e il vino. Allora egli prende congedo dai suoi compagni. Non li abbraccia a uno a uno, non li chiama per nome. Ha da dire una lunga cosa e parla. Sa che loro non l’hanno seguito per i miracoli. Ricorda bene ciò che ha risposto Pietro quando egli domandò: “Volete andarvene anche voi?”; “Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Parole. Le ultime: le più stregate di eternità; perché essi restino anche dopo, e i loro figli, e i figli dei figli, per migliaia di anni. Non li abbraccia. Le prime sillabe del suo discorso già lo stringono egli undici più che ogni umano amplesso: “Io sono la vite e voi i tralci”. Inutile abbracciarsi, impossibile separarsi. “Chi rimane in me, e io in lui, produce molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla”. Che beatitudine questo annuncio: sentir proclamare la nostra impotenza. Nulla … chi altri fuor che la tua voce stanotte può trasformare in voluttà un annuncio così mortificante? E allora che cosa devono fare se non sono capaci di nulla? Ascoltare, come adesso: quieti e rapiti nel riverbero delle torce che guizzano sui loro volti. Aspettare la consegna: “Voi siete i miei amici se fate quanto vi comando”. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate a vicenda come io ho amato voi”. Dice che non sono servi, li chiama anzi amici; ma qui non li esorta come si fa con gli a-mici, ancora come servi li comanda, inflessibilmente: “Questo io vi comando”, ripete daccapo “che vi amiate a vicenda”. Certo, si ameranno; si amano: attorno a una tavola, quando fuori è buio come adesso e ciascuno fa tepore e ricordi all’altro, che cosa è più facile, più dolce? “Nessuno – seguita la voce – ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici”. Ora invece parla dell’odio. “Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me”. “Perché non siete del mondo, per questo il mondo vi odia”. “Mi hanno odiato senza ragione”. Ma d’un tratto il discorso si fa più misterioso e folle. Ha appena annunciato persecuzione e tragedia per tutti (“Vi cacceranno dalle sinagoghe, chi vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio”), ha appena detto: “Adesso vado”; e una parola imprevedibile, straniera, scandalosa bat-te e ribatte adesso sulla sua lingua. Una parola a cui non corrisponde nes-sun oggetto, nemmeno più un sentimento se non un’antica ripudiata no-stalgia, un balocco rotto da bambini. Neppure parola anzi, è piuttosto co-me se qui egli, cessato di parlare, avesse percosso un cembalo sconosciuto: “In verità vi dico, che piangerete e gemerete; e intanto il mondo godrà; voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza sarà cambiata in gioia”. … Parla ancora: i gomiti posati sulla tavola, con pause sempre più lunghe.
Preghiamo
Hai lasciato ai tuoi amici, Signore, un lungo addio:
tante confidenze, tante belle immagini, tanto amore.
E sentiamo che queste tue parole sono ancora vive, ancora presenti, ancora in circolazione,
per sostenere anche noi nelle tante prove non facili.
Non ci lasci soli! Non ci lasci mai!
Anche quando abbiamo l’impressione di affondare, c’è sempre la tua mano tesa,
c’è sempre il tuo Spirito incoraggiante, c’è sempre il tuo amore appassionato.
Sentiamo in quelle tue parole lo stesso calore di allora
e vorremmo proprio che si stampassero in noi,
soprattutto quando abbiamo la sensazione che ci venga a mancare la terra sotto i piedi,
perché le difficoltà si moltiplicano e le sofferenze sembrano sommergerci.
Ma tu ci dai la tua pace, ben diversa da quella del mondo;
tu ci dai il tuo Spirito, vivo e vivificante,
molto differente da quello che agita questo mondo;
tu ci dai il tuo amore, forte e generoso,
che non è mai come quello sentimentale di cui noi siamo capaci.
Facci sentire queste parole, sempre vive ed efficaci
facci sentire questo amore, facci trovare il tuo Spirito,
proprio quando ne abbiamo un gran bisogno.
