RIFLESSIONE
A PARTIRE DA UN ARTICOLO DE “LA CIVILTA’ CATTOLICA” (n. 4075)
PER RIPARTIRE DOPO L’EMERGENZA COVID-19
di GAEL GIRAUD S.J.
Ho letto un articolo, per tanti versi sconcertante con le sue valutazioni molto nette, ma comunque utile a farci riflettere ben oltre i dati, gli aggiornamenti, le tante curiosità, come pure le tante distorsioni a proposito di questa pandemia che ci disorienta. Questo articolo, pubblicato su “La Civiltà Cattolica” nel numero 4075 del 4/18 aprile 2020 (p. 7-19), può sembrare alla prima lettura molto negativo e in alcuni tratti disfattista.
Chi scrive sostiene che, per far fronte al quadro drammatico mai sperimentato finora, è necessario adottare misure mai assunte e mai gestite prima d’ora, e il mondo non è più e non sarà più come prima, come se noi dovessimo andare incontro ad una specie di palingenesi, parola con la quale si intende dire che è necessario rigenerarci da capo, rinascere un’altra volta.
Del resto dice pure così il messaggio evangelico del discorso sostenuto da Gesù con Nicodemo, con cui l’evangelista vuol far intendere che, mediante il battesimo, il vivere deve cambiare, e quindi deve diventare più umano, un vivere da Figlio dell’Uomo, che è poi la stessa cosa del vivere da Figlio di Dio. Ovviamente la rinascita di cui si parla nel vangelo è quella dello Spirito, che non è affatto una questione religiosa, come spesso si tende a dire, perché lo Spirito è necessario proprio in momenti come questi nei quali è necessaria una scelta decisiva, una scelta di autentica rinascita e non semplicemente di recupero di quanto ci siamo lasciati alle spalle.
L’articolista, un gesuita, non fa propriamente questo discorso, perché la sua analisi non è propriamente “da prete”, quanto piuttosto da economista, essendo direttore di ricerche in questo campo.
La sua critica, che si potrebbe definire impietosa circa il sistema fin qui praticato (quello che noi abbiamo pensato fosse vincente, dopo il crollo del sistema marxista e la fine del “secolo breve” delle ideologie), è comunque condotta in riferimento al fatto che il liberismo capitalista, già messo a dura prova con la crisi di dieci anni fa, non è la carta vincente; e anche la conduzione che si prospetta per recuperare la crisi economica, come se fosse questo ciò che conta di più, dice la miopia nel valutare la prospettiva ben oltre il terremoto o lo tsunami che crea disastri di fronte ai quali è necessario ricostruire. Rimettere in piedi cose o case è indubbiamente una bella impresa, se tutto è distrutto. Ma costruire un’altra impostazione della vita, anche perché questo mostro invisibile non è possibile nel breve periodo tenere sotto controllo, è un compito non facile e tuttavia quanto mai necessario e quanto mai affascinante e stimolante. L’autore dell’articolo propone la sua riflessione “per ripartire dopo” …
Se si riparte, non è dunque “la fine del mondo”, come si è tentati di dire, quando succede qualcosa che fatichiamo a tenere sotto controllo. Ma certamente è “la fine di un certo mondo”. E questo non è la prima volta che succede. Anche se ad ogni svolta storica non si può dire, sul momento, che effettivamente si stia cambiando pagina. Ci si rende conto dell’effettiva trasformazione quando l’analisi, da cronachistica, si fa storica.
E però, anche ad essere nel pieno vortice di questa pandemia (al di là delle responsabilità sulla gestione delle varie fasi con cui la pandemia si è presentata, responsabilità che si dovranno accertare e che tuttavia dobbiamo riconoscere per alcuni versi esserci state, pur con qualche scusante, se non altro perché si tratta di un tipo di virus che risultava sconosciuto anche agli esperti fin dal suo primo apparire), qui già si pensa al dopo, se non altro perché fatichiamo tutti a reggere una simile emergenza, che è contro un nemico, definito subdolo e mutante, ancorché pericoloso, molto pericoloso, soprattutto per la sua contagiosità. Pensare al dopo non significa solo venir fuori da una forzata chiusura nelle mura domestiche, e neppure una ripresa di tutte le attività come se nulla fosse stato, come se quello seguito in precedenza fosse un vivere reale e questo, invece, virtuale. Evidentemente, se si abbattono spesso tra gli esseri umani delle pandemie, questo succede perché spesso il vivere che conduciamo finisce per diventare insopportabile, e perciò qualche cambiamento appare doveroso.
