Introduzione: 200 anni dagli Idilli
Forse non a tutti è noto che proprio 200 anni fa Leopardi scriveva quegli idilli, che poi sono divenuti famosi sui banchi di scuola e che tutti abbiamo appreso come ciò che di meglio appartiene non solo alla produzione leopardiana, ma in generale alla nostra letteratura. E in quell’anno si consuma un’esperienza che segna profondamente l’animo di Leopardi e lo rende ormai maturo per ulteriori traguardi della sua breve, intensa, travagliata esistenza. Proviamo allora a conoscere più attentamente questo passaggio di vita che lascia traccia profonda nel suo animo e che offre espressioni davvero indimenticabili di straordinaria poesia, che è tanta parte anche nella nostra formazione umana. È ben noto il travaglio di questo ragazzo nella sua casa paterna, dove si consuma un tormentato periodo, culminato nel tentativo di fuga proprio nel 1819, destinato al fallimento per la sorveglianza paterna, che voleva tenere alla larga il figlio da ideologie e da avventure che egli riteneva nefaste. D’altra parte anche a trovarsi nella periferia estrema di uno Stato, quello pontificio, ormai periferico rispetto al resto del concitato mondo europeo, immerso in quegli anni nel furore rivoluzionario e poi nelle campagne avventurose di Napoleone, Leopardi non poteva non risentire del “rumore” proveniente dalle nuove idee sempre più galoppanti, a dispetto di tutti i tentativi dei restauratori di cancellarne i segni, i ricordi, le velleità. Di fatto egli è rinchiuso nella casa di Recanati, appartenente ad una nobiltà di provincia, molto “codina”, in un mondo, quello dello Stato pontificio, sempre più chiuso alla nuova temperie che l’aveva sconvolto. Fin dall’infanzia egli si dedica allo studio che sarà per lui “matto e disperatissimo”, come lui stesso lo definisce; riceve una formazione indubbiamente di prim’ordine da due preti, uno dei quali poi decide di lasciarlo perché non ha più nulla da insegnargli. Nella sua precoce adolescenza comincia già sperimentazioni poetiche, che, anche ad essere prove ancora “scolastiche” per le frequentazioni che egli ha sui libri, già rivelano il suo bisogno di spaziare … nell’infinito!
L’incontro decisivo con Giordani
“Ma è soprattutto nel ’17, anno decisivo nella formazione leopardiana, che la prima coscienza, ancora incerta, della situazione personale infelice del Leopardi e del contrasto fra l’aspirazione ad una vita piena, operosa, illuminata dalla gloria e i limiti in cui viveva, configurati nel morboso presentimento di una morte precoce, trova ben altri termini d’appoggio (che non l’appello alla rassegnazione religiosa e alla sua convalida di una squalifica dei beni mondani), di chiarimento dei vari termini del suo dramma giovanile e dei riferimenti ideali e culturali delle sue aspirazioni e nell’incontro con una persona concreta, il Giordani, con un maestro ideale, l’Alfieri, con un’espe-rienza ingenua, ma genuina: l’esperienza del “primo amore” con la cugina Gertrude Cassi Lazzari” (Binni p. 28).
