I PATTI LATERANENSI

La questione romana: affare italiano o internazionale?

Se la questione romana si accompagna al Risorgimento italiano e ne diventa un elemento determinante, sia per il raggiungimento dell’unità nazionale, sia per avere la capitale del nuovo Stato, poi tuttavia essa rimane sul tavolo, anche quando scompare lo Stato Pontificio e sembra che lo Stato italiano ne venga fuori più consolidato e più che mai sicuro di aver affrontato al meglio il problema. Ma questo sussisteva, sia per le continue rimostranze da parte del Vaticano, in ragione del sopruso che era stato perpetrato nei confronti del Papa, sia per la tensione interna alla società italiana con il divieto ai cattolici da parte delle autorità religiose di partecipare alla vita nazionale, sia per i risvolti che se ne avevano a livello internazionale, dove il governo italiano non voleva nessun riconoscimento politico e nessuna partecipazione si rappresentanti del Papa, soprattutto per la paura che lì venisse sollevata la questione romana. Occorreva dunque mettere mano alla questione, che non era affatto risolta neppure con le Leggi delle Guarentigie, mai riconosciute dal Vaticano e tutte interne allo Stato italiano. Queste leggi sembravano riconoscere una certa sovranità diplomatica al papa stesso per l’esercizio della sua autorità religiosa, ma in esse si negava che questa autorità avesse anche risvolti di tipo politico. Così il Papa conservava la sua libertà dentro i palazzi, in cui si sentiva comunque prigioniero e defraudato del suo secolare potere temporale; e conservava pure un riconoscimento diplomatico che permetteva di mantenere ambasciatori dei Paesi che lo riconoscevano e nunzi apostolici con gli stessi Paesi. In questo lungo periodo (una sessantina d’anni) vissuto in una sorta di “limbo diplomatico”, non mancarono comunque i rapporti con altri Stati da parte della Santa Sede, la quale firmò con molti di essi dei Concordati, che erano indubbiamente accordi per le questioni religiose, ma di fatto risultavano patti internazionalmente riconosciuti.

E tuttavia, quando la Santa Sede cercava di presenziare a Conferenze in cui erano in gioco i rapporti fra gli Stati per cercare soluzioni diplomatiche ed evitare contenziosi armati, in assenza di una più stabile organizzazione (come sarà la Società delle Nazioni, prima, e l’ONU, poi), il governo italiano bloccò ogni forma di partecipazione ad esse del Vaticano.

Insomma, la situazione era bloccata e non sembrava che si potesse addivenire ad un accordo, pur sempre tentato, anche per certe forme di irrigidimento su entrambi i fronti. La stessa soluzione trovata nel 1929 risultava spesso precaria e sul punto persino di essere rimessa in discussione … Comunque la soluzione richiedeva un accordo che fosse trovato e sancito fra le due parti, e che godesse dell’avallo internazionale. La prova se ne ebbe in occasione della guerra (1940-45), quando la neutralità e la libertà del territorio vaticano vennero rispettate, pur con le tante incognite circa la tenuta nel tempo di questo rispetto.

Va altresì rilevato che i Patti lateranensi, siglati in un Palazzo riconosciuto come territorio vaticano e ancora oggi tale, erano di fatto due. Con il primo, il Trattato, si prendeva atto della nascita di un nuovo Stato con un suo territorio e una sua organizzazione; con il secondo, il Concordato, si disciplinavano le questioni di comune spettanza allo Stato e alla Chiesa sul territorio italiano e per i cittadini italiani. Se il primo rimase – e rimane – in vigore, anche dopo la trasformazione istituzionale dell’Italia, che da monarchia divenne Repubblica, il secondo fu sottoposto a revisione ed è passibile di questo anche per il futuro.

Il cammino per giungere alla Riconciliazione

Come si è arrivati a questo passo?

Il cammino di questa riconciliazione non è stato facile e ci sono state resistenze da ambo le parti, sia perché il Papa considerava l’occupazione del suo “Patrimonio” come una usurpazione, sia perché lo Stato italiano con le Leggi delle Guarentigie riteneva già sufficientemente garantito l’esercizio del magistero pontificio e della sua sovranità, anche senza un territorio su cui governare. Di fatto nessuno entrò nei Palazzi Vaticani e tuttavia essi erano comunque considerati territorio italiano.

Pio IX (1846-1878) così si esprimeva nella sua enciclica “Respicientes ea” del 1 novembre 1870

È noto inoltre che Noi, adempiendo al Nostro dovere, non solo Ci opponemmo sempre ai replicati consigli e alle domande fatteci, con cui si voleva che Noi, vergognosamente, tradissimo l’ufficio Nostro abbandonando e consegnando i diritti e i domini della Chiesa, o stipulando con gli usurpatori una nefanda conciliazione, ma, di più, Noi, a questi iniqui ardimenti e misfatti perpetrati contro ogni diritto umano e divino, opponemmo solenni proteste davanti a Dio e agli uomini, e dichiarammo incorsi nelle censure ecclesiastiche i loro autori e fautori, e, quando fu necessario, li fulminammo con le stesse censure.

Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica (ossia il temporale dominio di questa Santa Sede, posseduto non senza un evidente disegno della Divina Provvidenza in così lunga serie di secoli dai Nostri Predecessori) né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo cattolico per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni.

Qui il Papa si riferisce al testo di S. Ambrogio circa la vigna di Naboth e soprattutto alla sua resistenza al potere politico del tempo che voleva impadronirsi di alcune chiese milanesi per affidarle agli Ariani. Il vescovo milanese si oppose decisamente in nome di questa eredità e si rinchiuse in chiesa per evitare alla polizia di entrarvi …

Infine, obbedendo a quell’avvertimento di San Paolo “Quale comunanza della giustizia coll’iniquità? O quale società fra la luce e le tenebre? Quale patto tra Cristo e Belial?” (2Cor 6,14-15) apertamente e chiaramente manifestiamo e dichiariamo che Noi, memori del Nostro ufficio e del solenne giuramento che Ci lega, non prestiamo, né mai presteremo, l’assenso a qualunque conciliazione, che in qualunque modo distrugga o scemi i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede; parimenti proclamiamo che, pronti certamente con l’aiuto della Divina grazia nella Nostra grave età a bere sino alla feccia per la Chiesa di Cristo il calice che Egli per primo si degnò di bere per la medesima, mai sarà che Noi aderiamo e Ci pieghiamo alle inique domande che Ci faranno. Infatti, come il Nostro predecessore Pio VII diceva: “Far violenza a questo supremo dominio della Sede Apostolica, separare la sua temporale potestà dalla spirituale, disgiungere, svellere, scindere gli uffizi del Pastore e del Principe, null’altro è che voler distruggere e rovinare l’opera di Dio, nulla fuorché sforzarsi che la Religione abbia un danno grandissimo, nulla fuorché spogliarla d’un efficacissimo aiuto, affinché il suo sommo Rettore, Pastore e Vicario di Dio non possa conferire ai cattolici, sparsi in ogni angolo della terra e di là bisognosi di forza e di aiuto, quei soccorsi che si chiedono dalla spirituale potestà di lui, e che nessuno deve impedire” [Alloc. 16 marzo 1808]..