6 – GESU’ PREGA IL PADRE PER I SUOI
Nel passaggio dal momento intimo al momento drammatico, Gesù eleva lo sguardo e il cuore al Padre, perché il suo piccolo gregge, anche a provare il disorientamento, non si disperda e non disperi …
Ma adesso ha sollevato gli occhi verso l’alto: non parla più con loro anche se parla di loro. Ed essi non decifrano più quel divino delirio, il monologo di Cristo giunge rotto e confuso come il ronzare di un’ape ora vicina nel volo, ora ferma non si sa dove, ora scomparsa. Sentono che si parla ancora della gioia, si parla della gloria, del mondo. Sentono – e questo tiene avvinta la loro attenzione che lotta coi torpori del vino, con l’incipiente sonno – che si parla sempre di loro: “Erano tuoi e tu me li hai dati … Io prego per loro, per coloro che tu hai dato a me, perché sono tuoi … Ormai io non sono più nel mondo, ma essi sono ancora nel mondo … Non ti domando di levarli dal mondo, ma di custodirli dal male … Io voglio che dove sono io siano con me anche quelli che tu mi hai dato … Non prego soltanto per essi, ma anche per quelli che crederanno in me, per la loro parole, affinché siano tutti una cosa: come tu, o Padre, sei in me e io sono in te”. Parole sciolte da ogni senso, per loro e per noi … Cristo è già nel Padre, e il Padre è un Paese troppo lontano e misterioso. Per ciò nessuno gli ha domandato: “Dove vai?”, nessuno tenta di seguirlo. Ai suoi amici e a noi basta, per starcene rannicchiati e muti attorno alla tavola, quella parola astrusa e tremante di speranza che ha ripetuto due, tre volte stasera: “Ancora un poco e non mi vedrete, e poi un altro poco, e mi vedrete”.
Preghiamo
Una volta, Signore, i tuoi discepoli, vedendoti pregare
ti avevano chiesto come essi avrebbero potuto pregare come te.
Qui, in presenza della tua ultima preghiera, non si sono associati a te e alle tue parole,
e più tardi non avrebbero retto al sonno e al turbamento.
Ma tu li porti nel cuore e li raccomandi al Padre,
perché siano custoditi dal maligno e non siano travolti dal male.
E porti anche noi nel cuore, perché hai pensato anche a noi,
in quell’ora tremenda, come nelle tante ore buie della storia.
Ci affidiamo allora a te, a queste tue parole, perché le nostre sono insufficienti,
perché noi non sappiamo perseverare con la preghiera nelle prove.
Proprio quando attorno c’è tanto buio, c’è tanto male,
facciamo fatica a vederti, non riusciamo a sentirti accanto:
eppure tu ci sei sempre, ci sei vicino, ti metti dentro di noi;
e con te possiamo sempre sperare, possiamo sentirci sicuri,
possiamo vedere tuo Padre benevolo ed accogliente!
CONCLUSIONE
Lo scrittore che abbiamo seguito in questo percorso è cristiano e ha vissuto, a modo suo, una fede, non fatta di certezze, ma di una ricerca continua. Per questo il cammino verso Gesù e soprattutto il cammino con lui non è mai mancato, perché il bisogno di conoscere e di capire si è alimentato di giorno in giorno del libro dei vangeli, ma soprattutto della loro incarnazione dentro una carne debole. In presenza della sua passione la fede, invece di vacillare, si è alimentata nel constatare la sua decisione di andare fino in fondo, pur con tutta l’angoscia, di rimanere fedele al disegno, pur sentendolo gravoso. Così è cresciuta anche la passione dell’uomo, quella che ogni giorno dobbiamo sperimentare, quando ci sono richiesti passaggi difficili, a volte pericolosi e pesanti. Ma proprio lì emerge l’uomo vero, l’uomo che si fa grande nel suo sentirsi piccolo. Ecco perché non ci si può allontanare da lui, non si può fare a meno di quanto ha detto e soprattutto ha vissuto, lasciando a noi in consegna, non solo belle parole, ma un esempio di vita, la sola vera vita, quella eterna, perché è quella di Dio.
Se il Cristo – scrive Santucci – è davvero il solo ad avere parole di vita eterna, la scelta di restare con Lui non può suonare sconfortata e inerte come quella di chi scelga di arrendersi a un accerchiamento senza scampo; invece, grata e liberante come l’altra di chi – nell’apparente sommergersi d’ogni cosa sotto la tempesta – sa per sempre che disperazione e solitudine non gli saranno più consentite. Ma anche questo dipende ancora dal protagonista della mia storia. Perché egli disse una sera attorno alla tavola: “Senza di me non potete far niente”.
E allora con lui vogliamo sempre percorrere questo cammino: anche ad essere faticoso. È il solo che costruisca persone che possono dire di avere la sapienza e la forza proveniente dalla croce. Lì c’è il vivere migliore: lo hanno sperimentato in tanti e ne sono venuti fuori alla grande!