Dunque, è decisivo l’incontro con Pietro Giordani (1774-1848), che gli apre nuovi orizzonti culturali e soprattutto umani, anche a incidere fortemente sulla sua maniera di scrivere. L’incontro si rafforza soprattutto con lo scambio epistolare che conferma ancor di più nel poeta la coscienza della propria situazione esistenziale, della propria “orrenda, infelicissima vita” fin qui come incarcerata nell’angusto, ristretto mondo della casa paterna. In Leopardi è quanto mai viva l’aspirazione ad una più ampia libertà che va di pari passo con l’aspirazione alla libertà che si respira in Italia dopo l’avventura napoleonica e soprattutto con la ricaduta nell’ancien régime: se è molto avvertita l’esigenza di un affrancamento dal servaggio straniero in nome di un’eredità classica che aveva fatto grande l’Italia, poi in Leopardi tutto questo non si limita alla sola libertà politica, per elevarsi ad una libertà più ampia della persona che cerca l’affermazione del proprio “Io” non certo in chiave egoistica, ma in vista dell’affermazione della propria dignità, della propria libertà, della propria volontà, quella che Leopardi aveva riconosciuto nei testi di Alfieri e di Foscolo, come la loro migliore eredità, non solo letteraria. W. Binni fa notare che nello stesso scambio epistolare si avverte, anche solo a livello formale, un linguaggio veramente più libero e più “alto”, come se la frequentazione con il Giordani avesse ampliato il lessico ma soprattutto reso più ampio e libero lo spirito del giovane, che avvertiva questa esigenza e che di fatto ormai si muoveva sempre più decisamente in questa direzione. Si potrebbe dire che proprio in questo periodo si fa strada in Leopardi la coscienza sempre più viva della sua “missione”, quella del poeta, che non è solo sul modello di Alfieri o dell’Ortis foscoliano l’affermazione di una libertà dalla tirannia politica, ma più ancora l’esaltazione di un “Io” che niente e nessuno deve coartare. Insomma per il giovane poeta questi sono gli anni nei quali avvia il suo percorso, che non è più sola sperimentazione letteraria, ma è assunzione responsabile di una sorta di missione e di impegno che assurge a esempio di una generazione, la sua, per un riscatto che non è solo in termini politici e nazionali.
La passione nazionale e la volontà di riportare il discorso estetico in un quadro più vasto di ripresa culturale e civile italiana e di far valere la poesia come forza di rigenerazione patriottica si esplicitano nel finale enfatico, ma tutt’altro che convenzionale, del Discorso (di un italiano sopra la poesia romantica), rivolto significativamente ai giovani italiani (prometto a voi prometto al cielo prometto al mondo, che non mancherò finch’io viva alla patria mia …, la povera patria nostra … non può essere aiutata fuorché da voi) e – accordandosi con la inquietudine estrema del giovane recluso e impedito di vivere secondo i propri ideali eroici ed attivi – si commutano nella tensione poetica delle canzoni dell’autunno di quell’anno, prima impetuosa manifestazione dell’animo leopardiano con tutte le sue forze crescenti ed irrompenti, con il suo bisogno di intervento pubblico e storico, con la sua volontà eroica individualisticamente sin paradossale e non perciò men sincera, e con la sua delusione storica che ha dissipato gli inganni della Restaurazione e in questa vede ormai la mortificante e malefica pace antieroica e pesantemente oppressiva di un sistema che accentua l’egoismo ingeneroso, l’assopimento inerte degli italiani. (Binni p. 36)
La personalità e la poetica leopardiana
Si forma dunque in questo periodo la personalità e, di conserva, la poetica, che è strettamente legata a questo suo forte sentire, che, se, inizialmente, può far pensare alla contingenza storica di un momento che Leopardi vive con tanta sofferenza interiore, poi però diventa una condizione esistenziale, per cui il male non è più un clima soffocante, una restaurazione mortificante, ma la vita nel suo insieme, che lui avverte effettivamente come male anche a partire dal clima familiare. Lasciando poi la casa paterna, il male comunque non si estingue, segno che effettivamente egli sta vivendo qualcosa di ancor più terribile, di cui prende più chiara coscienza proprio a partire da questi suoi primi inizi poetici. Che la vita sia male diverrà una sempre più chiara consapevolezza, senza mai impedire l’anelito a qualcosa di più grande. E tuttavia questa ricerca di un “Io” grandioso e glorioso, non aiuta affatto a riemergere da questo male esistenziale, quello che già aveva travolto tanti giovani nelle avventure rivoluzionarie e napoleoniche e che ora coinvolgeva la nuova generazione bloccata non solo dalla mortificante restaurazione del sistema, ma anche dall’impossibilità a vivere, nel poter dar prova di sé e una prova che non sia solo politico – militare. Di qui il pessimismo leopardiano che diventa qualcosa di più grande rispetto a quello che si poteva immaginare in presenza delle delusione politiche.
