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PER FEDE FU PORTATO VIA,
IN MODO TALE DA NON VEDERE LA MORTE
E NON LO SI TROVO’ PIU’,
PERCHE’ DIO LO AVEVA PORTATO VIA …
EGLI FU DICHIARATO PERSONA GRADITA A DIO.
SENZA LA FEDE E’ IMPOSSIBILE ESSERE GRADITI A DIO.
CHI SI AVVICINA A DIO DEVE CREDERE CHE EGLI ESISTE
E CHE RICOMPENSA COLORO CHE LO CERCANO.
(Ebrei 11,4-5)
1 – COME GIUSEPPE VIVE LA PASQUA
Parlare della Pasqua di Giuseppe sembra impossibile.
In occasione della Pasqua di Gesù, quando egli muore sulla croce, Giuseppe in questo mondo, a quanto pare, non c’è più. Lo dovremmo pensare in quel Limbo sotterraneo, gli Inferi, dentro il quale Gesù “discese”, come diciamo nel Simbolo apostolico, proprio per abbattere quelle porte, e per far uscire quanti aspettavano la redenzione. Dobbiamo immaginare che dietro i progenitori, Adamo ed Eva, e tutti i giusti del mondo antico, spesso rappresentati nella scena, immaginata per descrivere questo momento, pronti ad uscire con Gesù a nuova vita, ci possa essere anche lui, il padre “putativo”. Non c’è mai stato alcun dubbio nella Chiesa, sia con il suo Magistero, sia con la pietà dei fedeli, circa il riconoscimento della santità di Giuseppe, che noi avvertiamo tale per ogni uomo o donna, non solo in base alla cosiddetta eroicità delle virtù, ma anche e soprattutto per un’esistenza vissuta in conformità al Figlio di Dio e al suo Vangelo. E questo lo possiamo dire a proposito di Giuseppe vissuto accanto al Figlio, a servizio del Figlio, assumendone lo Spirito: già per questo motivo lo dobbiamo riconoscere come santo. È a partire da una esistenza terrena vissuta in unione con Gesù che si può riconoscere la santità, quella che viene poi definita “post mortem”. Se la santità viene vissuta nel cammino terreno, essa è data nel passaggio al mondo definitivo di Dio, con la morte, in unione con la Pasqua di Cristo.
Anche per Giuseppe dobbiamo parlare di una Pasqua, quella vissuta al momento in cui Cristo fa il suo passaggio nel mondo ultraterreno. Ma non è neppure da trascurare quella che lui vive nel momento della sua morte, per la quale non abbiamo alcun documento.
E poi nel vangelo ci sono per quest’uomo altre esperienze di Pasqua, che, anche nella ristrettezza delle informazioni, non possiamo e non dobbiamo trascurare. C’è per Giuseppe la Pasqua come data celebrativa, come festività ebraica, a cui egli partecipava da buon ebreo, ma anche da “uomo giusto”, come viene qualificato nel Vangelo. Ed era giusto, non solo per la sua obbedienza alla legge, quanto piuttosto per la sua fedeltà a Dio. Per l’episodio di Gesù dodicenne, si dice che, come ogni anno, in occasione della Pasqua, i suoi genitori salivano a Gerusalemme, portando con sé il bambino, in quell’occasione già divenuto un fanciullo. Andare al tempio ogni festa di Pasqua è il segno della religiosità propria di quella famiglia, che non solo si adattava alle pratiche, ma, vivendole, si trovava essa stessa coinvolta, come capita lì, con la scomparsa di Gesù, proprio nel tempio. È evidente che l’evangelista Luca carica di un particolare valore simbolico questo episodio, presentando Gesù che scompare per tre giorni, come sarà in occasione della sua ultima Pasqua, e che poi riemerge, quasi presagio della futura risurrezione, mentre lo si scopre a insegnare nel tempio. Anche questo dettaglio – quello di riapparire mentre insegna – ha il suo forte valore, perché il nucleo fondamentale del suo insegnamento non è dato dai sermoni, dalla parabole, dai richiami alle leggi, ma da ciò che più gli preme, e cioè la sua passione e la sua croce. In effetti nel Vangelo momento della passione, sempre richiamato, come se fosse un preavviso o una predizione, è in realtà un insegnamento, a cui Gesù tiene, volendo lasciare ai suoi discepoli proprio questa lezione di vita. E anche in questa occasione, rivelandosi orientato alla sua missione, presente alla sua coscienza, anche grazie alla formazione dei suoi genitori, Gesù li coinvolge, perché essi stessi vivono quei tre giorni di scomparsa, immersi nell’angoscia. La parola usata e messa in bocca a Maria, la quale