IL PROBLEMA DELLA “QUESTIONE ROMANA”
150 anni fa, il 20 settembre 1870, data storica per noi italiani, i bersaglieri entravano dalla breccia di porta Pia, a Roma, facendo decadere di fatto lo Stato Pontificio, e, con esso, come si pensava, anche il potere temporale. In realtà potremmo dire che quanto territorialmente rimaneva di quello Stato, erede di un ingrandimento perseguito fino al XVI secolo, veniva sì occupato dal Regno d’Italia, ma non per questo si poteva dire che veniva a decadere quella forma di autonomia, che di fatto i Papi nel corso della storia si sono costruiti, anche con il possesso e il governo di un territorio progressivamente ampliato.
Se nel passato appariva necessario per il Papa detenere anche il possesso di un territorio per garantirsi un’autonomia, poi di fatto ci si accorse che l’ufficio magisteriale e primaziale di Pietro poteva conservarsi anche senza quel tipo di Stato che aveva ereditato dalla storia. L’aveva ereditato anche per una assenza di potere a Roma, ormai divenuta simbolo di un impero millenario.
Certo, proprio a partire da ciò che la storia aveva lasciato in eredità, appariva pur necessario che il Papa, per continuare la sua missione nel solco di questa tradizione, avesse sempre bisogno di una pur minima extraterritorialità rispetto a ciò che stava sorgendo nell’Ottocento, e cioè uno Stato unitario, come quello italiano, che risultava essere la conclusione di una lunga storia. Se per gli altri Stati della Penisola, assimilati dal Regno di Sardegna (che sosteneva di essersi messo in campo per questa causa, mentre in realtà perseguiva la tradizione dell’ingrandimento territoriale in Italia), era senza conseguenze sul piano storico e politico, per Roma c’erano di mezzo tante altre questioni, sulla base del particolare tipo di Stato che risultava essere lo Stato Pontificio.
Non si parlava per gli altri Stati regionali d’Italia di una questione particolare, come invece già da tempo si parlava di una “questione romana”, quella, cioè, che richiedeva un intervento per mettere anche questo territorio e la sua gente in condizione di poter costruire una propria entità politico-statuale, ben consapevoli che la commistione fra il politico e il religioso avrebbe impedito uno sviluppo secondo i criteri che si stavano realizzando un po’ dovunque. E d’altra parte, anche oltre il mondo cattolico, c’era pure la convinzione che il Papa dovesse godere di una sua indipendenza, finora assicurata anche dalla gestione di un territorio da amministrare.
L’avvenimento aveva assunto fin dall’inizio una dimensione notevole per il suo carattere polimorfo, internazionale, nazionale, diplomatico, politico, religioso, memoriale e militare. Ben pochi altri eventi avevano avuto una tale risonanza: era stato infatti necessario trasformare una problematica internazionale, legata all’universalità del potere spirituale del papa, in una questione di politica interna, con l’abbattimento del potere temporale; dovevano essere affrontati i problemi legati alla “questione romana” che duravano da decenni; occorreva definire i rapporti tra la Chiesa e lo Stato laico e unificato e, infine, armonizzare gli aspetti politici e militari della conquista di Roma. ((HEYRIES, p. 9)
Per noi italiani la vicenda in esame appariva come una questione nazionale; invece la “questione romana” era sul tavolo delle diplomazie da tempo. Se nessun governo interviene, se non con le solite proteste, ciò lo si deve alla particolare congiuntura: i tradizionali protettori dello Stato pontificio, sono stati ridimensionati dal nuovo astro nascente, quello prussiano. E così la questione diventa solo locale. Ma per risorgere nel concerto degli Stati, il Vaticano dovrà cercare un accordo che viene garantito anche a livello internazionale, come sarà nei Patti Lateranensi. Se il Papa avesse accettato le leggi italiane che lo dichiaravano libero e sovrano, non avremmo avuto quel tipo di risultato. Per questo motivo ci possiamo anche spiegare, pur col senno di poi, la rigida chiusura ad ogni forma di compromesso fra i due Stati e la risposta dura del Papa nei confronti dell’Italia.
In effetti, pur rimanendo prigioniero in Vaticano, il Papa conservava riconosciuta non una sovranità territoriale, ma un’autorità politica, che permetteva anche il mantenimento di rapporti diplomatici con diversi Stati. Veniva però a mancare un ambito territoriale, per quanto il governo italiano di fatto non entrava nei sacri Palazzi, dove il Papa risiedeva, e, con una legge apposita, voleva assicurare un minimo di indipendenza, le cosiddette “Guarentigie”. Ci vollero circa 60 anni perché la questione romana avesse una soluzione non solo tra i due contendenti, ma anche con un avallo internazionale, che di fatto riconosceva nei Patti Lateranensi la nascita di uno Stato, con un suo territorio, per quanto ridotto al minimo.
IL POTERE TEMPORALE E LO STATO PONTIFICIO
Non è possibile fare tutta la storia del potere temporale dei Papi, per altro molto complessa nelle modalità con cui esso si esprime nel corso dei secoli, acquistando di volta in volta una conformazione che fa essere questa forma statuale come gli altri Stati della storia europea. Quando si accentua questa visione politico-territoriale, rischiamo di far identificare la Chiesa, intesa come istituzione divina, secondo gli schemi politici del tempo. Dovremmo pur sempre tenere distinta la Chiesa come emerge nei testi del primo Cristianesimo e nei trattati di ecclesiologia, e ciò che emerge nella sua immagine istituzionale nel corso della storia dal Medioevo fino ai nostri giorni.