Ormai la delusione prevale e muove le forze dell’animo leopardiano a un generale allargamento di pessimismo e di compianto che vanno al di là della precisa situazione politica e investono – seppur con squilibri e incertezze di linguaggio e di costruzione – il più generale campo morale della situazione italiana e lo stesso sentimento dell’esistenza umana … l’ingorgo di temi fra delusione storico-patriottica e delusione di una vita depauperata dall’egoismo, e delusione della vita in genere, amata, ma avvertita nella sua caducità e vanità, che nella prima (canzone) si accavallano convulsamente, viene a risolversi in un più diretto e ardente coagulo, impulsivamente anticipatore, di temi ben leopardiani fra il rilievo della debolezza degli uomini contro il fato, la protesta contro la stessa natura che “ci ha fatti alla sciaura / tutti quanti siam nati”, il senso della impersuasione di fronte alla morte che ci priva per sempre, lasciando noi in vita, delle persone amate, il contrasto fra la gioventù piena di vitalità, di entusiasmo, di purezza, di illusioni, e la vec-chiezza “nefanda” in cui si spegne quel naturale fuoco nella prudenza, nel conformismo, nel calcolo. (Binni p. 39-40)
La poesia di Leopardi: dai sensi … all’infinito!
Sulla base di questa lettura dell’esperienza che Leopardi vive in questo biennio noi abbiamo l’avvio di quella poetica che diventa in effetti la “protesta”, di cui parla il critico, e che la fa essere la chiave interpretativa più attenta e più aderente allo spirito maturato in queste sue esperienze di vita. A proposito del ’19, il critico parla di una “crisi”, da cui prende avvio la cosiddetta poesia “idillica”, fatta di “piccole” cose, ma anche di grandi riflessioni esistenziali che fanno maturare la sua filosofia di vita, tutta racchiusa nella sua poesia, rimasta intatta anche negli anni successivi, quando ciò che ha scritto qui, compare nella raccolta edita e divulgata. Possiamo qui soffermarci sugli idilli più famosi dei suoi Canti, che sono proprio di questo periodo e che già contengono i temi a lui più cari e quindi la sua concezione della vita. La formazione sensitica, propria di certa scuola dominante, segna profondamente Leopardi che concepisce la poesia come imitazione della natura a partire da quel genere di sensibilità che viene esaltata con gli strumenti dei sensi (il vedere, il sentire, il toccare, il gustare …). Perciò il poeta, imitando la natura, vi si immerge perché l’ispirazione provenga da essa, “al naturale”.
Leopardi difende la spontaneità della creazione poetica, criticando il principio dell’imitazione dei classici e l’abuso delle favole mitologiche: il poeta autentico ch’abbia mente divina, ch’abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri non deve imitare gli altri poeti, ma la natura. In questo i Romantici, che condannano l’imitazione dei modelli non hanno insegnato nulla di nuovo: Parini, Metastasio, Alfieri e Monti hanno trovato da sé la via della loro originalità artistica … Il vero poeta dunque imita la natura ch’è spontaneità; i Romantici, con l’ostentazione della sensibilità, hanno corrotto la poesia. (D’Adamo p. 32)
La crisi del ’19 è di fatto il precipitare di una condizione esistenziale che consuma giorno per giorno l’esistenza sempre più amara di Giacomo, isolato in casa sua, rinchiuso in Recanati, confinato in un mondo che sente sempre più mortificato e mortificante, mentre l’anelito insopprimibile è verso l’infinito. Proprio le lettere al Giordani dicono questa sua condizione soffocata e soffocante, che rende più amara la sua solitudine di giovane sempre più isolato, incompreso, malato: si sente così portato ad una malinconia inguaribile che, inizialmente contrasta, lasciandosi poi travolgere. È interessante questo suo sfogo:
A tutto questo aggiunga l’ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce … Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglia la noia, ma questa mi cresce, com’è naturale, la malinconia; e quand’io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei …
(lettera del 30 aprile 1817)
La “conversione” di poeta-filosofo
La “conversione”, quella che lo fa uscire dalla adolescenza per condurlo a maturità, avviene nel ’19, quando da poeta, che si lascia condurre dall’immaginazione, diventa filosofo. Ecco un testo dello Zibaldone, in cui spiega questo suo passaggio da cultore della poesia a filosofo, che vuol cercare una sapienza del vivere. Eppure è sempre più forte in lui quella “immaginazione” che lo fa restare un poeta. Ma egli avverte la coscienza di vivere una “mutazione” che lo fa entrare nella modernità …
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba essere sempre un’eccezione a favor nostro. Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perché mi pareva (non alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero … La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. (Zibaldone 143-144)
Il momento della crisi trova il suo apice nel tentativo di fuga, da Recanati e dalla casa paterna, che appartiene a quelle forme di intemperanza giovanili con cui egli cerca in maniera vitalistica di risanarsi dalla malinconia e dal tedio che neppure gli studi riescono a far superare. Con la forza della disperazione, come in una sorta di salto nel buio o di un “cupio dissolvi” che ha tanto il sapore del suicidio di stampo ortisiano, egli cerca una liberazione impossibile.