Anche con il suo successore, Leone XIII (1878-1903) le cose non cambiano: rimane il “Non expedit” per i cattolici in Italia, che impedisce loro la partecipazione alla politica attiva e quindi ai ruoli decisionali di governo nazionale, non invece a quello locale. Ma soprattutto in seguito alla Enciclica sociale più famosa, la Rerum Novarum del 1891, si aprono nuove prospettive di carattere sociale, che vengono quanto mai auspicate per una presenza più capillare e più incisiva nelle realtà locali, mentre rimane l’opposizione ad ogni forma di partito dei cattolici.

Leone XIII infatti, che pur ammirava l’entusiasmo dei giovani per i problemi sociali, ma non voleva sconfessare la trentennale operosità degli intransigenti, il 18 gennaio 1901 interveniva con l’enciclica Graves de communi, la quale proibiva ancora una volta ai cattolici di svolgere azione politica, concedendo loro di impegnarsi solo nel campo sociale. L’enciclica aveva lo scopo di chiarire il concetto di democrazia cristiana e di sedare così le discordie, divenute in proposito sempre più profonde, tra i cattolici italiani; si conservava quella espressione, ma si intendeva che essa indicasse essenzialmente una “azione benefica verso il popolo”. (Penco, p.477).

Gli anni tra i due secoli furono particolarmente vivaci soprattutto per il dibattito e per l’azione dei cattolici dentro la società e dentro il dibattito politico italiano, senza mai trovare comunque la possibilità concreta di giungere ad una conciliazione. Lo stesso Giolitti che raggiunse un’intesa con il cosiddetto “Patto Gentiloni”, per avere il sostegno dei cattolici in politica, non ne voleva sapere di scendere a patti con la Chiesa, anche per la sua formazione fortemente liberale che voleva la Chiesa relegata nelle sacrestie con la sola possibilità di animare opere benefiche nel campo sociale. Solo alla vigilia della guerra si faceva strada l’ipotesi di ottenere l’internazionalizzazione della Legge delle Guarentigie. Ma non si andò molto oltre ….

Anche il pontificato di Benedetto XV (1914-1922) non fu sottratto alle asprezze polemiche legate alla questione romana: la sua neutralità nella guerra appariva come una presa di posizione ostile all’Italia e favorevole alle Potenze degli Imperi centrali; e negli Accordi di Londra per l’entrata dell’Italia in guerra a fianco dell’Intesa, all’articolo 15 si faceva proprio riferimento alla Santa Sede per impedirle di partecipare alla Conferenza di pace, come avvenne …

Patto di Londra (26 aprile 1915)

L’articolo 15 affermava: “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione dell’Italia a tutte le proposte tendenti ad introdurre un rappresentante della Santa Sede in tutti i negoziati per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente guerra“.

Questo articolo provocò un profondo risentimento nel mondo cattolico. Secondo il filosofo Georges Sorel forse gli americani non si sarebbero così facilmente lasciati trascinare ad abbracciare la causa jugoslava, se i numerosi cattolici degli Stati Uniti non fossero stati ostili all’Italia per colpa di questo articolo. La ragione di fondo dietro l’azione del governo italiano e soprattutto del Ministro degli Esteri Sonnino di voler impedire che la Santa Sede superasse l’isolamento politico partecipando a negoziati di pace, era il timore che la diplomazia vaticana potesse risollevare la Questione Romana ponendola come problema internazionale.

Quella a Versailles fu un’assenza senza precedenti, vista la costante presenza della Santa Sede ad incontri di tal genere, incaricati cioè di porre fine a periodi di conflittualità e a definire nuovi assetti delle relazioni internazionali …

È noto che la stretta connessione tra una partecipazione della Santa Sede alla SdN e la Questione romana era emersa già durante i lavori della Conferenza di Versailles, nei famosi colloqui che si tennero a Parigi fra il maggio e il giugno 1919, tra il capo del Governo italiano Vittorio Emanuele Orlando e l’allora segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari Bonaventura Cerretti, allo scopo di formulare proposte concrete per la soluzione della controversia tra la Santa Sede e l’Italia. In proposito, la posizione vaticana chiedeva, quasi come condizione pregiudiziale, la costituzione di un’entità statuale sotto la sovranità della Santa Sede garantita da una presenza di questa nella SdN, una membership che proprio la sovranità territoriale effettivamente esercitata avrebbe reso possibile. (Buonomo, p. 49.50)

Di fatto la Santa Sede, che pur era tenuta lontana dalle assise internazionali di quell’epoca, vedeva comunque accrescere la sua posizione, sia perché aumentavano le relazioni diplomatiche sia perché venivano stipulati nuovi Concordati, in un periodo del resto piuttosto burrascoso. In effetti erano nati in Europa nuovi Stati, e questi assumevano particolari caratterizzazioni con più o meno manifeste tendenze di tipo autoritario, che richiedevano, se non privilegi, comunque più ampi spazi di libertà di movimento per la Chiesa e per i cattolici.

E va pure riconosciuto che nel periodo postbellico la Santa Sede interviene ed è pure richiesta negli interventi per segnalare o per sentirsi coinvolta in alcune questioni e in alcune situazioni, che vanno anche ben oltre gli interessi di parte o dei suoi fedeli.

Il testo citato ricorda alcuni problemi che vedono l’attività diplomatica della Santa Sede e la vedono impegnata a sostenere anche situazioni dove non erano in gioco solo interessi legati al mondo cattolico …

La fame in Russia durante il periodo della guerra civile: la richiesta di Benedetto XV è di intervenire per lenire le sofferenze della popolazione russa.

La situazione delle minoranze e dei rifugiati: il caso dell’Ungheria che si vedeva privata dei suoi territori e di popolazione ungherese che veniva inglobata nella Romania e nella Jugoslavia, rivela una Santa Sede attenta alle questioni che poi esploderanno in seguito.