Celebre è la frase del Bellarmino che identifica la Chiesa “ut res publica Venetorum”, quindi alla stregua della Serenissima Repubblica, la quale aveva connotazioni monarchiche e nel contempo non aveva un potere che si consegnava di padre in figlio, come nelle monarchie ereditarie. Il santo controversista aveva buon gioco a fare questo paragone nel cercare di spiegare qualcosa a proposito della Chiesa del suo tempo, tra ‘500 e ‘600.
La nascita dello Stato territoriale
Quando possiamo dire che è nato il potere temporale, cioè la fisionomia politica del Papa? Quando egli appare riconosciuto anche con una autorità politica, che esercita su un territorio, che può considerare di sua spettanza? Non esiste una data precisa e neppure un fatto documentato.
Esiste piuttosto un documento che veniva accampato come “pezza giustificativa”, per far ritenere di sua proprietà quel territorio su cui il Papa esercitava non solo la sua funzione religiosa, ma anche una autorità giurisdizionale politica. È la famosa Donazione di Costantino, un testo che dobbiamo definire medievale, con cui nel suo periodo più buio il potere del Papa, che svolgeva un compito amministrativo, veniva giustificato a partire da questo documento.
Si tratta senza ombra di dubbio di un falso, che già l’umanista Lorenzo Valla aveva spiegato in tal modo con un lavoro filologico sul testo. Esso veniva attribuito al sec. IV, appunto a Costantino nei confronti del Papa del suo tempo, e cioè Silvestro I, ma che di fatto doveva essere dei secoli successivi.
L’espressione Patrimonium Sancti Petri è utilizzata propriamente fino all’VIII secolo, ma in seguito suggerisce l’idea errata che il territorio sul quale la Chiesa romana ‘governava’ nel senso più o meno pieno del termine, a seconda delle epoche e delle singole regioni, si fosse formato mediante l’accorpamento dei patrimoni fondiari preesistenti. Al contrario, a partire dalla metà circa dell’VIII secolo inizia una effettiva amministrazione del dominio territoriale, ossia il governo di uno Stato della Chiesa come ‘eredità’ bizantina. In questa evoluzione Costantino è talora richiamato. Nella biografia di papa Silvestro nel Liber Pontificalis, Costantino destinava all’alimentazione delle lampade delle basiliche da lui fondate le rendite di alcuni possessi fondiari situati in Italia e in Africa e da un certo momento in poi anche in Egitto e in Siria; invece, come è noto, nel Constitutum egli donava al papa la potestas sull’Italia e sull’intero Occidente … Il Constitutum attribuisce a Costantino nei riguardi di papa Silvestro e dei suoi successori sulla cattedra di Pietro quanto segue:
Sia il nostro palazzo che la città di Roma e tutte le province, contrade e città d’Italia nonché delle regioni occidentali al beatissimo pontefice, il nostro padre Silvestro, papa universale, consegnando e accordando alla potestà e al dominio di lui e dei pontefici suoi successori per irremovibile giudizio imperiale, mediante questo nostro sacro diploma e costituzione dogmatica decretiamo che siano resi disponibili e concediamo che permangano nel potere della santa chiesa romana. (ENCICLOPEDIA TRECCANI)
Va riconosciuto che di fatto, quando l’autorità imperiale sposta la sua capitale fuori di Roma, rimasta come un simulacro ideale di quello che era in precedenza, sul territorio di Roma e del suo circondario, il Papa finisce per svolgere un compito amministrativo che di fatto la gente riconosce, soprattutto quando questa amministrazione si dimostra efficace ed efficiente. Una figura significativa a questo proposito è quella dei Papa Gregorio, poi definito Magno, il quale già da laico era stato il preafectus urbis e perciò, una volta divenuto Papa, aveva continuato ad essere considerato così, in un’epoca in cui la penisola era terra di conquista da parte dei Longobardi.
Sempre più circondato da essi, il Papa cerca aiuto attorno, perché teme di finire asservito, di perdere la sua autonomia: di qui l’intervento dei Franchi e con essi l’avallo ormai di un potere giuridicamente riconosciuto su un territorio che sarà chiamato “Patrimonio di S. Pietro”. E come il Papa serve all’Impero, da Carlo Magno in poi, come colui che, incoronando l’imperatore, gli conferisce la potestà imperiale, così egli può contare sull’Imperatore stesso per vedersi riconosciuta la sua autorità su Roma e sul territorio circostante. La Donazione di Costantino servirà poi a giustificare questa autorità e la giurisdizione sul suo territorio, quando il Papa si trova ad avere a che fare con autorità politiche che lo contestano o che gli si oppongono.
Con la crisi dell’Impero e con la conseguente nascita di entità politiche che rivendicano, ben oltre lo schema dell’impianto feudale, una propria potestà non più demandata da altri, Papa o Imperatore che siano, si fa strada una concezione di potere politico esercitato su un territorio. Potremmo dire che, quando nascono gli Stati che noi oggi definiamo “nazionali” (soprattutto Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, mentre in Italia si formano entità statali a livello regionale, con Signorie e Monarchie), allora anche in questa area geografica dove il Papa ha esercitato il suo potere, si viene formando un vero e proprio Stato. Lo si costituisce anche a danno dei Signori locali, soprattutto nelle zone periferiche tra la Marca anconitana, la Romagna e il Po. I Borgia e Giulio II contribuiscono indubbiamente a marcare questi confini, per dare un assetto territoriale e una giurisdizione precisa al potere politico papale, che così diventa un potere temporale da gestire con gli altri Stati e come gli altri Stati.