La mia vita è spaventevole. Nell’età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a una a una. Questo mi consola perché mi ha fatto disperare di me stesso, e conoscere che la mia vita non valendo più nulla posso gittarla, come farò in breve, perché non potendo vivere se non in questa condizione e con questa salute, non voglio vivere, e potendo vivere altrimenti bisogna tentare. E il tentare così come io posso, cioè disperatamente, e alla cieca, non mi costa niente, ora che le antiche illusioni sul mio valore, e sulle mie speranze della vita futura e sul bene ch’io potea fare, e le imprese da togliere e la gloria da conseguire mi sono sparite dagli occhi, e non mi stimo più nulla, e mi conosco da meno di tanti miei cittadini, ch’io disprezzava così profondamente. (lettera al Giordani del 26 luglio 1819)
Come si potrebbe intendere la “conversione”, che Leopardi vive nel 1819, e lo fa diventare il poeta con una filosofia liberante, salvifica, davvero vivificante? Evidentemente non si può intendere questo termine secondo categorie di tipo religioso, come passaggio da uno stato di male ad un benessere, raggiunto e goduto. Si tratta piuttosto di una condizione del vivere che, per quanto non possa essere risolutiva, consente comunque di giungere ad un’alta affermazione di sé anche nel momento estremo del vivere, una forte affermazione di vita nel naufragio più completo, una energica affermazione di sé anche a dover disperare: è una visione pessimistica estrema che non impedisce comunque una grandiosa affermazione dell’io, che dentro la natura, per quanto ostile, sente di poter immaginare oltre e quindi di potersi librare nell’infinito, anche a dover naufragare. Così ancora si esprime in maniera lucida e amara con Giordani.
Sono così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prendere la penna per rispondere alla tua del primo (novembre). Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolore gravissimo, e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose, e dalla condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione. (lettera al Giordani del 19 novembre 1819)
Gli idilli del 1819
Traluce in questo scritto qualcosa di quanto il poeta dice in modo mirabile nel suo idillio, uno tra i più belli e più noti, anche perché lì vi si legge la sua esistenza prima e più che della sua filosofia di vita. Si resta sempre affascinati, anche a non condividere il pessimismo estremo di Leopardi, proprio dalla bellezza di parole che non solo suonano in modo incantevole nello scorrere, ma soprattutto colgono effettivamente il bisogno che ha ogni uomo di vivere, di vivere immensamente, di vivere immerso nell’infinito, che è ben oltre il tempo e lo spazio. È il bisogno insopprimibile di una esistenza di valore, mai del tutto raggiunta e comunque sempre più desiderata: egli ne ha piena avvertenza in una modalità espressiva che volendo dar razionalità a questo desiderio scopre di provarlo con un forte sentimento, quello che la natura stessa gli fa avvertire con la sua presenza, perché solo … la natura tende alla felicità, la ragione la distrugge; la natura è il regno del “bello”, della poesia, delle care illusioni, degli eroici entusiasmi, la ragione è il regno del “vero” che inaridisce la poesia, mette a nudo la falsità dei sogni, tarpa le ali ad ogni eroismo. Il progresso dei lumi, della civiltà filosofica, del sapere non coincide pertanto con un reale perfezionamento dell’uomo, anzi con la sua decadenza, con l’isterilirsi di ogni slancio vitale: la natura è vita, la ragione è morte … (Sapegno p. 762-3).
Più che cercare tra gli scritti di natura filosofica, come sono le riflessioni riportate nel suo Zibaldone, dovremmo meglio comprendere Leopardi nella sua poesia, quella che lui stesso redige qui, nel 1819, anche se poi compare alla stampa nel 1831. Ma è già qui delineato più che il suo pensiero, il suo stesso vivere, costruito a partire dai sensi, per poi lasciarsi andare col sentimento ben oltre la realtà che risulta amara. Il vero piacere è nel sapere andare oltre ciò che risulta finito, perché lì il vivere è illimitato e l’uomo vi tende, lì cerca il suo pieno realizzarsi.
