Nel giorno commemorativo della morte del Signore bisognerebbe tacere. Lui stesso, sottoposto al processo, in gran parte di quel momento drammatico, secondo i sinottici, non secondo Giovanni, avrebbe opposto ai suoi calunniatori il silenzio. Si ricordano piuttosto le sette parole dette in croce dal Signore: poche, indubbiamente, anche se il numero simbolico fa pensare che ve ne fossero altre, che ne avesse da dire all’infinito. E tuttavia, soprattutto da quella posizione, diventava per lui molto difficoltoso parlare, se non altro perché il respiro si faceva più precario, e, secondo gli studiosi, quella dolorosa situazione portava alla morte per asfissia, resa anche più acuta dai dolori fisici e, non di meno, da quelli di natura psicologica. Proprio per questo suo modo di morire, egli merita più attenzione oggi, in presenza di una serie di morti, che non dobbiamo attribuire ad una crocifissione come la sua, ma a qualcosa di analogo, che tanti hanno dovuto affrontare, anche ad essere adagiati su un letto d’ospedale, e seguiti con tanti mezzi che sono risultati impotenti a scongiurare il crollo definitivo. Gesù è spirato dopo poche ore dalla sua crocifissione, e Pilato – secondo la testimonianza di Marco – “si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo”. Evidentemente egli riteneva che potesse durare più a lungo in una lunga e straziante agonia, come sarebbe stato anche per gli altri due, a cui furono rotte le gambe proprio per affrettare la morte. E così, a questo punto, essa interviene per soffocamento, non potendo più i condannati far leva sulle gambe stesse per continuare a respirare. Proprio questo “modo” di morire ci fa pensare in questi nostri giorni ai tanti a cui è sopraggiunta la morte, procurata da un virus mortale che blocca le vie respiratorie. Il dramma che stiamo vivendo, non solo per una propagazione così repentina e capillare un po’ dovunque, ma anche per la mancanza di strutture adeguate al fine di soccorrere chi non ce la fa con le proprie forze, ci fa considerare un aspetto della dolorosa agonia di Cristo in croce a cui spesso non badiamo, se non altro perché ci sconcertano le forme di violenza a cui il suo corpo è stato sottoposto sia nel processo, sia nella esecuzione della condanna. Indubbiamente le numerose piaghe diffuse sul corpo, il tanto sangue versato, i dolori lancinanti che sono intervenuti per le tante battiture hanno un peso considerevole in questo suo martirio. E tuttavia, per quanto possano essere davvero terribili i dolori patiti, il vangelo non insiste su questi, che noi osiamo definire dettagli e che dettagli in realtà non sono. Il vangelo, pur accennando alla flagellazione, pur parlando delle percosse, pur dicendo, nei particolari, della coronazione di spine – su cui si sofferma più che non sulla flagellazione – sembra quasi non indugiare nella loro descrizione, come pure nell’offrire commenti o annotazioni anche marginali, come capita di sentire per alcuni episodi – quali il pianto per l’amico Lazzaro o il giudizio piuttosto severo su Giuda nella cena di Betania , ma dà della fisionomia di Gesù in queste ore una descrizione che lo qualifica come uomo forte e dignitoso, aperto al perdono e ancora capace di confortare, come fa con la madre e il discepolo, come fa con il ladro pentito. Ha difficoltà a respirare e tuttavia ha pure la forza di gridare e la bontà di promettere il Regno a chi si raccomanda a lui. Ecco perché dobbiamo riconoscere che, pur non mancando dolori atroci – che non vanno affatto sminuiti – qui si deve “leggere” il grande amore del Signore, il quale, mentre sente venir meno il respiro, non tralascia di far uscire da sé il suo Spirito. Nel momento in cui si arriva a parlare della sua morte, si dice che egli “emise” (o “consegnò”) il suo spirito. Queste parole non sono semplicemente una annotazione di circostanza, come si farebbe per chiunque è nell’atto di esalare l’ultimo respiro, ma è più profondamente la presentazione di quel grande dono che il Signore Gesù, come Dio, come Figlio di Dio, lascia di sé, con lo Spirito. Questo Spirito giustamente qui viene segnalato come il lascito testamentario suo per noi. Non ha semplicemente dato l’ultimo fiato che aveva in gola, ma ha messo a disposizione nostra e per la nostra salvezza lo Spirito, che in effetti “emise”, nel senso di “mandar fuori”, cioè di dare in mano a noi, facendo uscire da sé. Proprio per questo possiamo dire che egli l’ha davvero messo in consegna, ben più del respiro d’aria, che pur necessita per stare in vita. È lo Spirito che appartenendo a Dio viene compartecipato a noi, sempre, ma in modo particolare per noi, in quel momento estremo che fa comprendere quanto sia davvero grande, vero, bello e profondo questo dono, che non è solo qualcosa di sé, ma proprio tutto di sé. E lo Spirito è colui che rivela come la persona di Dio sia tutta in uscita per noi, così come nell’uomo si rivela, quando anche noi non pensiamo più e prima a noi stessi, ma agli altri, come abbiamo visto fare e soprattutto come abbiamo visto essere anche in questi giorni veramente speciali e autentici per questo motivo. Possiamo vedere lo Spirito in coloro che hanno dato tutto di sé perché altri potessero vivere e lo possono davvero in questa pandemia di morte, ma anche di risurrezione per tanti.