La Donazione di Costantino viene sempre accampata come un documento di valore e viene ritenuta di assoluta validità da parte dei Papi. Di fatto nessuno mette in dubbio il potere ormai acquisito, nonostante la scoperta che tale documento sia falso. Esso comunque serve a giustificare il potere …
Anche lo storico Federico Chabod che non ha dubbi a riconoscerlo falso, deve altresì dire che esso è servito a costruire quell’immagine di potere politico, che di fatto il Papa esercita e che conserva per sé fino al secolo XIX.
Se nessuno potrebbe più oggi sognarsi di attribuire veramente a Costantino la Donatio, il Costituto conserva ugualmente una importanza di primissimo ordine per la storia dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa nell’alto Medioevo, in questo senso: che il documento, fabbricato in epoca posteriore all’epoca di papa Silvestro e di Costantino, probabilmente nella seconda metà del secolo VIII, è preziosa rivelazione delle aspirazioni e degli intendimenti politici della Chiesa stessa in una certa fase del suo sviluppo, è sicura testimonianza della cresciuta potenza e autorità del papato, che può quindi, ad un certo punto, esigere per sé la piena parità col potere politico. Non serve a nulla per la storia del secolo IV, ma serve moltissimo per quella del secolo VIII.
Lo Stato Pontificio nell’epoca risorgimentale
Con la questione nazionale e risorgimentale, per l’Italia, ma anche con le rivendicazioni nazionali che si fanno strada nell’Ottocento, in seguito alla rivoluzione francese e alle campagne napoleoniche, sorgono in Europa problemi che porteranno ad un riassetto diverso del continente. Insieme con l’Italia e la Germania che si danno una configurazione nazionale, ci sono vari nazionalismi nelle aree geografiche dell’est europeo, laddove i sistemi imperiali, come quello turco o quello asburgico, sono di fatto in un lento ma inesorabile declino.
In Italia la questione nazionale finisce per risolversi con l’ingrandimento del Regno di Sardegna e quindi con le mire espansionistiche di casa Savoia, che ammantano le loro pretese con questa visione nazionalista, che dà origine al Risorgimento. Oltre alla questione unitaria e al suo riassetto politico (Regno o Repubblica? Federazione di Stati o Stato unitario?), si pone la questione non facile dello Stato della Chiesa, che appare sempre più anacronistico in questo sistema.
Esso risulta comunque una consegna ricevuta dal passato e che soprattutto i Papi del XV e XVI secolo cercano di ingrandire anche mediante linee di confine più sicure e mediante soprattutto una sistemazione in Legazioni che consentano una vigilanza maggiore soprattutto sui territori periferici. Bisogna però arrivare al periodo risorgimentale, perché siano avviate riforme che permettano un miglior assetto del territorio. Il Papa, comunque, ritiene sempre che questo suo Stato gli consente di poter svolgere al meglio la sua funzione di Capo supremo della Chiesa, la cui autorità, nell’ambito religioso, va ben oltre il suo ristretto ambito territoriale. Così il possesso di un territorio e l’esercizio di un potere politico e amministrativo viene considerato utile perché anche l’esercizio dell’autorità religiosa sia garantita in assoluta libertà.
Sovranità con o senza territorio
Ma per garantirla è proprio necessario avere uno Stato, e soprattutto un territorio come quello che l’antico Patrimonio di S. Pietro si ritrovava? Questo appare il problema fondamentale nell’analisi che si ritiene di dover fare circa il Patrimonio di S. Pietro divenuto nello scorrere del tempo lo Stato Pontificio, per arrivare oggi allo Stato della Città del Vaticano. Bisogna riconoscere che la consegna fatta dalla storia di questa realtà territoriale e statuale ha lasciato una traccia indelebile nell’immaginario di una figura e di un esercizio del potere nella persona del Papa, per cui oggi ci ritroviamo con questa realtà, che eredita quanto nel passato è stato prodotto. È rimasto solo un territorio ridotto al minimo, ma di fatto l’indipendenza anche politica del Papa è garantita, e lo è pure a livello internazionale. Rimane nel corso della storia un breve periodo in cui tale realtà sembra svanire, anche se da parte dello Stato italiano si continuava a riconoscere l’indipendenza e la sovranità del Papa. Potremmo definire questo iato storico come un momento di riflessione per continuare e nello stesso tempo superare l’eredità prodotta dalla storia. L’episodio della breccia di Porta Pia, che qui si vuole ricordare crea da una parte questa frattura che dissolve l’entità dello Stato Pontificio, ma nello stesso tempo crea le basi perché si possa arrivare al riconoscimento internazionale di una sovranità minima, che dà al Papato un’autorità forte, universalmente riconosciuta, ovviamente anche sulla base delle singole personalità che si susseguono sulla Cattedra di Pietro.
L’EVENTO DI PORTA PIA
In una ricerca storica non ci si può esimere dal raccontare i fatti nel loro susseguirsi e tuttavia non ci si può limitare a questi, perché il vero scopo della storia è documentare le ragioni profonde di una sorta di movimento tellurico che ha, nel caso del potere temporale dei Papi, fatto cadere un apparato stabile da secoli. Questo era inoltre un universalmente riconosciuto, anche se il testo di riferimento, per giustificare un simile potere, appare un falso. La caduta – e tale è non solo perché scompare uno Stato dalla cartina geo-politica, ma perché un potere del genere non ricompare più, anche quando risorge l’indipendenza del Papa nella forma che oggi riconosciamo – si è svolta per successive frane, che hanno eroso non solo il territorio, riducendo il Patrimonio di S. Pietro al “giardinetto intorno”, come allora si diceva, parlando di Roma e del Lazio, ma hanno costretto a pensare qualcosa di diverso rispetto alla istituzione formata nel corso dei secoli.