Le popolazioni dell’Asia Minore: l’azione messa in campo per i numerosi profughi che la guerra greco-turca aveva creato da ambo le parti, fa della Santa Sede un partner privilegiato.

Un’azione che mostra non solo la capacità della Santa Sede di operare sul piano internazionale, bilaterale e multilaterale, prima del 1929, ma come pure in quel momento storico essa fosse attenta alle questioni di rifugiati e profughi, operando in loro favore indipendentemente dall’appartenenza religiosa. (Buonomo, p. 61)

La questione dei Luoghi Santi in Palestina rivelava un interesse della Santa Sede, che faceva presente alla Società delle Nazioni alcune questioni, non solo e non tanto di difesa dei propri privilegi acquisiti, quanto piuttosto come si dovesse agire a livello internazionale, tenuto conto che molti luoghi santi in Terra Santa avevano un carattere particolare, che non si poteva definire sulla base della nazionalità.

La riforma del calendario gregoriano veniva avanzata per motivi di ordine commerciale, in riferimento alla questione della data della Pasqua da rendere fissa e non mobile, come succedeva e succede tuttora. Non se ne venne a capo di nulla. Ma è interessante sapere che la Società delle Nazioni sentiva la necessità di avere il parere della Santa Sede …

Ciò significa che, anche ad aver perso i territori e la sua immagine di Stato fra gli Stati, anche a trovarsi in difficoltà per l’opposizione italiana a dare spazio nel contesto internazionale, con la paura che si potesse sollevare la “ questione romana”, non solo a livello di alcuni Stati, ma anche di organizzazioni al di sopra delle nazioni stesse, la Santa Sede veniva presa in seria considerazione, segno inequivocabile che si conservava per essa una immagine che la metteva sullo stesso piano degli Stati. La cosa poi divenne scontata con il riconoscimento giuridico che emerse dai Trattati lateranensi.

I prodromi dell’evento

Non sono mai mancate le trattative per arrivare alla conciliazione, pur in presenza di discorsi pubblici che alimentavano invece la polemica.

Da parte delle autorità ecclesiastiche si continuava a sottolineare il sopruso commesso dalle autorità italiane e continuava ad essere in vigore la condanna ferma di Pio IX. Veniva pure raccomandato ai vescovi di non avere a che fare con le autorità in certi momenti, come potevano essere le visite del Re o di altri capi di Stato alle autorità italiane.

Da parte dei governi che si sono succeduti, non solo mancava l’autorità per addivenire ad una forma di soluzione; altre volte si manifestavano veri e propri ostacoli ad ogni forma di riconoscimento della Santa Sede come interlocutrice a livello internazionale.

Era evidente che con i governi di stampo liberale non era possibile alcun forma di conciliazione, per quanto se ne parlasse, anche perché, oltre alle componenti massoniche decisamente anticlericali, occorreva superare l’ostacolo delle diverse anime dei partiti di governo.

Anche quando compare Benedetto XV, già nella sua prima enciclica “Ad beatissimi Apostolorum” del 1 novembre 1922 diceva chiaramente

Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna spontaneo colà, donde volemmo prendere le mosse. È la parola di pace che Ci ritorna sul labbro; per questo con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell’attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società, affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non trattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il suo capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli a tutela della sua libertà.

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La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d’altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d’essere assicurati che il loro Padre comune nell’esercizio dell’apostolico ministero sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.

Al voto pertanto d’una pronta pace fra le Nazioni, Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti aspetti, alla stessa tranquillità dei popoli. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, alzarono più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.

Qui non si parla più di usurpazione e, di conseguenza, della condanna verso i governanti italiani. Qui è accorata invece la richiesta di poter contare ancora su una libertà di movimento, che consenta al Papa di essere al di sopra delle parti. Si tenga presente che siamo in un momento particolarmente grave, come quello della guerra in atto, durante la quale la Santa Sede poteva e doveva svolgere la sua missione senza dover risultare assolutamente di parte, come poi verrà accusato lo stesso Papa nei suoi interventi, compreso quello dell’agosto 1917, quando definì la guerra “un’inutile strage”.

Benedetto XV chiede chiaramente che si ponga fine a questo “stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa”: è evidente che si tende la mano affinché la anormalità venga sistemata … Non risulta che ci siano richieste di tornare allo stato precedente con il ripristino del potere temporale e con la restituzione dei territori usurpati. Si esprime invece il desiderio che il Papa possa essere davvero indipendente per svolgere la sua missione soprattutto a favore della pace.

Non sembrava possibile neppure con Mussolini, che era stato in gioventù un acceso anticlericale e che tale era rimasto anche dopo la sua espulsione dal partito socialista. Ciò che lui rappresentava dopo la guerra era l’anima nazionalista, che si faceva strada anche attraverso le forme violente e non faceva mistero del suo modo di concepire e di esercitare il potere. Ma non sono mancate affermazioni sulla questione romana che potevano far sperare in un esito come quello poi raggiunto nel 1929.

In un discorso al parlamento del 21 giugno 1921 si espresse in tal modo: “Affermo che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. Se, come diceva Mommsen … non si resta a Roma senza un’idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale, che oggi esiste a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano. Penso … che se il Vaticano rinuncia definitivamente ai suoi segni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l’Italia profana e laica dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per le scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza sovrana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del Cattolicesimo, nel mondo … è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani”. (Nacci, p. 86-7)

Ovviamente ci vollero gli anni del consolidamento al potere da parte di Mussolini, il cui regime si può dire inizia con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, dopo la crisi dovuta all’assassinio di Matteotti. Con l’assetto dittatoriale entrano in vigore anche leggi che vogliono estirpare la pluralità dei partiti, ma anche le società segrete di stampo massonico. Così le due parti appaiono più libere nell’intavolare trattative.

Queste “basi” furono poste il 6 agosto del 1926 quando il Papa autorizzò l’avvocato fiduciario del Vaticano Francesco Pacelli, fratello del futuro Pio XII, a conferire con il consigliere di Stato, Domenico Barone, circa la soluzione della Questione romana; colloqui che iniziarono due giorni dopo nella casa di Barone (Nacci, p. 89)

La discussione richiese tempo anche perché nel frattempo sorgevano problemi che rischiavano di far naufragare l’intesa: la dittatura non poteva permettere che la Chiesa avesse campo libero per iniziative di carattere formativo nei confronti della gioventù; non si metteva in discussione il catechismo, ma non si potevano accettare forme di attività diverse, come i gruppi Scout o l’Azione Cattolica, e naturalmente la Chiesa riaffermava in continuazione la sua imprescindibile azione educativa. C’era poi la questione del Concordato, che già la Chiesa andava realizzando con i vari Stati europei e del mondo in quel periodo, e che si voleva abbinare alla soluzione della questione romana.