L’INFINITO
Proprio nel cuore del 1819 compare il suo “piccolo” idillio che sintetizza bene questo anelito di vita, a lungo coltivato e divenuto la migliore espressione della sua pur amara esistenza.
La sensazione dell’infinito come piacere illimitato nasce quando in un luogo della vista sorge l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale; il suo contrario è una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche: si tratta di un piacere vago e indefinito, il cui effetto naturale consiste nel fatto che tien sempre all’infinito, mentre fuori dell’immaginazione e della disposizione fantastica dei primi uomini e dei fanciulli il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive. (Bandini p. 117)
Qui è condensata la sua visione della vita, maturata proprio nell’anno cruciale del 1819. È lungamente meditata, perché essa poi costituisce la base fondamentale del suo vivere, che lo fa penare, pur provando dolcezza, che lo fa stare sereno pur in mezzo a tanta pena.
Qualunque cosa ci richiama l’idea di infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filare o un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso, più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i sensi, e non è opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune volte del circoscritto r di non vedere più che tanto per potere immaginare … (Zibaldone – 20 luglio 1820)
La collocazione del poeta è ben definita: davanti agli occhi c’è il colle, definito solitario, non solo per la sua posizione, ma perché in quel luogo è collocata la sua solitudine di uomo; davanti c’è pure una siepe che deve fare da limite visivo, da ostacolo o da impedimento ad andare oltre con la sensibilità. E tuttavia, proprio questo limite, ancora più marcato dall’aggettivo dimostrativo e determinativo, appunto perché ne dà i termini, mette in moto l’immaginazione, quella che viene “finta” (dal verbo latino “fingere”, che significa incidere come contorno di ciò che poi si definisce come “figura”) mediante il pensiero. In effetti l’uomo che si trova limitato dentro la realtà che lo circonda, ha pur sempre la possibilità di andare oltre mediante la “finzione” o l’immaginazione, che dunque non è realtà sensibile. E si può sempre immaginare qualcosa che non ha limiti, che è oltre l’umano, che ha una sua profondità: questa operazione è condotta “sedendo e mirando”, con due gerundi che esprimono la modalità mediante la quale l’uomo, mantenendo (sedendo) il suo contatto fisico con il mondo, vi si rispecchia (mirando) e proprio così raggiunge la profondità.
Così la realtà finita non impedisce di potersi immergere nell’infinito, per quanto il cuore possa avere un attimo di paura: questo è l’anelito dell’uomo che aspira alla piena libertà, all’affermazione di sé. Alle sensazioni visive si aggiungono quelle auditive, che pure creano il medesimo stato d’animo e la medesima immersione nell’infinito, dove è bello buttarsi, anche a sapere che è un naufragio, perché l’uomo aspira a cose grandi, ad andare oltre il sensibile, a cercare più in là quella che in realtà è solo immaginazione, tuttavia piacevole!