Anzi, quando sorgono queste situazioni d’emergenza, allora è proprio necessario un cambiamento radicale. Qui si continua a pensare al PIL, in maniera ansiosa e ansiogena, come se quello fosse assolutamente vitale, e non ci fosse altro a cui pensare come più necessario, prioritario e per nulla paragonabile alla preoccupazione di tipo economico, che spesso è poi quello di tipo finanziario. Se davvero dobbiamo pensare ad un vivere che sia umano, più umano, non può bastare e non deve comunque prevalere l’aspetto economico inteso come rifornimento di beni da godere, che in realtà sono spesso da consumare. Evidentemente, con un sistema tutto costruito sul produrre per consumare, sistema di cui beneficia del resto la minima parte della famiglia umana, ogni cosa viene sacrificata sull’altare idolatrico di questo sistema. E si sente sempre più insistente la voce che vuole la ripresa di questo sistema, senza che ci rendiamo conto quanto sia necessario, anche a dover riprendere, che siano da mettere in campo molti correttivi, non solo temporanei, per l’attuale pandemia, e che comunque, se effettivamente continueranno a sorgere virus ignoti e spesso così invasivi, più ancora che letali, molte energie vanno spese, anche in termini finanziari per la ricerca e per la cura, non solo a pro di una parte della umanità, ma dell’intera famiglia.
Se da una parte noi siamo desiderosi di veder partire la “fase due” per allentare questa morsa che ci rinchiude e che crea non pochi problemi, pure sotto il profilo psicologico, non possiamo ritenere che il solo allentamento della forzata permanenza in casa ci possa consentire di tornare, anche solo in modo graduale, al sistema precedente, sia perché il virus è ancora in giro (e lo sarà per un certo lasso di tempo, non ancora definito e definibile), sia perché dobbiamo cercare di trarre una lezione salutare da questo evento inaspettato, imprevisto e imprevedibile – ma è proprio vero che fosse così? – che ci metta ai ripari da altre epidemie possibili, analogamente a quello che si cerca di fare all’indomani di altre catastrofi naturali. Questi cambiamenti devono essere approntati, certo, da organi e persone competenti, ma devono essere comunque assunti in modo responsabile da ciascuno, con una campagna “pubblicitaria” ben diversa da quella che siamo abituati a sorbirci per essere indotti a comprare e a consumare, senza necessariamente dover riflettere.
Venendo all’articolo citato, a me pare che anche qui non ci siano ricette e soluzioni ben definite, che sono poi da applicare. Evidentemente vanno ricercate. E per farlo, bisogna uscire da un periodo, che è stato, ed è ancora, molto accidentato. C’è stata una notevole impreparazione nel far fronte al virus, come si è ben visto in questa fase, dove il sistema sanitario ha in parte retto, se non altro per quanti si sono prodigati anche con il rischio della propria vita: medici e infermieri, che erano direttamente sul fronte, spesso anche senza le opportune armi di difesa, più che di offesa, nei confronti di questo subdolo nemico, hanno pagato un prezzo non indifferente.
In relazione ad un simile quadro l’articolista parte con una affermazione molto forte e per certi versi drastica: “Ciò che stiamo sperimentando, al prezzo della sofferenza inaudita di una parte significativa della popolazione, è il fatto che l’Occidente, dal punto di vista sanitario, non ha strutture e risorse pubbliche adeguate a questa epoca e a questa situazione” (p. 7).
A scanso di equivoci, va detto che l’articolista è un gesuita francese: egli non entra certo nelle polemiche “nostrane” circa il sistema sanitario nazionale o regionale. Il problema è ben più ampio e comunque è riferito all’intero sistema occidentale. Se all’inizio del millennio ci siamo imbattuti con due gravi problemi internazionali, come il terrorismo (definito di matrice religiosa, ma che religioso non è) e la crisi economica (che è stata soprattutto finanziaria per certi giochi sporchi di banche e di finanzieri senza scrupoli), ora ci troviamo con una pandemia, che, diversamente da altre, è davvero mondiale e molto invasiva. A voler ben considerare gli eventi, dovremmo dire che, se a livello emotivo ha suscitato sconcerto e dolore il numero delle vittime e il modo con cui molti di esse sono morti in totale isolamento (e che sono stati sepolti senza quella pietà che noi ci portiamo dietro come retaggio di una civiltà classica, in cui, anche durante una guerra, ci doveva essere la tregua per la sepoltura dei morti), di fatto il vero dramma si è consumato nella totale inadeguatezza del sistema ospedaliero, rovinato da certe riforme azzardate che volevano concepire l’ospedale in termini di azienda e quindi con il prevalente criterio economico-finanziario. Semmai va riconosciuto che il mondo sanitario ha dovuto far fronte nei primissimi tempi solo con l’abnegazione di medici, infermieri e volontari, spesso lasciati soli a gestire una situazione drammatica.