Se stiamo all’episodio di Porta Pia che ha di fatto comportato la caduta totale di questo potere, il racconto dei fatti si ridurrebbe a ben poca cosa; ma il fenomeno è di ben più grave portata, sia per la questione nazionale dell’Italia, sia per una certa visione di Chiesa e nel contempo anche per le conseguenze che si potevano avere anche sul piano internazionale. Non si deve dimenticare che poi i cosiddetti Patti lateranensi non furono, come già detto, una sola questione interna per l’Italia o bilaterale per i due Stati contraenti.
Presto, in un allegro e affascinante concerto di rintocchi, squarciarono il silenzio dei campanili di centinaia di chiese che più o meno puntualmente, per mano degli esperti campanari, suonavano le ore cinque, anche quel giorno. Era martedì.
L’inferno vero, pieno dei rumori assordanti provocati dai cannoni, cominciò dopo le cinque; le armi pesanti sparavano un po’ a casaccio prevalentemente in due settori della città: a nord-est, fra porta Pia e porta Salara (poi “Salaria”) – il punto delle mura aureliane scelto dall’esercito del generale Cadorna
per abbattere l’antica barriera di mattoni ed entrare in città – e a nord-ovest, dove sul Gianicolo si erano radunati gli uomini del generale Bixio, un ex garibaldino considerato dai moderati “una testa matta” e particolarmente esecrato dal papa …
A Roma il barone Hermann Kanzler, comandante dell’esercito pontificio, era rintanato dalla notte nel ministero delle Armi, in piazza della Pilotta …
A metà mattina di quel settembre – quando, come vedremo, la breccia di Porta Pia era stata ormai aperta dai cannoni – l’osservatore raccontò freddamente attraverso il filo ciò che vedeva là sulle lontane mura, dove adesso una folla di soldati italiani si accalcava per entrare a Roma. Ebbe immediatamente dai suoi superiori una secca risposta: un ordine perentorio su un bigliettino consegnato a mano e scritto a matita:
Al tenente Carletti
Ore 10 antim.
Alzate bandiera bianca.
Azzanesi.
Il tutto, più o meno, dà l’idea di una guerra vera, combattuta quel giorno a Roma con le armi e anche con gli strumenti di comunicazione della tecnologia allora moderna, fino all’inevitabile resa dell’esercito sconfitto …
Il sangue, i morti, i feriti in realtà ci furono: gli scontri più cruenti avvennero però, per una serie di drammatici equivoci, proprio quando la resa del governo papale era stata già decisa. Fra gli errori, i tentennamenti vaticani e i malintesi di quelle ore, ci fu anche la mancata consegna preventiva al tenente Carletti di una bandiera bianca …
Gridando aiuto, il “sanpietrino” riuscì a rimediare sul posto soltanto una specie di asciugamano di colore bianco (altri racconti parlano di un pezzo di vestiario di biancheria intima). Quando lo appese alla croce in cima a San Pietro, per mostrarlo ai lontani combattenti fuori città o presso le mura sbrecciate, nelle cruente mischie armate sul campo, erano però già passati molti sanguinosi e mortali minuti. (FRACASSI, p. 10-12)
Così, dunque, cadeva lo Stato Pontificio, che era considerato un serio problema della politica nel secolo XIX al pari della questione turca. Ovviamente questa era di più ampio respiro, come pure, sempre più crescente era la questione un po’ anomala dell’impero asburgico, che era stato l’erede del Sacro romano impero, ma ora non aveva più niente a che fare con il mondo tedesco, per quanto il suo centro “parlasse” quella lingua. In questo impero i nazionalismi stavano per esplodere e la figura dell’Imperatore non era più sufficiente a fare da collante.
VITTIMA DEL NAZIONALISMO DOMINANTE O STATO ANACRONISTICO?
Mancando di una sua conformazione “nazionale” e trovandosi in un ambito geografico dove si cercava di raggiungere l’unità nazionale, non poteva affatto durare, diversamente invece di altri territori altrove in Europa che cercavano di uscire dal sistema multinazionale per acquisire l’indipendenza.
Come anche gli altri Stati regionali d’Italia furono inglobati all’unico Stato che aveva usato a suo vantaggio la spinta nazionalista, così era inevitabile che succedesse a questo Stato un po’ particolare. La dinastia meno italiana, per le sue origini nella Savoia di lingua francese, in cui la lingua corrente era di fatto il francese e il piemontese, ma non l’italiano, aveva attratto a sé il resto della penisola, in nome di ideali nazionali, ben interpretati. E così doveva essere anche per Roma, destinata come capitale del Regno d’Italia, mentre il Papa continuava a pretendere la sua sovranità in nome di una eredità che lo voleva continuatore della Roma imperiale, messa poi a servizio della religione cristiana.
Il suo limite era già emerso all’indomani della rivoluzione francese, perché esso pure e forse più di altri espressione dell’ancien regime che non si adattava con l’illuminismo imperante. Sopravvissuto alla bufera napoleonica, non si era aggiornato e per stare in piedi senza riforme, più volte richieste da altri Stati, stava in piedi grazie alla presenza militare degli asburgici, sul confine nord, e alla presenza militare francese in seguito all’esperienza della Repubblica romana nel 1848-49.