L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
La pura poesia è molto di più di un ragionamento filosofico sulla vita; è soprattutto percezione di un vivere sempre più alto rispetto a quello che potremmo definire banalità, volgarità, bassezza legata all’istinto. Essa consente il salto verso ciò che è indubbiamente pura immaginazione, ma costruita da ciò che prima si percepisce in maniera sensibile. Così l’uomo va oltre il suo ragionare per raggiungere una realtà che le sarebbe negata, se si limitasse al solo ragionamento. Occorre che sovvenga il cuore, che poi diventerà il ricordo, cioè il richiamo del cuore, richiamo affettivo. Proprio perché il cuore spinge all’infinito non senza passare dalle percezioni sensibili e quindi da ciò che la ragione attinge, cioè tocca, si è al riparo dallo sprofondare nella follia. Questo anelito è comunque piacevole e consente all’uomo di veder lenito il suo dolore, la sua amarezza, la sua malinconia …
Analisi dell’idillio
È davvero mirabile la conduzione di questo suo pensiero, che non è un semplice ragionamento, ma è percezione di un sentimento puro. Questa lirica, in endecasillabi sciolti, appare effettivamente sciolta, perché le parole fluiscono con un andamento che sembra un continuo cullare, affinché siamo trasportati dal vento per sconfinare nell’infinito. Ricorrono spesso le lettere nasali, con cui sembra quasi di avvertire il respiro della natura e il respiro dell’uomo, insieme con le lettere liquide, che esse pure danno la sensazione del lasciarsi trasportare, mentre il verso con i suoi accenti dà la sensazione di un procedere inarrestabile che conduce al naufragio finale definito dolce, con un ossimoro molto audace. Anche i suoni vocalici, soprattutto quando entrano in gioco le “a”, sembrano davvero dilatare all’infinito questo viaggio costruito dalle sensazioni e poi lasciato all’immaginazione. Ma questo cullarsi nello spazio, abbandonato al vento, conduce sempre più vorticosamente verso il naufragio: gli ultimi due versi, dopo i continui “enjambement” che fanno aumentare la corsa, obbligano a lasciarsi immergere, laddove l’ultimo verso crea anche foneticamente questo abbandono, che è pur piacevole, anche ad essere la caduta nell’infinito. Pure qui le lettere dell’alfabeto, sopra ricordate, ricorrono in un gioco che suggerisce questa bella sensazione anche ad essere … naufragio nell’infinito, nel nulla! È una poesia di sensazioni che trovano la loro manifestazione nel suono delle parole e costruiscono un incanto piacevole, anche a dover condurre l’animo in un “mare”, nel quale ci si immerge e ci si perde: la dolorosa condizione dell’esistenza non impedisce comunque la “dolcezza” di questo abbandonarsi all’infinito, dove l’uomo trova la sua grandezza, la sua affermazione, la sua libertà!
Gli idilli, e primo fra tutti l’Infinito, che più degli altri sembra sbocciare da una condizione imprevedibile e momentanea dell’ispirazione, liberata da ogni peso di angoscia presente, sono veramente “situazioni, affezioni, avventure” dell’anima, in quanto colgono e rappresentano un dato emozionale nella sua purezza e immediatezza, nella sua assolutezza lirica per così dire, e fanno affiorare alla superficie espressiva un patrimonio di immagini e di sentimenti ancora intatto e non immediatamente turbato dalla coscienza della disillusione e del dolore …; ma appunto sono “avventure storiche”, non solo perché ritraggono una situazione singolare, imprevedibile e istantanea, sì anche perché la collocano in un’aura di sensazioni remote, distanziate nel ricordo, affioranti da un contesto ricchissimo di fantasia e di sogni infantili. (Sapegno p. 794)
ALLA LUNA (LA RICORDANZA)
Nello stesso clima “spirituale” si muove l’idillio successivo, composto nel medesimo anno, anche se poi rimodulato nella edizione del 1831, con cui, da allora, appare in tutte le antologie. Qui l’immersione nella natura circostante è raggiunta con l’incantata “ammirazione” della luna, alla cui luce, il poeta si rispecchia, sentendosi in essa immedesimato per quanto ne avverta la estrema distanza: il dolore e l’affanno del vivere rimangono, e tuttavia “la ricordanza”, cioè il richiamo al cuore, ottenuto con la contemplazione della luna, allevia la condizione dolorosa, perché la luna nel suo permanere conferisce “grazia”.
Ci troviamo sempre sul colle di Recanati, ben definito ancora con il dimostrativo-determinativo, che stabilisce un preciso spazio e un altrettanto definito tempo per questo colloquio con la luna. Con essa il poeta crea un rapporto che unisce i due, per quanto vi sia una distanza non solo spaziale: lei è nitida, lucente, e tuttavia appare sfocata e meno vivida, perché di mezzo c’è il dolore umano, sempre tormentoso, solo attenuato dal ricordo.
ALLA LUNA (LA RICORDANZA)
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, nè cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!
Anche in questo caso è davvero mirabile lo scorrere delle parole con il loro suono: si crea un languore che rende meno acuto l’affanno, per cui le sensazioni comportano quei sentimenti che fanno superare le amarezze dovute alla ragione.