Di qui il giudizio severo ancora dell’articolista: “Trasformare un sistema sanitario pubblico degno di questo nome in un’industria medica in fase di privatizzazione si rivela un problema grave” (p. 8). Verrebbe da aggiungere, come spesso si dice, che il riferimento a situazioni particolari, come il nostro, non sembra esserci in questo autore! E tuttavia noi non possiamo non riconoscere che i nodi della questione organizzativa della sanità nel nostro Paese sono venuti al pettine e che qualche deciso correttivo sia necessario!
In questa linea l’articolista aggiunge: “La diffusa privatizzazione dell’assistenza sanitaria ha portato le nostre autorità a ignorare gli avvertimenti fatti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) in merito ai mercati della fauna selvatica a Wuhan” (p. 8).
Anzi, viene messa pure in evidenza un’affermazione che indubbiamente farà discutere e che deve essere ben considerata e valutata in tutti i suoi risvolti: “L’ideologia – si noti il termine – dello smantellamento del servizio sanitario pubblico è un’ideologia che uccide” (p. 8).
E proprio per questo, a chiarimento della questione, si aggiunge quello che è in effetti l’operazione seguita in questi due mesi: “Invece dello screening sistematico, noi occidentali – l’osservazione è fatta a confronto con certe scelte di paesi orientali, quali Taiwan e Corea del Sud – abbiamo adottato una strategia antica, quella del confinamento, a fronte di una frazione esigua di infetti, e di una parte ancor più piccola di questi che potrebbe avere gravi complicazioni” (p. 9).
Ciò su cui insiste l’articolo è il fatto che l’attenzione alla questione sanitaria è stata posta soprattutto in termini economici, e che le aziende sanitarie, in quanto aziende, devono organizzarsi così, mettendo al centro quel genere di produttività che deve far risparmiare su quelle che possono essere considerate spese inutili. Forse – verrebbe da chiosare – bisogna considerare la salute come un bene da raggiungere, per il quale il denaro è un mezzo da utilizzare, mentre la sanità non può essere considerato un sistema da cui cavare denaro. Ancora una volta, se il criterio che guida è quello “economicista” (parola con cui si vorrebbe intendere la prevalenza del profitto rispetto ai valori umani da tutelare), non ci possiamo e non ci dobbiamo stupire poi delle nefaste conseguenze che siamo qui a raccogliere con i morti tra gli anziani (le vittime più numerose), gli operatori sanitari, i più deboli nella società e nel mondo.
Dovendo uscire di qui (e non solo in relazione al problema che questo virus pone), si dovrà pur ripensare a questo tipo di impostazione, che deve mettere al centro sempre la persona, qualunque persona, e più che mai la più debole, come da tempo si insiste a dire, anche in relazione ai posti di lavoro, che dovrebbero essere all’insegna della sicurezza (quante morti bianche!!!) e della cura della salute (problemi dell’eternit di Casale Monferrato, dell’ILVA di Taranto …).
Non per nulla si attende, ancora in queste ore, la garanzia che si possa riaprire in tutti i settori, con le giuste modalità protettive, che comportano una nuova visione delle cose un po’ da parte di tutti. Ogni settore reclama l’attenzione per sé; ma prima e più ancora ogni settore deve ripensare le strategie da mettere in campo, perché si possa vivere tutti in sicurezza, analogamente a quello che si è fatto per la questione del terrorismo, per cui sono scattate in certi luoghi e in certi apparati dei sistemi di controllo che hanno comportato disagi e anche lievitazione di costi.
La conclusione, anche se parziale nell’articolo, è dunque quella di considerare la salute come un bene davvero comune, un bene che coinvolge tutti, nell’impegno sia a rispettarlo, sia a goderlo: perciò anche chi è più povero ha diritto al bene della salute; bene che non giova solo a lui, ma anche ad altri, perché non possiamo pensare di continuare ad avere, qui, come altrove, persone che possano essere infette o portatrici di virus.
E così G. Girard arriva a dire: “La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima”. (p. 13).
Insomma, il capitalismo, puro e duro, non può da solo bastare ad assicurare un vivere che sia davvero più umano. Come già nella crisi del 1929 si dovette praticare un intervento dello Stato, che fu realizzato in forme diverse, comprese quelle dittatoriali di destra e di sinistra, così ora non si può pensare che sia solo l’interesse del capitale a far girare il motore economico, soprattutto se si deve considerare l’aspetto vitale della salute, quella del pianeta (e quindi della natura) e quella dell’umanità (e quindi di ogni persona, soprattutto se debole e sprovveduta di mezzi). L’attenzione alla natura e l’attenzione alla persona vanno strettamente congiunte e da tempo non lo sono!