parla a nome di Giuseppe, anzi mettendolo prima di sé nel richiamo fatto a Gesù, dice proprio il tormento dell’animo, come una sofferenza che consuma interiormente. Così anche Giuseppe, insieme con la moglie, vive quei giorni oscuri con un dolore che opprime e che corrode l’animo, avvertendo in questo suo distacco l’inizio di quel successivo distanziamento, che porterà lui fuori della scena di questo mondo e il Figlio avviato alla sua “ora”, quella di passare da questo mondo al Padre. Sulla base di questo unico episodio della fanciullezza di Gesù, proprio perché vissuto in occasione della Pasqua, dobbiamo riconoscere che qui, nel suo nascondimento, il massaggio proprio del vangelo, la bella notizia da cogliere, è proprio nel segnalare che Gesù vive orientato ad essere lui stesso la Pasqua, in un sacrificio che non è più solo il culto nel tempio, ma diventa la sua stessa esistenza messa a disposizione, come è nella natura del vivere di Dio, come è nell’educazione avuta dai genitori e, in particolare, da colui che a buon motivo può essere considerato l’ombra sulla terra del Padre celeste.
Non c’è nessun elemento che ci possa aiutare in questa direzione: riconoscere nell’educazione di Gesù da parte di Giuseppe l’indicazione precisa di una impostazione della vita segnata dalla Passione. C’è solo da supporre che, sulla base di questo episodio, Gesù stesso ammette di essere tutto immerso nelle “cose” di suo Padre, a partire dai suoi genitori, che potevano dunque ben capire il senso di questo suo modo di fare in occasione di quella Pasqua. Se poi consideriamo il fatto che Giuseppe nella versione di Matteo appare sempre occupato dal sonno, il suo modo di penetrare nel mistero di Dio e dei suoi disegni, e il suo modo di impegnare la propria vita nel mettersi a disposizione con tutti i rischi che ne derivano, dobbiamo in effetti riconoscere che quest’uomo è tutto impostato sulla Pasqua, cioè sul sacrificio di sé, quasi uno sparire perché altri abbiano la vita …
COME GIUSEPPE VIVE LA “SUA” PASQUA
Di Giuseppe si dice sempre poco: gli stessi vangeli ne parlano solo con alcuni episodi e con scarne espressioni, che neppure lasciano spazio ad un giudizio su di lui, come se non fosse rilevante la sua persona, come se non fosse rilevante quello che lui ha fatto. E per di più non ci è neppure possibile conservare una parola di questo uomo, così discreto, così appartato, così silenzioso nella sua operatività.
Non c’è nulla che si possa conservare, dopo che, passando la scena di questo mondo, anche per lui viene a chiudersi il suo ciclo: non c’è una parola da lui detta e neppure una parola detta su di lui, che si possa mantenere come il suggello della sua esistenza, qualcosa che possa servire a dire la verità della sua esistenza. Ci dobbiamo limitare alle poche cose che di lui si dicono in occasione della nascita di Gesù, quando anche lui appare con un suo ruolo, seppur molto defilato. Poi, noi, su queste poche note, abbiamo cercato di costruire quanto di meglio si possa dire su quest’uomo, che si tende a illustrare con tante virtù umane, mai comunque segnalate dal testo sacro.
L’unica nota è quello di essere un uomo giusto, senza che comunque si possa ritenere tale secondo i nostri schemi, senza che questo possa essere un suo vanto da accampare, perché la sua giustizia è dovuta alla grazia di Dio che lo ha voluto così per essere in grado di recepire tutto quando gli sarebbe stato chiesto. Ed in effetti molto gli viene chiesto, senza averne, almeno apparentemente, nessun particolare vantaggio. Anzi la sua obbedienza al volere di Dio comporta per lui rischi, pericoli, fatiche, decisioni non facili, prospettive di vita che richiedevano continue adattabilità.
E quando tutto sembra divenire vita tranquilla, senza avventure in paesi lontani, senza la necessità di stare nascosto per evitare ulteriori guai, inizia quel lungo periodo di nascondimento, che per Giuseppe diventerà totale sparizione dalla scena. È come se sparisse nel nulla, come se non si volesse far sapere nulla di quest’uomo, che si è rivelato, quando era necessario e solo per lo stretto necessario.