Due relazioni del consigliere di Stato Domenico Barone del 12 aprile e dell’agosto 1928 fanno luce non solo sulla buona volontà di quell’esemplare funzionario, ma anche sugli argomenti verso cui le due parti erano più sensibili. Le difficoltà non mancavano. In Vaticano, infatti, si era urtati per la presenza di spie fasciste; a Mussolini d’altra parte, continuavano a giungere proteste – anche da parte di D’Annunzio – per i progetti di conciliazione ormai nell’aria. Il consigliere Barone svolse quindi, a questo proposito, un’attività intensissima fino a compromettere la propria salute, mentre Pio XI già nel marzo sembrava disposto a non irrigidirsi per questioni di territorio, pur protestando, il 25 marzo, contro il tentativo di monopolizzare l’educazione della gioventù e contro le persistenti vessazioni ai danni dell’Azione Cattolica. (Penco, p. 527)

La firma e la ratifica dei Trattati

Alla firma si arriva l’11 febbraio 1929, anche se poi la ratifica avviene il 7 giugno dello stesso anno. Nel momento stesso in cui la firma avveniva nel Palazzo Apostolico Lateranense, il Papa teneva un discorso in cui affiorano anche i problemi che accompagnano questa decisione …

Dall’allocuzione di Pio XI ai parroci romani e ai predicatori della Quaresima

(11 febbraio 1929)

Ed ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare. Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.

Un Trattato inteso a riconoscere e, per quanto « hominibus licet », ad assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) e che evidentemente è necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond’è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena.

Un Concordato poi, che volemmo fin dal principio inscindibilmente congiunto al Trattato, per regolare debitamente le condizioni religiose in Italia, per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano.

Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne «Urbi et orbi » dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.

Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri. Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.

Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.

Come si avverte da queste parole c’è la coscienza che l’atto è grande e solenne e comunque foriero di critiche e di prese di distanza che si muovono contro la sua persona e le sue scelte. Ne è consapevole (e un po’ amareggiato), ma nel contempo appare quanto mai deciso ad andare fino in fondo per cogliere questa opportunità e mettere fine al contenzioso che non si poteva trascinare oltre con grave pregiudizio per la Chiesa stessa. Le critiche che gli venivano mosse non riguardavano solo il riconoscimento dell’Italia fascista, visto che il Trattato veniva fatto con Mussolini, ma anche per la rinuncia ai possedimenti territoriali che da secoli appartenevano alla Chiesa.

Se con Mussolini fu più facile ottenere la Conciliazione, non per questo il Trattato aveva le garanzie di quel governo, perché il Trattato, di natura internazionale, avveniva con lo Stato Italiano e quindi, propriamente con la persona del Re, di cui Mussolini era solamente il plenipotenziario, come lo era alla firma per il Vaticano il Card. Gasparri e non il Papa stesso. Se poi esso rimane vincolato alla Costituzione repubblicana, ciò significa che davvero questo Trattato è con lo Stato e non con un regime che è pur sempre transeunte. Per quanto riguarda la rinuncia al territorio “usurpato”, ora si riconosceva che era sufficiente al Papa una vera indipendenza, garantita con un minimo di possedimenti che permettessero l’assoluta estraneità allo Stato italiano. Col tempo la cosa si rivelò una autentica liberazione da una zavorra pesante: il Papa era libero, senza avere le incombenze di un governo temporale, che richiede particolari organismi e leggi …

Maggior entusiasmo Pio XI esprime al Corpo diplomatico qualche giorno dopo, riconoscendo che è nato un nuovo soggetto politico destinato a salvaguardare la missione della Chiesa e del magistero petrino, più ancora di quanto non lo si poteva pensare con la forma precedente del Patrimonio di S. Pietro, ereditato dalla storia.

Discorso di Pio XI al Corpo diplomatico (9 marzo 1929)

Ce n’è un’altra che continua dall’11 febbraio a riempire i paesi e il mondo intero. È questo grande, incomparabile (e forse finora mai verificato) plebiscito, non solo d’Italia, ma di tutte le parti del mondo. Non c’è, in questa parola, esagerazione alcuna. Noi stiamo ricevendo lettere e telegrammi non solo da tutte le città e villaggi d’Italia, non solo da tutte le città e da molti villaggi di tutti i paesi di Europa, ma anche dalle due Americhe, dalle Indie, dalla Cina, dal Giappone, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, dal Nord, dal Centro, dal Sud dell’Africa, dall’Alaska, dal Mackenzie, dall’Hudson, come se si trattasse di un avvenimento del luogo.

Fatto veramente impressionante e che Ci autorizza a dire che non solo il popolo, tutto il popolo d’Italia, ma che i popoli del mondo intero sono con Noi: un vero plebiscito non solamente nazionale, ma mondiale. Ecco la garanzia, la più imponente che si possa pensare ed immaginare. In questo vasto e immenso plebiscito non possiamo non cogliere e rilevare alcune voci che Ci hanno profondamente commossi. È anzitutto la voce del piccolo numero dei sopravvissuti, nei vostri vari paesi, tra i valorosi che, nel corso degli anni, in spirito di fede cattolica hanno messo la loro vita a disposizione e a difesa della Santa Sede. Voi direte a questi valorosi che il Santo Padre ha pregato e applica delle Messe per tutti i loro morti, che sono anche i Nostri morti, indimenticabili.

Appare chiaro, a proposito dei Trattati, che si tratta di due documenti molto diversi, a cui poi si deve aggiungere anche la Convenzione finanziaria, con la quale si fissa l’indennizzo alla Santa Sede da parte dell’Italia, che pur aveva garantito con le Guarentigie un compenso annuale, sempre rifiutato da parte del Papa.

Il Trattato fa nascere di fatto un nuovo Stato del tutto sovrano, la cui indipendenza viene garantita a livello internazionale.

Il Concordato ovviamente riguarda i due Stati in riferimento all’esercizio religioso sul territorio italiano. Questo è stato sottoposto a verifica e ad una nuova intesa nel 1984.