Analisi dell’idillio
L’idillio si snoda in 16 versi endecasillabi sciolti, di cui il 13 e il 14 sono stati aggiunti nell’edizione del 1835 di pugno dallo stesso poeta. Vi è dapprima una “riflessione”, fatta non solo di parole, ma anche di immagini, create come in uno specchio, che è colloquio con la luna, colei che racchiude queste mirabili considerazioni dentro l’evocazione iniziale e l’invocazione finale del verso 10. Proprio questo confronto con la luna, che evoca il ricordo, inteso come richiamo al cuore, suggerisce le considera-zioni finali in cui appare cosa gradita questa operazione, perché risolleva dal dolore, anche se questo permane.
Nella prima parte, quella che potremmo definire descrittiva della luna con i suoi effetti benefici, è proprio la luna stessa a costituire l’elemento che abbraccia e rinserra il poeta stesso nel suo confronto con essa, proprio perché la luna è introdotta all’inizio con la sua operazione di generare grazia ed è richiamata alla fine con la sua azione di operare diletto, scelta d’amore. Esattamente a metà troviamo una congiunzione avversativa (il “Ma” del verso 6) che dice in modo evidente come tra i due ci sia una congiunzione che tiene insieme uomo e natura, anche se poi l’avversativa lascia intendere che questa loro congiunzione è contrastata. Lo si avverte anche a livello “formale” nel primo verso in cui si può notare come le due parole “luna” e “io” sono di fatto ravvicinate, al punto che dovrebbero come fondersi, perché la versificazione esige che qui si abbia l’elisione (lun’io), anche se di mezzo compare una virgola, che separa i due termini. Le azioni dei due, sempre nel primo verso, appaiono come uno scambio reciproco: la luna conferisce grazia, lei che è definita graziosa (con la dieresi sulla “i” che deve accentuare questa operazione), mentre l’uomo non ha che il rammentare, richiamare cioè alla mente la posizione della luna, perché poi questa operazione si trasformi in ricordanza, intesa come richiamo al cuore. Altrettanto mirabile è il terzo verso, in cui la lettura ad inclusione, fatta pure per il primo verso, permette di vedere questa volta i due protagonisti del colloquio all’inizio e alla fine del verso stesso con le operazioni reciproche di un movimento dell’uomo verso la luna (io venia) e di un rispecchiarsi (a rimirarti) fra i due, posti l’uno di fronte all’altro.
Ma in mezzo ai due, che pur si cercano, c’è un “pien d’angoscia”, che esprime pienezza di un vuoto, essendo l’angoscia stessa uno stato d’animo che fa avvertire come una sorta di svuotamento di sé. È dunque insistito il rapporto tra la luna e il poeta, anche se questa relazione appare impari e, comunque, avendo frammezzo tanta pena. Solo il ricordo consente, se non il superamento, almeno il lenimento del dolore. Anche in questo idillio dobbiamo riconoscere un andamento dei fonemi, in cui le vocali allargano e distendono e i suoni consonantici suscitano affanno, ulteriormente sostenuto dai continui enjambement, che obbligano una lettura sempre ansimante, fino a giungere nella conclusione di un affanno che tuttavia permane.
Leopardi esprime così, in maniera tutta sua, una condizione esistenziale che non è solo di una generazione come la sua: certamente la contingenza personale di appartenere ad una famiglia così chiusa e la contingenza storica di appartenere ad un’epoca di Restaurazione per una gioventù che era stata infiammata da nuovi ideali per quanto esasperati, giocano la loro parte, per far sentire fortemente questo limite, questo soffocante e mortificante senso di oppressione. La salvezza è cercata nell’anelito a qualcosa di grande e di eroico, che il poeta gioca non sugli eroismi di stampo militare, non sulle avventure galanti d’amore, ma sulla immer-sione in una natura, evocata dai sensi e tuttavia raggiunta con il ricordo, cioè con il cuore che non cessa mai di evocarla. In questo rapporto non sempre facile e suscitato proprio dalla poesia con suoni sempre melodiosi, sta quella immaginazione che spinge sempre oltre, senza mai far cadere nella follia. È una scelta di vita che non impedisce il dolore, ma nello stesso tempo apre la prospettiva di una liberazione tutta interiore, che fa grande l’uomo, anche ad essere schiacciato e umiliato.