Il rinnovamento, presente un po’ dovunque, tra richieste e concessioni di Costituzioni e movimenti carbonari, tra scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, sembrava latitare proprio nello Stato pontificio dove ogni novità, in molti campi, sembrava in completa antitesi con la conservazione di una tradizione religiosa, che non solo non veniva messa in discussione, ma che era il fine a cui doveva essere piegata ogni altra istanza.
Il problema dello Stato pontificio nell’Ottocento
La questione romana, che nei libri di storia appare essere la questione dei rapporti fra il nuovo Stato italiano e il potere papale, che sembrava annullato dalla caduta dello Stato pontificio, era in realtà una questione annosa che fin dai tempi della Restaurazione del Congresso di Vienna, faceva discutere le diplomazie. Ci si rendeva conto che una simile istituzione non poteva reggere alla lunga e che dunque necessitava di un appoggio dalle grandi potenze, che di volta in volta si potevano erigere a difensori del sistema. Tra le varie potenze europee, naturalmente, a questo esercizio di tutela, potevano proporsi solo le Potenze cattoliche, non certo quelle dove era maggioritario un altro credo religioso: Inghilterra, Prussia, Russia non potevano affatto dichiararsi pronte a scendere in campo per difendere il sistema statuale pontificio. Così di fatto, anche per un esercizio di tutela fatto con gli altri Stati, la sola Austria sosteneva il mantenimento dello status quo, anche in presenza di movimenti rivoluzionari che neppure a Roma mancavano. Inoltre va sottolineato che, mancando un esercito regolare, ben strutturato per i tempi, la difesa del territorio, non poteva essere garantita dalla sola gendarmeria, che di per sé poteva avere funzioni di polizia. E tutto questo doveva servire più che mai in tempi di Restaurazione, quando i movimenti rivoluzionari si creavano ed agivano non solo con reazioni violente, ma anche con una capillare rete di propaganda che attecchiva un po’ dovunque e richiedeva una polizia efficiente e tempestiva nell’intervenire. Ovviamente non poteva esserci solo la forma repressiva con punizioni esemplari e con retate e carcerazioni preventive. Occorreva anche una riforma dell’organismo statuale, che molto spesso non veniva messa in atto nonostante i richiami e nonostante qualche timido tentativo.
Tentativi di riforma
Già con Pio VII (1800-1823), superata la fase napoleonica, durante la quale il Papa era rimasto ostaggio dell’imperatore francese, si era tentata qualche riforma dell’apparato statale, prendendo spunto anche dalle medesime riforme napoleoniche che si rivelavano davvero innovative. Poi però con i Papi successivi non si fece altrettanto e la macchina repressiva si fece sentire, soprattutto in occasione dei diversi moti che scoppiavano anche qui a partire da quello che succedeva in altre città italiane.
E mancava soprattutto l’ammodernamento dello Stato per stare all’altezza delle innovazioni dei tempi, che si rendevano necessarie pure nei Paesi che si presentavano custodi della restaurazione in ambito politico, ma pur volevano le innovazioni in altri campi. Anche la ferrovia qui non si voleva assolutamente introdurre, considerata non come un chemin de fer, bensì come un chemin à l’enfer.
Le cose sembrano cambiare con i primi mesi del pontificato di Pio IX (1846-1878).
Le riforme avviate sembravano muovere nella linea di un regime costituzionale con un governo e un’assemblea che progressivamente venivano affidati a laici e non più all’apparato clericale, come si era sempre fatto. Anche le aperture doganali facevano sperare in un sistema che progressivamente poteva sfociare in una Italia “federale”. Ma il dramma si compie con la prima guerra d’indipendenza (1848-49), dove l’intervento contro l’Austria non poteva essere compiuto senza mettersi contro chi aveva sempre puntellato il regime papale. La situazione sfugge sempre più dalle mani del governo e lo stesso primo ministro cade vittima di un attentato. Il Papa è costretto in esilio a Gaeta.
E qui si instaura la breve stagione della Repubblica Romana. La richiesta di aiuto alle potenze cattoliche, con l’Austria nel territorio romagnolo a ridosso dei suoi Stati e della repubblica francese di Luigi Napoleone a Civitavecchia per il recupero della sovranità papale, rese sempre più il Papa a rimorchio delle potenze cattoliche europee. Proprio nel decennio degli anni ’50 comincia il declino dello Stato, che si consuma soprattutto in occasione della II guerra di indipendenza (1859) e in seguito alla spedizione dei Mille. Se sopravvive una parvenza di Stato, ridotto territorialmente ad alcune zone del Lazio, è comunque inevitabile che si vada inesorabilmente verso la sua dissoluzione con la breccia di Porta Pia che è solo il colpo di grazia.
A seguire le vicende di quegli anni, ci si rende conto che non poteva più avere consistenza questo apparato che non reggeva il confronto con nessun altro Stato dell’Europa di quel periodo. Del resto se ne parlava anche nelle trattative politiche e diplomatiche, in quanto non si voleva, né dagli Stati della Restaurazione né da quelli favorevoli alle innovazioni, che ci fosse in Europa un sistema statale foriero di turbative. E lo Stato Pontificio nella sua debolezza strutturale costituiva nell’Europa occidentale un vero problema in tal senso, o così era inteso nelle discussioni diplomatiche e politiche a livello internazionale, sia sui giornali d’opinione, sia tra i politici di professione.