L’impressione suscitata da un accordo così importante e così lungamente atteso fu senza dubbio di grande risonanza, in Italia e all’estero, come dimostrò la vasta eco nella stampa nazionale e internazionale. Altrettanto grande fu ovviamente, secondo i diversi punti di vista, la disparità di giudizi, per quanto prevalessero decisamente quelli positivi. A distanza di un sessantennio dall’occupazione italiana di Roma e della definitiva cessazione del potere temporale, i rapporti tra Stato e Chiesa ricevevano una regolamentazione che poteva dirsi soddisfacente. Vi fu, naturalmente, chi volle andare anche oltre l’intenzione della parti contraenti e dello stesso Pio XI: così, si parlò di un avallo senza riserve dato dalla Chiesa al regime fascista. (Penco, p. 529)

La Conciliazione venne disapprovata da quegli antifascisti – in Patria e all’estero – che deprecarono le trattative intercorse tra la Chiesa e un regime totalitario … Ma di fatto, cessata la dittatura, i Patti Lateranensi vennero accolti tali e quali, come trascendenti nettamente le circostanze e le persone che vi avevano avuto parte, nella costituzione stessa del nuovo Stato democratico e repubblicano e ciò con l’appoggio degli stessi partiti di sinistra (Penco, p. 530).

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Conclusioni

Di fatto noi abbiamo nella lettura storica di questi Patti lo stretto legame fra il Trattato, costitutivo dello Stato Vaticano, e il Concordato che regola invece i rapporti fra Chiesa e Stato in Italia. “Simul stabunt, simul cadent” – si diceva allora. E c’è pure chi supporne che il giorno della morte di Pio XI (10 febbraio 1939), che era vigilia del decimo anniversario dei Patti, ci fosse già un documento pontificio scritto, con cui, prendendo le distanze dal regime fascista, anche per le sue leggi razziali, si volesse far cadere il Trattato. Ovviamente il documento con c’è ed è da verificare che possa essere stato scritto, anche se non entrò mai in vigore con la morte del suo estensore. Penso che l’impugnazione del Concordato non volesse dire che si dichiarava nullo anche il Trattato con il quale nasceva lo Stato della Città del Vaticano. Questo Trattato ha dimostrato la sua forza anche a livello internazionale in occasione della guerra, quando anche nei mesi di occupazione nazista, i territori dello Stato pontificio, per quanto ristretti, non sono stati invasi e sono diventate isole di libertà per quanti trovarono rifugio e scamparono al pericolo di cadere sotto la polizia politica o sotto le SS naziste. Sta di fatto che nella discussione all’Assemblea Costituzionale, i Patti, nel loro insieme, entrarono a far parte della Costituzione stessa, a dimostrazione che essi non venivano considerati come l’espressione di un regime, ma come un vero e proprio trattato fra due Stati, ben oltre la contingenza storica di un governo oggi sottoposto alla damnatio memoriae.

Ma se il Trattato non è mai caduto, il Concordato è stato sottoposto a revisione. Non poteva essere diversamente per lo Stato italiano che si trovava in presenza di accordi costruiti, qui sì, secondo un sistema totalitario. La revisione era ritenuta necessaria per conformarsi alla legge fondamentale dello Stato, che si presenta democratico. Nel momento più delicato della sua storia non si volevano aprire ulteriori ferite e anche il Partito comunista si adeguò ad accettare entrambi i documenti dei Patti. Se poi si addivenne alla revisione, questa fu pure voluta dalla Chiesa che voleva anch’essa rileggere il Concordato sulla base delle suo nuove Costituzioni redatte con il Concilio Vaticano II.

In genere nelle considerazioni di carattere storico che si fanno sui Patti lateranensi si tende a sottolineare che essi mettono la parola fine al contenzioso tra Italia e Vaticano in seguito alla questione romana, come se si trattasse di un problema bilaterale. Certamente è così per il Concordato. Ma per il Trattato esso ha di fatto l’avallo internazionale, perché da allora viene riconosciuto nel concerto delle nazioni, che c’è pure spazio per una realtà politica e giuridica come lo Stato del Vaticano. Ora esso, anche con un porzione minima di territorio, ha in realtà un grande peso nel sistema internazionale e ce l’ha in forza della sua assoluta indipendenza e sovranità. Se questa era di fatto sospesa nel periodo fra il 1870 e il 1929, nonostante le leggi delle Guarentigie che volevano in maniera unilaterale garantire una sovranità di fatto limitata, ora invece essa viene universalmente riconosciuta. Ciò che oggi esiste è ben diverso da ciò che la storia aveva consegnato al Papa nel corso dei secoli, certamente per l’assetto territoriale, ma anche per il tipo di esercizio di potere che poneva il Papa accanto ad altri Stati, con i loro medesimi problemi di natura sociale e strutturale. Oggi il Papa possiede ancora un territorio su cui governa in maniera totalmente autonoma, ma questo tipo di Stato non ha bisogno di quel genere di infrastrutture che sono invece necessarie altrove. Perciò il Vaticano è ben diverso da quello che era prima del 1870; ma la sua autorità e il suo peso è di gran lunga superiore al precedente e la storia recente ha dimostrato che questa indipendenza ha giovato certamente all’esercizio della sua missione, soprattutto senza l’onere di dover svolgere compiti non propriamente suoi e non propriamente necessari a questa sua missione.

BIBLIOGRAFIA

Pontificio Comitato di scienze storiche- I PATTI LATERANENSI in occasione del XC anniversario (1929-2019)- Libreria Editrice Vaticana – 2019 – 

Gregorio Penco – STORIA DELLA CHIESA IN ITALIA (volume II) Jaca Book – 1977

LA FINE DEL POTERE TEMPORALE DEI PAPI.

IL PROBLEMA DELLA “QUESTIONE ROMANA” 

150 anni fa, il 20 settembre 1870, data storica per noi italiani, i bersaglieri entravano dalla breccia di porta Pia, a Roma, facendo decadere di fatto lo Stato Pontificio, e, con esso, come si pensava, anche il potere temporale. In realtà potremmo dire che quanto territorialmente rimaneva di quello Stato, erede di un ingrandimento perseguito fino al XVI secolo, veniva sì occupato dal Regno d’Italia, ma non per questo si poteva dire che veniva a decadere quella forma di autonomia, che di fatto i Papi nel corso della storia si sono costruiti, anche con il possesso e il governo di un territorio progressivamente ampliato.