E mentre pensiamo a questo istante di vita del Figlio dell’uomo, che nell’esalare l’ultimo respiro, dà il suo Spirito, vorremmo qui pensare ai tanti che sono morti (e ancora stanno morendo!) in questi giorni, privati del loro respiro da un virus terribile che soffoca; come pure a coloro che sono riusciti a sopravvivere, ma sentendo prossima la fine nelle varie crisi respiratorie. E vogliamo riconoscere che, anche da questo loro “venerdì santo”, molto più lungo, se distribuito di diversi giorni, anche senza essere santi, viene a noi una grazia speciale da quanto essi ci hanno dato e ci hanno lasciato come eredità del loro vivere, perché da noi continui, ben oltre le miserie umane dei nostri giorni, miserie fatte spesso di polemiche inutili, di recriminazioni solo dannose, di risentimenti senza costrutto. Questa grazia è lo Spirito che il Signore ci ha dato proprio nel suo morire; e ci viene anche da questo vivere il momento estremo di coloro che hanno da farci la consegna di sé, perché il loro spirito viva in noi e ci faccia vivere bene, come avrebbero voluto vivere loro, come pure ci hanno mostrato nel loro vivere e soprattutto nel loro morire. Lo hanno fatto da “poveri cristi”, spesso anche piagati, ma sempre con la volontà di darci il meglio, che sarebbe veramente poco onorevole e gratificante non raccogliere, perché facciamo anche noi il meglio, sempre e solo il meglio, pur in una situazione che ci appare come il peggio che ci sia potuto capitare. Nel rantolo di un respiro, che non viene più, molti hanno vissuto il loro “venerdì santo”, ma come il Figlio dell’uomo, anch’essi, veri figli dell’uomo, ci hanno dato in consegna quello che hanno fatto, spesso anche con amore e dedizione, perché sia raccolto così, mai con rabbia o con disperazione. E noi, stando sotto quella croce, che non è più quella fabbricata come simbolo di martirio oppure come decorazione per i luoghi o per il nostro corpo, stando sotto la croce di quanti sono caduti, abbracciati da nessuno di noi, ma dal Figlio dell’uomo che in loro si identifica, vogliamo, come i discepoli di allora, impotenti e devastati da tanto male, raccogliere questa eredità, sapendo di portare dentro di noi la vera sola energia che ci fa vivere meglio, anche in mezzo a questa prova e anche a superarla. È la forza che deriva dal loro respiro venuto a mancare perché a noi passasse il loro spirito che invece non mancherà mai. Così, invece di sentirci svuotati per i tanti che abbiamo visto cadere attorno a noi, ci sentiamo ricaricati da loro, così come ci sentiamo rivitalizzati dal morire di Cristo, che anche oggi, come sempre, ci ricorda che lui, anche a morire – anzi, proprio perché è morto – è la risurrezione e la vita. È la nostra risurrezione e la nostra vita. Lo è ancora di più quest’anno per tutte queste persone che hanno sentito venir meno il respiro e hanno lasciato lo Spirito, perché dopo questi giorni, chiusi dentro, per paura, possiamo venir fuori allo scoperto, come portatori in noi, non solo di un’aria nuova, ma soprattutto dello Spirito del Signore che ci fa vivere meglio, ci fa e ci farà vivere davvero “da Dio”!