L’EVENTO RILETTO DALLE PARTI IN CAUSA
Il fatto della presa di Roma sia nei documenti governativi e quindi anche nei discorsi dall’una e dall’altra parte, appare segnato dalla retorica che è propria di chi si lascia condurre in maniera emotiva dagli eventi. Essi in realtà appaiono ben poca cosa in sé, per quanto ci siano di mezzo anche morti e feriti. Gli strascichi che si ebbero in seguito, con le vane proteste di parte pontificia, culminate nella scomunica di tutti gli apparati dello Stato italiano e di tutti quelli che si accodavano a riconoscere tale misfatto (come si diceva da quella parte), e nello stesso tempo con le lungaggini a trasferire la capitale da Firenze a Roma da parte del Re, che era sempre titubante in presenza delle scomuniche (non tanto perché fosse religioso, ma perché era piuttosto superstizioso), dimostrano che l’episodio era mal digerito da entrambe le parti.
E anche in seguito non si avranno da entrambe le parti gesti accomodanti, che permettano di sanare le ferite e di rileggere il fatto in maniera onorevole per l’una e l’altra parte. Come sempre la retorica e gli spiriti contrapposti acuivano i risentimenti, senza una visione storica più costruttiva. Ci volle Paolo VI (1963-1978), in occasione del centenario, per arrivare ad una lettura di quell’intervento come di una liberazione per la Chiesa stessa, che aveva ricevuto in eredità un fardello. Se il potere temporale, e con esso uno Stato territoriale, poteva essere ritenuto utile per salvaguardare la sua libertà rispetto agli Stati, la sua gestione, soprattutto in determinati periodi storici, creò non pochi problemi alla sua immagine di istituzione a servizio del Regno secondo i dettami evangelici.
Da parte pontificia
Da parte pontificia dopo le scomuniche di Pio IX, ci fu l’intervento ancora più restrittivo e problematico per i cattolici, soprattutto quelli ferventi e leali, impegnati nelle realtà sociali e locali: il “Non expedit” impedì ai cattolici di essere presenti e attivi nella realtà politica del nuovo Regno; nello stesso tempo, essi ebbero anche l’accusa di non essere del tutto liberi e “laici” nei confronti dello Stato, dovendo ubbidire ad una forza che veniva accusata di estraneità e di contrapposizione. Per anni non ci fu possibilità alcuna di creare una formazione politica espressione del mondo cattolico, e, quando questa nacque, ormai si era in presenza di uno stato liberale in agonia per lasciare il posto ad uno stato dittatoriale. Anche dopo questa parentesi drammatica, la risorta Democrazia Cristiana non ebbe il sostegno dell’autorità papale, anche ad avere ormai alle spalle l’incomprensione e il contenzioso con lo Stato italiano. Rimaneva solo lo spazio nell’ambito sociale: i cattolici ebbero comunque la possibilità di operare in settori delicati come quello delle cooperative e delle banche popolari o quello delle formazioni associative per i lavoratori (come le ACLI) o per i laici (come l’Azione Cattolica).
Da parte italiana
Da parte della società italiana e delle sue Istituzioni ci fu un continuo insorgere di gruppi e movimenti improntati all’anticlericalismo, con prese di posizioni che marcarono nettamente i confini e mantennero di fatto una ferma ostilità nei confronti della Chiesa proprio come sistema istituzionale e politico e di tutto ciò che il mondo cattolico esprimeva anche ad aver recepito la visione risorgimentale. Il trasporto della salma di Pio IX fu accompagnato anche da schiamazzi che facevano presagire il peggio; la costruzione della statua di Giordano Bruno nella piazza dove era stato eretto il suo rogo fu una provocazione contro il Vaticano, accusato di non garantire il libero pensiero con i suoi sistemi inquisitori; e comunque i successori di Pio IX, anche senza rinfocolare gli attriti si erano sempre dichiarati prigionieri in Vaticano.
La Legge delle Guarentigie
L’unico tentativo di cercare un accomodamento onorevole fu la legge delle Guarentigie, voluta dal
Parlamento italiano e promulgata dal re a partire dal maggio 1871 e di fatto servita a garantire la libertà di espressione e di governo della Santa Sede fino ai Patti Lateranensi. La legge non fu discussa però con la controparte che si rifiutò sempre di riconoscere quanto era successo con la breccia di Porta Pia. In effetti la legge era qualcosa di unilaterale e non poteva avere nessun riconoscimento internazionale, come sarebbe poi successo con i Patti Lateranensi. La grande preoccupazione presente nel testo è quello di risarcire il Papa con un compenso in denaro, pur riconoscendo che “la persona del Sommo Pontefice e della Santa Sede è sacra ed inviolabile”. Si voleva intendere che si rispettava la sua indipendenza, pur mancandogli un territorio, anche se gli venivano riservati palazzi e dipendenze per l’esercizio attivo di questa sua indipendenza dallo Stato italiano.
La memoria storica
Dal 1870 a oggi, la presa di Roma, Porta Pia e la sua “breccia” hanno costituito una delle basi su cui si è strutturato il racconto nazionale italiano, senza tuttavia raggiungere l’intensità delle commemorazioni di altri grandi momenti del Risorgimento e conoscendo piuttosto un lento processo di oblio. Eppure l’avvenimento fu di importanza fondamentale, perché aveva permesso di raggiungere l’unificazione del regno d’Italia (in attesa della conquista delle terre ancora irredente), dando al paese la sua capitale storica e naturale; aveva contribuito inoltre a chiarire la questione romana. Come spiegare allora questa fluttuazione della memoria, che progressivamente è passata dalla luce all’ombra?