Se nel passato appariva necessario per il Papa detenere anche il possesso di un territorio per garantirsi un’autonomia, poi di fatto ci si accorse che l’ufficio magisteriale e primaziale di Pietro poteva conservarsi anche senza quel tipo di Stato che aveva ereditato dalla storia. L’aveva ereditato anche per una assenza di potere a Roma, ormai divenuta simbolo di un impero millenario.

Certo, proprio a partire da ciò che la storia aveva lasciato in eredità, appariva pur necessario che il Papa, per continuare la sua missione nel solco di questa tradizione, avesse sempre bisogno di una pur minima extraterritorialità rispetto a ciò che stava sorgendo nell’Ottocento, e cioè uno Stato unitario, come quello italiano, che risultava essere la conclusione di una lunga storia. Se per gli altri Stati della Penisola, assimilati dal Regno di Sardegna (che sosteneva di essersi messo in campo per questa causa, mentre in realtà perseguiva la tradizione dell’ingrandimento territoriale in Italia), era senza conseguenze sul piano storico e politico, per Roma c’erano di mezzo tante altre questioni, sulla base del particolare tipo di Stato che risultava essere lo Stato Pontificio.

Non si parlava per gli altri Stati regionali d’Italia di una questione particolare, come invece già da tempo si parlava di una “questione romana”, quella, cioè, che richiedeva un intervento per mettere anche questo territorio e la sua gente in condizione di poter costruire una propria entità politico-statuale, ben consapevoli che la commistione fra il politico e il religioso avrebbe impedito uno sviluppo secondo i criteri che si stavano realizzando un po’ dovunque. E d’altra parte, anche oltre il mondo cattolico, c’era pure la convinzione che il Papa dovesse godere di una sua indipendenza, finora assicurata anche dalla gestione di un territorio da amministrare.

L’avvenimento aveva assunto fin dall’inizio una dimensione notevole per il suo carattere polimorfo, internazionale, nazionale, diplomatico, politico, religioso, memoriale e militare. Ben pochi altri eventi avevano avuto una tale risonanza: era stato infatti necessario trasformare una problematica internazionale, legata all’universalità del potere spirituale del papa, in una questione di politica interna, con l’abbattimento del potere temporale; dovevano essere affrontati i problemi legati alla “questione romana” che duravano da decenni; occorreva definire i rapporti tra la Chiesa e lo Stato laico e unificato e, infine, armonizzare gli aspetti politici e militari della conquista di Roma. ((HEYRIES, p. 9)

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IL SIGNORE E’ ANCORA TRA NOI : BUONA PASQUA 2020

 

L’hanno voluto mettere a tacere. L’hanno voluto imprigionare nella morte. L’hanno voluto radiare da questo mondo. Ma il Signore non si lascia né comprimere, né opprimere, né deprimere. E vince, senza neppure voler avvincere, e quindi legare, imbrigliare, imbavagliare chi lo aveva messo a tacere. Vince, piuttosto, volendo convincere, cioè coinvolgere anche noi nella sua vittoria, perché, uscito dal sepolcro, va a raccogliere i suoi, quasi raggiungendoli uno per uno, perché, lasciandosi raggiungere dalla sua presenza, si ritrovino loro più vivi. Si ritrovino soprattutto capaci di continuare la sua passione, quella che, anche a far soffrire – e spesso non poco –, fa comunque vivere, e fa vivere meglio, perché con essa siamo in grado di reagire bene in presenza del male. Oggi siamo noi ad essere come sepolti, barricati in casa, come erano chiusi per paura i discepoli che si erano sbandati nelle ore buie della tragedia, inetti, inebetiti, sprovveduti, frastornati. Oggi ci troviamo noi, non a recitare quella parte, ma a vivere una esperienza amara che vorrebbe spegnere l’entusiasmo, la voglia di vivere e di reagire al male. Anche a provare amarezza, come l’ha provata il Signore davanti alla sua ora terribile, non dobbiamo reagire in maniera scomposta o in maniera disarmata e disarmante, propria di chi si lascia andare allo scoramento. Qui piuttosto è opportuno divenire più coraggiosi nell’affrontare la situazione, come hanno fatto le donne che sono andate al sepolcro, anche a sapere che non c’era più nulla da fare. Ma proprio questo loro coraggio ha permesso di diventare le prime a raccogliere la bella notizia. Leggi tutto “IL SIGNORE E’ ANCORA TRA NOI : BUONA PASQUA 2020”

La Via Crucis con Raffaello Sanzio.

L’esercizio della pietà cristiana di accompagnare il Signore nel suo percorso “glorioso” è stato qui vissuto con il grande artista rinascimentale, rievocato a 500 anni dalla morte; evento, che è da collocare in concomitanza con il giorno rievocativo della morte e della sepoltura del Signore. Sembra che l’artista stesso sia particolarmente segnato da questo incontro con il Signore che ha servito, con tutte le incoerenze dei comuni mortali, mettendo a profitto il suo genio artistico. Lo ha fatto, non tanto perché abbia servito nel cuore della cristianità, in quella Roma rinascimentale che proprio per lui e per tanti altri si abbelliva in quegli anni, ma perché la sua sensibilità religiosa, che possiamo cogliere nelle sue opere, anche a non avere un soggetto in quella direzione, lo faceva essere “divino”, come viene anche definito. Lo era, davvero! Lo era, non solo perché le belle fisionomie dei suoi soggetti ci trasportano in un’aura incantata e misteriosa, ma perché ci sentiamo avvicinare più che mai al divino, partendo da quanto di meglio egli poteva riscontrare nell’umano”. 
Percorriamo la Via Crucis accompagnati dalle opere di Raffaello.

L’Europa di 100 anni fa: LA DISSOLUZIONE DELL’IMPERO OTTOMANO E LA NASCITA DELLA TURCHIA LAICA E MODERNA

INTRODUZIONE 

La debolezza dell’Impero turco alla vigilia della guerra mondiale

Una delle questioni decisive dell’Ottocento, consegnata anche al secolo successivo, è la realtà dell’Impero turco, rimasto dalla storia come un mondo che sembrava destinato a durare e che invece appariva più che mai in dissoluzione, sia come forma di governo, sia come estensione territoriale. È sempre stato un impero e non solo una nazione perché esso non risulta composto solo da un territorio omogeneo, almeno a livello etnico, ma, in uno spazio, del resto molto esteso, esso comprende popolazioni diverse e non assimilabili fra loro, se non perché riconoscono l’autorità di chi comanda, anche in nome di una ideologia o di un potere di natura religiosa. Qui il sultano, che nel periodo di massima espansione si era rivelato capace di dominare e di guidare soprattutto l’apparato militare, aveva assunto anche una potestà sacra, come depositario dell’eredità religiosa islamica. In nome di questo potere religioso egli esercitava la sua alta autorità anche sulle varie tribù del mondo arabo, sia nel Medio Oriente, sia nel nord Africa. L’espansione verso l’Europa centrale si era fermata nella penisola balcanica, e, dopo la battaglia di Lepanto (1571), quella che sembrava una rapida espansione verso l’Occidente, di fatto venne arrestata, e di lì ebbe inizio un lento ma inesorabile decadimento, che proprio nell’Ottocento ebbe il suo svolgimento e con la prima guerra mondiale il colpo di grazia che avrebbe dovuto abbattere l’impero secolare.