L’Infinito … esprime perfettamente e centralmente questa poetica degli “idilli” proprio in quanto il centrale piacere dell’infinito si presenta non come uno sconfinamento mistico-religioso né come une réverie pittoresca ed arcadica, ma come la salda, lucida, intensa, presa di coscienza poetica (ma tale solo perché implicante sentimento e pensiero) di un piacere supremo dell’immaginazione umana e personale … contrapposto alla limitatezza dei piaceri concreti e particolari, ma, come essi, piacere solido e sensibile … Sicché la musica perfetta di quell’itinerarium in infinitum nasce da una presa di coscienza severa e dolce … di un’avventura profonda dell’animo e del pensiero, svolta in un sobrio, essenziale ritmo che ripercorre i gradi di quella conoscenza poetica e riassorbe potentemente in sé suggestioni e impressioni visivo-acustiche … sollecitate dallo scatto fulmineo della visione-limite (la siepe) che funziona come molla della visione interiore e pur tutta sensibile, mai scaduta in dispersione effusiva o pittoresca. Lo stesso finale perciò non è sconfinamento mistico e sognante, ma un saldo possesso terminale di questa suprema dimensione interna di piacere che ha arricchito e approfondito l’esperienza del poeta e lo ha dotato – di contro a tante miserie e fallimenti pratici – di una singolare felicità, mai sganciata dal denso processo conoscitivo-poetico della sensibilità e del pensiero fra di loro indissolubili, portato avanti nella poesia e nella riflessione analitica dello Zibaldone nel loro continuo e fertile ricambio. (Binni p. 44-45)
Insomma è opportuno andare oltre la realtà sensibile che limita l’uomo, e tuttavia per questa operazione è necessaria quella poesia che partendo dal sensibile, sconfina nell’infinito, vago e pur sempre reale, nel quale l’uomo giganteggia anche a dover penare e morire.
Conclusione
Si potrà non concordare con il pessimismo leopardiano che avverte la propria esistenza come un male, tanto è segnata dalla penosa condizione in cui si è trovato a vivere il poeta nella sua casa paterna e nella sua terra d’origine, mortificata dai tempi di restaurazione gretta e asfittica. E tuttavia egli trova le espressioni più alte per rappresentare una condizione di vita, che non è solo sua e che solo lui riesce a descrivere in modo mirabile. Se la condizione di vita è davvero amara e se da tanta amarezza non sembra esserci alcuna liberazione, c’è pur sempre spazio per lenire questo profondo disagio esistenziale: l’uomo ha pur sempre l’immaginazione per sconfinare, anche quando lo si vorrebbe rinchiuso; l’uomo ha pur sempre il ricordo, come richiamo affettivo, evocato da un forte sentire “naturale” che gli dà la capacità di uscire da un presente soffocante e angusto. Un giovane ventenne, come è Leopardi nel 1819, trova, nella prigione opprimente dei suoi giorni e del suo piccolo mondo, quell’apertura all’infinito, quello spaziare oltre il presente che lo fa sentire grande anche nel suo indebolimento fisico, anche nella ristrettezza a cui era obbligato fisicamente e psicologicamente. È un forte richiamo a cogliere l’opportunità che non è solo offerta dalle circostanze favorevoli, ma è data soprattutto dalla propria interiorità, sempre libera, anche quando il corpo ti rinserra o viene come bloccato. Così all’uomo è sempre data una libertà tutta interiore e proprio per questo non coartabile se non dalla propria miseria interiore. Se ne può uscire, pur penando e dovendo pur sempre soffrire, perché la conquista di qualcosa di più alto possa divenire effettivamente un valore, non solo da possedere, ma anche da lasciare, perché continui a fruttificare.
BIBLIOGRAFIA
1 -Giacomo Leopardi, CANTI (introduzione, commenti e note di Fernando Bandini) – Garzanti, 1975
2. Gian Carlo D’Adamo, GIACOMO LEOPARDI :Introduzione e guida allo studio dell’opera leopardiana – Le Monnier, 1985
3. – Walter Binni, LA PROTESTA DI LEOPARDI – Sansoni, 1982
4. –Emilio Cecchi / Natalino Sapegno: STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA (vol. VII – L’Ottocento) – Garzanti, 1969
Erba – 25 gennaio 2019