(HEYRIES, p. 149)
Celebrazioni pubbliche non sono più fatto, anche perché altre date sono poi intervenute, ben più decisive. Musei della memoria non godono affatto di visite e di attenzione. Anniversari significativi, come potrebbe essere il recente dei 150 anni, sono forse solo occasione per alcuni storici di fare qualche chiarimento ulteriore rispetto alle cose già dette e già note; comunque non godono affatto di popolarità. Forse qualcuno neppure ricorda la data, che pur in qualche località compare come il nome di una via o di una piazza, che tuttavia non dice molto se non agli addetti al lavoro.
Anche da parte vaticana non si dice più nulla, mentre è divenuta data memorabile per lo Stato vaticano l’11 febbraio che è la data di nascita del nuovo Stato. Noi ricordiamo la stessa data più per il Concordato che non per il Trattato del Laterano, che istituisce la “Città del Vaticano”. Entrambi sono entrati a far parte della Costituzione italiana all’art. 7.
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Con questi due trattati si risolve l’annosa questione romana e il contenzioso tra Chiesa e Stato italiano.
BIBLIOGRAFIA
- Hubert Heyries: LA BRECCIA DI PORTA PIA – 20 settembre 1870 – Il Mulino – 2020
2. Claudio Fracassi: LA BRECCIA DI ROMA – 1870: le passioni, gli inganni, il papa, il re – Mursia – 2020
3. Stefano Tomassini: ROMA, IL PAPA, IL RE – L’Unità d’Italia e il crollo dello Stato Pontificio – Il Saggiatore – 2013
APPENDICE: davvero necessario lo Stato Pontificio per l’azione spirituale della Chiesa?
Una delle questioni più dibattute a proposito del potere temporale dei Papi e conseguentemente della sua caduta o dissoluzione, riguarda la stretta connessione fra il potere temporale e quello spirituale, che nel corso dei secoli diventa una forte tentazione nella Chiesa soprattutto a partire da chi ne ha concretamente la gestione.
Già nel Medioevo è radicata la questione che riguarda le cosiddette “due spade”: si fa riferimento al testo evangelico di Luca 22,35-38
Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!».
L’interpretazione medievale sottolineava che i discepoli erano in possesso delle due spade, che simbolicamente rappresentano i due poteri, quello civile e quello religioso. Dunque l’autorità religiosa è in possesso di entrambi, ma delega quella civile alla potestà civile, pronta a sottrargliela, quando questa degenera. Naturalmente a insindacabile giudizio del potere cosiddetto “spirituale”. Alcuni Papi non fanno mistero di prendere alla lettera questa interpretazione e quindi di gestire così la propria supremazia, anche politica, sia quando l’Impero appare debole, perché non ha figure con particolare autorità (si pensi all’epoca di Innocenzo III che ha sotto la sua tutela il futuro Federico II ancora minorenne), sia quando l’Impero pensa di interferire in presenza della debolezza della Chiesa e dei suoi Papi. Altrettanto pensa e di conseguenza agisce Bonifacio VIII, che trova ad ostacolarlo la Francia di Filippo il Bello. Quanto non riesce nell’autunno del Medioevo, indubbiamente al tramonto proprio con il Giubileo del 1300, viene ripreso successivamente, dopo un secolo traumatico per la Cattività avignonese e per lo Scisma d’Occidente, con il Papa divenuto ormai un Signore sui suoi territori. Almeno lì “le due spade” sono strettamente in mano e usate dal Pontefice, che così diventa progressivamente e stabilmente il cosiddetto Papa-Re.
Che egli sia capo di uno Stato nessuno glielo contesta, ma che egli ritenga indispensabile questo esercizio di potere anche per la sua funzione di Capo della Chiesa cattolica nell’ambito religioso, questo diventerà col tempo più una palla al piede, che non un vero sostegno a questa sua missione.
Nell’Ottocento i nodi vengono al pettine e con Pio IX la convinzione si radica in affermazioni che vorrebbero puntellare questo sistema. Dalle affermazioni espresse con le lettere encicliche si passa poi a qualcosa di più solenne e definitivo addirittura con l’infallibilità pontifica, espressa nel Concilio Vaticano I, anche se tale affermazione non si spinge cero nel sostenere che per essere un Papa infallibile e inattaccabile, sia necessario godere di un potere territoriale di supporto. Anzi, proprio questo viene a sgretolarsi definitivamente, comportando anche la chiusura, di fatto, del Concilio. Prima di arrivare a questo Pio IX difende fino all’ultimo ogni pur minima provincia del suo Stato, mentre, prima ancora del colpo finale del 1870, questo stesso Stato si sgretola. Già questo afftto avrebbe potuto e dovuto far riflettere sul fatto che pur difendendo uno spazio di totale autonomia politica rispetto ad un altro Stato, per arrivare a tanto non occorreva difendere una proprietà territoriale, come quella che il Papa aveva ereditato da una storia secolare.