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L’AUSTRIA E L’UNGHERIA USCITE DAL TRATTATO DI VERSAILLES

 

Introduzione: il quadro di allora e di oggi

Sono trascorsi 100 anni dall’assetto che l’Europa ha assunto al termine del conflitto mondiale. Come già si diceva allora, quella soluzione appare temporanea: dagli esperti di quei giorni fu paventato che un conflitto sarebbe poi scoppiato negli anni successivi; così oggi, anche se sull’orizzonte non ci sono propriamente delle ombre che fanno presagire un nuovo conflitto (anche perché si ha più che mai l’avvertenza che i disastri sarebbero davvero ampi e incalcolabili), ci si rende conto che lo stesso assetto geografico è sempre fragile, ma lo è ancora di più quello politico. Non solo; l’Europa rischia sempre più l’irrilevanza, anche se oggi conserva un certo peso di natura economica, finanziaria e commerciale, seppure minato da nuove “tigri” rampanti che stanno affiorando sullo scenario del mondo. Evidentemente il quadro che oggi l’Europa presenta ha in sé le scelte e gli errori che sono stati fatti allora e che ancora non vedono una seria rilettura che permetta, quanto meno, di comprendere quali siano i problemi irrisolti, soprattutto in quel “ventre molle” dell’Europa che è in modo particolare la cosiddetta Mittel-Europa e più ancora la penisola balcanica. Quanto si è prodotto con il trattato di Versailles, senza una giusta considerazione dei criteri che si sarebbero dovuti seguire, ha lasciato in eredità situazioni che ancora oggi appaiono irrisolte.

Neppure sui libri di storia, usati nelle scuole e che poi lasciano una certa immagine nell’opinione pubblica, alcuni momenti, come quello in esame, sono stati trattati con sufficiente chiarezza, per quello che si può stabilire a partire dai documenti e dalle analisi che sono state svolte in seguito da persone competenti. Soprattutto a proposito del quadro europeo che sta ad est, il nostro modo di considerare quell’assetto ha badato di più ai revanscismi italici circa i territori sull’Adriatico, la cui storia viene considerata appartenente alla penisola per una eredità che è legata ad altri schemi.

E comunque, c’è sempre stata una grande ignoranza circa il quadro etnico e culturale presente in un territorio dove si erano sempre manifestati fenomeni di imperialismo o di dominio che provenivano da fuori. Tutto l’oriente europeo è sempre stato territorio di appetiti che vedevano in continuazione lo scontro fra diverse forme di imperialismo in nome dell’appartenenza al mondo germanico, slavo o turco. L’eredità lasciata dall’Ottocento è proprio quella di imperi sempre più lanciati verso oriente e nel contempo dell’insorgere di nazionalismi che contrastavano queste forme di imperialismo ereditate dal passato. Il primo conflitto mondiale si è scatenato proprio qui e in modo particolare per chiarire, non a livello diplomatico, ma con l’uso delle armi, come si doveva ripensare l’assetto di questo territorio così complesso. Quando le armi tacciono, non perché propriamente vi sia un vincitore sul campo, ma perché c’è uno sfinimento generale, legato a malattie diffuse, come la spagnola, e a una carenza di approvvigionamenti, la palla viene rilanciata alla politica, la quale tuttavia non è in grado di affrontare in modo serio i problemi che si trascinavano sul tappeto. Si arriva così al Trattato di Versailles, che di fatto si snoda in diversi trattati disposti dalle potenze vincitrici con i singoli Paesi sconfitti, obbligati ad accettare e a firmare le ingiunzioni non trattabili. Leggi tutto “L’AUSTRIA E L’UNGHERIA USCITE DAL TRATTATO DI VERSAILLES”

LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: ADELCHI

Introduzione: una nuova vicenda, una nuova storia

Da poco la tragedia del Carmagnola è stata data alle stampe e già lo scrittore appare insoddisfatto del suo lavoro, sia per le critiche che gli piovono addosso, sia per l’insufficienza che lui avverte presente nell’opera, soprattutto in relazione allo stesso protagonista. Egli lo vuol proporre come innocente a proposito dell’accusa che gli è mossa di tradimento e che lo conduce al patibolo, mentre in realtà è anche lui la pedina di un gioco di brutalità, di inganni, di miserie, che non lo può rendere un uomo senza macchia, un eroe positivo, una sorta di martire della storia. A ben vedere, il personaggio più tormentato, e dunque più tragico, appare emergere dalla fantasia dell’autore e non dalla realtà storica: si tratta di Marco, l’amico del cavaliere, che vive interiormente la tragedia di essere leale alla ragion di Stato e non a quello dell’amicizia. Così il personaggio storico, che dovrebbe essere l’eroe positivo e non idealizzato, appare in tutti i suoi limiti; nondimeno è il personaggio non storico, che tuttavia ha in sé il realismo umano di voler affiorare per i valori umani, che non riesce però a difendere, a diventare di fatto il protagonista. Di qui la ricerca di una figura, quella di Adelchi, che pur inserita in un contesto storico, ben studiato e analizzato, risulta comunque totalmente creata dalla fantasia dello scrittore e proprio per questo emergere con la ricchezza dei valori umani che Manzoni vuol esaltare, incarnandoli in un personaggio veramente grande. Non è lui propriamente l’uomo che la storia esalta, sia perché è un perdente, ma anche perché egli è del tutto abbozzato dalla fantasia di chi scrive. Manzoni si prepara al nuovo lavoro con una ricerca storica ben documentata e, su quello sfondo, i personaggi che risultano meglio definiti e meglio curati sono quelli che la storia ignora e che la fantasia crea.