Se la salute è un bene globale – e lo è in effetti – allora la salute richiede un intervento globale, che non può essere affidato ad un singolo Stato e solo ad alcuni di essi. In presenza di un virus davvero globale, come quello in espansione vertiginosa un po’ ovunque, è necessaria una strategia comune, o meglio globale, mentre qui noi, come al solito, abbiamo assistito ad un gioco che lasciava ai singoli Stati di operare in forme e modi diversi, quando i problemi erano e sono davvero comuni. E anche in questo caso non sono solo gli Stati centrali o centralizzatori a non aver funzionato; neppure quelli a sistema federale o regionale hanno dimostrato tutta quella efficienza che ci si poteva aspettare e che poteva essere decantata. Anzi, abbiamo da noi assistito ad una crisi non indifferente del sistema europeo, che già veniva contestato dai partiti cosiddetti sovranisti, ma che ha rivelato tutte le sue debolezze anche a chi ne difendeva la costruzione.
“Ma la salute – continua l’articolo, ampliando lo spazio per coinvolgere un po’ tutti, e tutti i problemi oggi sul tappeto – è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettono di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società”. (p. 14). Abbiamo ricevuto tanti richiami in quest’ultimo periodo circa la situazione a cui è sottoposto questo nostro pianeta, piuttosto malconcio da un dominio forsennato, che ha interpretato male l’invito del Creatore di dominare la terra. Dominare non significa spadroneggiare o farla da padroni, ma avere quel dominio di noi stessi che ci fa essere “veri signori”, non per il tanto che abbiamo, ma per quanto noi siamo! Di qui il richiamo al limite, che sempre dovrebbe contraddistinguere il nostro vivere, sia perché esso è mortale – e anche questa pandemia ce lo ricorda amaramente – sia perché esso è dipendente, comunque. L’uomo vive un’esistenza “dipendente”, essendo l’uomo, ogni uomo, generato da altri e chiamato a vivere in dipendenza da altri o comunque in relazione. Una produzione illimitata, per poter godere, consumare, avere e dominare, non tiene conto di ciò che invece vale molto di più.
Ma su questo terreno non si inoltra l’articolo in esame. Esso piuttosto conclude con i richiami a salvare l’economia e la democrazia, che sono davvero in pericolo.
Le due proposte indicate circa l’economia sono quanto mai dibattute in questi giorni.
1 Iniettare liquidità nell’economia reale.
Il richiamo è fatto nei confronti degli Stati considerati “formiche” produttive e “risparmiose”, rispetto agli Stati del Sud Europa, che invece sono apparsi come “cicale” dispendiose. Una politica di rigore in questo momento, con il pensiero fisso all’inflazione che la Germania ha vissuto 100 anni fa come un incubo, non serve affatto a ricostruire. Occorre rivedere la politica economica-finanziaria di questi anni, quella che si è abbattuta sulla Grecia …
2. Creare posti di lavoro.
Viene sottolineato che “Non siamo solo di fronte a una carenza keynesiana della domanda – perché chi ha i contanti non può spenderli, dal momento che deve rimanere a casa – ma di fronte anche a una crisi dell’offerta.” (p. 17). Cioè non solo non ci sono quelli che possono acquistare e che quindi si astengono dal comprare, ma con il blocco del lavoro manca pure la produzione che possa mettere nel mercato ciò che è necessario comprare.
E allora continua l’articolo: “Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro. L’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza non è neppure nuova: è stata studiata molto seriamente dall’economista britannico Tony Atkinson. Naturalmente, affinché ciò abbia un senso, dobbiamo seriamente pensare al tipo di settori industriali per i quali vogliamo favorire l’uscita dal tunnel. Questo discernimento dev’essere fatto in ciascun Paese, alla luce delle caratteristiche specifiche di ciascun tessuto economico”. (p. 17).
Per quanto riguarda la questione politica, al di là della giusta affermazione di salvaguardare la democrazia come sistema politico, in presenza di tentazioni di presidenzialismo che possono portare all’autoritarismo, non si vedono chiare e facili soluzioni, in questo articolo, che sembra concluso in maniera piuttosto debole, rispetto all’analisi fatta delle questioni in gioco. In effetti ciò che si dice alla fine è un generico richiamo a “fare ciò che è possibile, e dunque proseguire negli sforzi per schermare e proteggere la popolazione”. (p. 19).
Forse, vale ora la pena di entrare del dettaglio delle questioni poste per cercare piste di ricostruzioni non solo tecniche …
Don Ivano Colombo (30 aprile 2020)