Nel bel mezzo della II guerra d’indipendenza, il 18 giugno 1859, scrive la lettera enciclica Qui nuper, con cui dice di sentirsi mancare la terra sotto i piedi, in quanto alcune province dello Stato sono coinvolte dai moti rivoluzionari e di fatto sono sottratti alla potestà pontificia, come del resto succederà proprio nei mesi successivi. En passant, sostiene con forza “essere necessario a questa Santa Sede il principato civile, perché senza alcun impedimento possa esercitare, nell’interesse della Religione, la sua sacra potestà”. Ovviamente, non solo dal Piemonte “liberale” di Cavour, si rimarcava la necessità di una libera Chiesa in libero Stato, secondo la ben nota formula, che veniva interpretata dalle intransigenze di ambo le parti come una visione antireligiosa e in particolare anticattolica. Su questa contrapposizione nascevano le incomprensioni …
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Ecco qualche battuta di questa breve enciclica:
Quel moto di sedizione testé scoppiato in Italia contro i legittimi Principi, anche nei paesi confinanti con i Domini Pontifici, invase pure, come una fiamma d’incendio, alcune delle Nostre Province; le quali, mosse da quel funesto esempio e spinte da eccitamenti esterni, si sottrassero alla Nostra paterna autorità, cercando anzi, con lo sforzo di pochi, di sottoporsi a quel Governo italiano che in questi ultimi anni fu avverso alla Chiesa, ai legittimi suoi diritti ed ai sacri Ministri. Ora, mentre Noi riproviamo e lamentiamo questi atti di ribellione con i quali una sola parte del popolo, in quelle province così ingiustamente disturbate, risponde alle Nostre paterne cure e sollecitudini, e mentre apertamente dichiariamo essere necessario a questa Santa Sede il principato civile, perché senza alcun impedimento possa esercitare, nell’interesse della Religione, la sua sacra potestà (principato civile che i perversissimi nemici della Chiesa di Cristo si sforzano di strapparle), a Voi, Venerabili Fratelli, in così gran turbine di avvenimenti indirizziamo la presente lettera per dare qualche sollievo al Nostro dolore. …
Del resto, Noi dichiariamo apertamente che, vestiti della virtù che discende dall’alto e che Dio, supplicato dalle preghiere dei fedeli, concederà alla Nostra pochezza, soffriremo qualunque pericolo e qualunque dolore piuttosto che abbandonare in qualche parte il Nostro dovere apostolico e permettere qualsiasi cosa contraria alla santità del giuramento con cui Ci siamo legati quando, per volontà di Dio, salimmo, benché immeritevoli, a questa suprema Sede del Principe degli Apostoli, rocca e baluardo della Fede Cattolica.
Analizzando questa enciclica e questa visione dei poteri Tomassini dice con estrema chiarezza:
Un terzo elemento che sembra emergere dalla lettura dell’enciclica è proprio nella “rocca e baluardo della fede cattolica”, che Pio IX attribuisce alla Santa Sede, identificata non semplicemente con la sede di Pietro, bensì con lo Stato Pontificio nella sua integrità. E qui c’era sicuramente un altro ragionamento che da tempo animava la riflessione di Papa Mastai: la lotta che si faceva contro la Stato Pontificio non era solo contro il potere temporale della Chiesa, era contro la Chiesa cattolica in quanto tale. Un ragionamento che Pio IX riprese in maniera esplicita due giorni dopo, nell’allocuzione che fece nel concistoro segreto del 20 giugno … “Adunque gli infestissimi nemici del temporale dominio della Chiesa romana perciò si adoperano d’invadere, d’indebolire e distruggere il civil principato di lei, acquistato per divina provvidenza, con ogni più giusto ed inconcusso diritto, e confermato dal continuato possesso di tanti secoli, e riconosciuto e difeso dal comun consenso dei popoli e dei principi, eziandio acattolici, qual sacro e inviolabile patrimonio del Principe degli apostoli, affinché, spogliata che sia la romana Chiesa del suo patrimonio, possano essi deprimere ed abbattere la dignità e la maestà della Sede apostolica e del Romano Pontefice, e più liberamente danneggiare e far aspra guerra alla santissima religione,e questa religione medesima, se fosse possibile, atterrare del tutto”. (TOMASSINI, p. 263-4)
L’autore di questo giudizio storico comunque giustifica almeno in parte Pio IX:
Bisogna dire che Pio IX, nel dare questa interpretazione egli eventi che sembravano incombere su di lui, qualche giustificazione l’aveva.
E qui a sostegno portava la religiosità laica di Mazzini, la legislazione laicista del Piemonte cavouriano, e la Massoneria stessa del Piemonte, i cui affiliati poi diventavano i capi delegazione piemontesi nei territori sottratti al Patrimonio di S. Pietro.
Il capo della Chiesa cattolica, insomma, qualche motivo per ritenere che i suoi nemici attaccassero il potere spirituale insieme con il temporale, qualche plausibile motivo lo aveva. Lui sì: restava un errore di prospettiva, ma si spiegava e lo spiega egregiamente, infatti, padre Giacomo Martina, nella sua biografia di Pio IX: “Il motivo più profondo dell’opposizione di Pio IX al processo risorgimentale – che non si riduceva ad un nuovo assetto territoriale della penisola, ma tendeva alla creazione di una nuova forma di Stato, fondata sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza differenza di culto, sul superamento degli antichi privilegi della Chiesa, della libertà di stampa, di culto e di propaganda, per indicarne solo i tratti essenziali – nasceva però dalla fine di quella posizione speciale di cui aveva goduto fino allora la Chiesa, e che, nella classica ecclesiologia posttridentina, appariva come una condizione quasi inderogabile per il compimento della sua missione salvifica. In altre parole, poco sensibile alla dimensione storica che implica un adattamento della Chiesa alle mutevoli strutture della società, Pio IX temeva sinceramente che il nuovo Stato laico mettesse a rischio la salvezza eterna di milioni di persone”.
(TOMASSINI, p. 265-6)
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