Ricerche e studi sui Longobardi Leggi tutto “LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: ADELCHI”

DALLA PAGINA AL GRANDE SCHERMO: I FRATELLI TAVIANI

LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

LIBERAMENTE TRATTO DAL ROMANZO OMONIMO

di Antonia Arslan – Armenia e questione armena

Introduzione

Il film del 2007 prende lo spunto dall’omonimo romanzo della scrittrice italiana, Antonia Arslan, di origine armena.

Non è la fedele trasposizione in immagini del testo, anche perché i nomi dei protagonisti sono cambiati e qua e là ci sono particolari diversi, con un esito finale che risponde maggiormente alla visione che della storia hanno i fratelli Taviani.

Il racconto scritto riguarda la famiglia della scrittrice, anche se pure lei si permette aggiunte, necessarie per dare risalto soprattutto a certi personaggi, in modo particolare le donne, che sono le vere protagoniste della storia.

Sullo sfondo storico c’è il grande genocidio armeno del 1915, il primo del secolo XX, perpetrato in Turchia contro questo popolo cristiano, minoritario nella grande Turchia mussulmana, dove ben oltre le motivazioni di carattere economico affiora quel tipo di nazionalismo che infestava l’Europa e che ha condotto al primo conflitto mondiale. Anche la Turchia uscita dalla guerra e già minacciata nel suo rinascere proprio dalla possibilità concreta di sparire dalla carta geografica senza riconoscimenti di sorta, cerca la sua sopravvivenza colpendo quelle minoranza a cui sono attribuite le colpe del collasso di questo Impero, che tale era e che non fu mai più, con la nascita di una Turchia laica e repubblicana.  Leggi tutto “DALLA PAGINA AL GRANDE SCHERMO: I FRATELLI TAVIANI”

I prodromi del fascismo.

Introduzione: nel periodo successivo alla fine della guerra

Finita la guerra in modo vittorioso e con il proclama trionfale di Armando Diaz, l’Italia non solo poteva tirare il fiato dopo anni di sofferenze e di disagi, con la paura di rimanere travolta dopo Caporetto, ma poteva anche guardare al futuro in maniera positiva, se non altro perché gli obiettivi prefissati con la guerra si erano raggiunti. In realtà poi si viene a sapere che non tutte le rivendicazioni territoriali possono trovare accoglienza e, sulla base dei principi di Wilson, l’Italia appare la più penalizzata. E comunque non si poteva pensare che una guerra così devastante si potesse dimenticare o lasciare alle spalle, solo perché i confini nazionali erano stati raggiunti. Semmai i problemi vengono subito ad esplodere, sia per la concomitante pressione che veniva alle classi del proletariato dall’esempio trainante di ciò che avveniva in Russia, anche se là non tutto procedeva nel migliore dei modi, sia perché una generazione di giovani, mandati alla sbaraglio sui fronti e rientrati o dalla prigionia o dall’esperienza militare, si aspettava una specie di riscatto sociale, che la rivoluzione proletaria in Russia faceva presagire. All’euforia per la vittoria seguono giorni di attesa per la piega che potevano prendere gli eventi sia sul fronte interno, dove la base popolare premeva per poter contare nelle scelte decisionali, sia sul fronte estero per le decisioni che i vincitori avrebbero preso sul nuovo assetto europeo. Se gli Stati, usciti sconfitti dalla guerra, apparivano più che mai in crisi con il rischio dello scontro sociale come era in atto in Germania, con il rischio della dissoluzione come stava avvenendo in Turchia, e con la completa sparizione come succedette nei territori dell’Impero asburgico, non si trovavano in condizioni migliori gli Stati vincitori, e, tra questi, soprattutto l’Italia, che si sentiva tradita proprio nelle sue aspirazioni, quelle che l’avevano indotta ad entrare nel conflitto con l’Intesa, abbandonando l’antica Alleanza. I riflessi sono soprattutto di natura sociale, ma diventano poi anche squisitamente politici. E il turbamento sociale si riflette con l’apparire sull’orizzonte di nuovi soggetti politici, i quali reclamano una posizione coerente con la loro rappresentanza, contro l’apparato governativo e statale che appariva stantio perché appartenente al sistema precedente, ormai tramontato. Lo Stato, condotto fin qui da una classe dirigente “liberale”, che trovava soprattutto in Giolitti e nella sua politica l’espressione migliore, risultava incapace di comprendere i tempi nuovi e di rispondervi. 

… Quella primavera del 1919 faceva sbocciare, come avrebbe scritto in prospettiva storico-politica Ivanoe Bonomi (1873-1951), “tre movimenti nuovi e vitalissimi per le sorti italiane: il deciso orientamento del socialismo contro il bolscevismo russo, il sorgere dei fasci di combattimento e la organizzazione dei cattolici nel nuovo Partito Popolare”. (Bianchi p. 15)

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LA RIVOLUZIONE RUSSA.

LA SITUAZIONE DELLA RUSSIA PRERIVOLUZIONARIA
Nel 1917 ci sono ben due rivoluzioni in Russia,quella di febbraio e quella di ottobre, anche seper il calendario gregoriano devono essere collocate rispettivamente nel mese di marzo e dinovembre.
IL SISTEMA DEGLI IMPERI EUROPEI
L’Impero zarista è coinvolto nella prima guerra mondiale che si sta conducendo senza risultatipositivi, nonostante l’iniziale occupazione della Galizia austriaca, che poi dovette essereabbandonata. Possiamo dire che questo conflitto è divenuto davvero europeo e poi mondiale,perché la Russia si era proposta di difendere la Serbia, in quanto nazione slava, sottoposta ad
un ultimatum umiliante dopo l’assassinio di Sarajevo. Il sistema di alleanze ha poi determinato il coinvolgimento di altri governi.
Fra le potenze europee, il grande Impero zarista non era meno “malato”, o mal ridotto, di altri Imperi, che pur sono destinati poi a crollare, non avendo alla base una omogeneità “nazionale”, che costituiva il collante dei sistemi costruiti nell’Ottocento.
La stessa Germania che pur si presentava come Impero aveva comunque quel senso di appartenenza, se non altro linguistica e culturale, che faceva superare le divisioni statuali conservate fino alla dichiarazione del Reich nel 1871 e che in parte continua a sopravvivere nel sistema federale attuale. L’Impero zarista era nelle medesime condizioni di quello asburgico,
che tale viene definito proprio perché l’elemento di coesione è solo la dinastia dominante; ed era così anche l’Impero ottomano, già rovinato nei suoi possedimenti europei, ma non da meno in difficoltà nelle regioni mediorientali dove il variegato mondo arabo voleva affrancarsi.
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UTE – RIVOLUZIONE SOVIETICA(6)