Sappiamo solo che, se Gesù fu definito il figlio del carpentiere, Giuseppe è rimasto attaccato al suo mestiere nella casa e nella bottega di Nazareth.
Si possono solo far congetture, ma non è possibile sapere che cosa facesse esattamente e se questa attività sia stata per lui redditizia e sia stata raccolta poi dal figlio. Il fatto che Gesù venisse chiamato carpentiere e non più il figlio del falegname, significa che ad un certo punto l’attività deve essere passata nelle mani del figlio, forse anche per la scomparsa del padre, o forse ancora negli ultimi anni della vita di quest’ultimo, quando l’età avanzata non avrebbe più consentito un lavoro faticoso. Eppure Giuseppe è passato con l’immagine del lavoratore, ed è stato fatto il patrono di quanti svolgono una attività lavorativa, soprattutto se artigianale. La stessa celebrazione sua, rimasta fino ai nostri giorni al 19 marzo, è legata ad una festa romana che esaltava questa categoria sociale. Oggi si aggiunge un’altra memoria di quest’uomo, proprio per la sua caratteristica di lavoratore, in occasione del primo maggio, festa internazionale del lavoro.
Non si sa neppure quando sia morto, né, ovviamente, come. E tuttavia è stato fatto patrono proprio dei morenti, perché ci si immagina – ma sono solo le rappresentazioni iconografiche, del resto tardive, a mostrarlo sul letto di morte – attorniato dall’amorevole presenza e dalle cure di Maria, la sposa, e di Gesù, il Figlio, che tuttavia non farà mai parola di lui nella sua vita pubblica. Proprio su questo momento sembra opportuna qualche riflessione, nel tentativo di cogliere ciò che la fantasia e l’amorosa memoria di quanti lo onorano hanno cercato di ricostruire a proposito del transito da questa vita terrena, che potremmo definire la “sua Pasqua”, la sua partecipazione alla liberazione dagli inferi, quando nella sua discesa a quel mondo ultraterreno, secondo l’affermazione del Credo, Gesù ha fatto risalire quanti erano rinchiusi nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Ci dobbiamo affidare a racconti di vangeli apocrifi, di narratori, presi dalla devozione per lui, e alla iconografia molto popolare di pittori poco noti, che sono stati chiamati a raffigurare un quadro o una tela con la fisionomia di Giuseppe nell’attimo della sua morte.
Proprio per questo egli viene invocato nel momento della morte e viene invocato per i morenti nel loro passaggio da questo all’altro mondo: forse per questo motivo sono state pensate delle immagini per raffigurare questo momento. Forse sempre per questa ragione sono nate forme devozionali, che hanno richiesto la edificazione di altari dedicati a S. Giuseppe morente, così come recentemente sono pure sorte delle chiese con questo titolo. Evidentemente la pietà locale ha favorito queste espressioni e ha fatto crescere tra la gente un particolare rapporto con S. Giuseppe visto e considerato nella sua agonia.
NEI RACCONTI
GIUSEPPE MALATO
NEL ROMANZO DI JAN DOBRACZYNSKI
Non abbiamo alcuna segnalazione di malattia per Giuseppe e quindi neppure di una situazione come quella che egli potrebbe aver vissuto al termine della propria esistenza mortale. È la devozione popolare che ha immaginato Giuseppe, ormai divenuto vecchio, giungere al limitare della vita sul proprio letto di morte.
Si deve dunque supporre che egli sia venuto a mancare, ormai già carico di anni, con l’assistenza di Maria e di Gesù, ormai adulto. È l’immagine che prevale soprattutto a partire dal Seicento, quando vengono commissionate delle tele o dei quadri da collocare nelle chiese, in presenza di una devozione che vuole proprio Giuseppe descritto in tal modo. Forse anche l’aumento di casi di persone anziane che muoiono, dopo un periodo di degenza in casa, suggerisce di ricorrere a colui che viene considerato il patrono dei morenti. Lo è, se non altro perché al momento della morte ha goduto dell’assistenza di Maria e di Gesù, i quali vengono rappresentati accanto al suo letto, mentre egli lotta negli ultimi istanti.
Nel romanzo che esce dalla penna dello scrittore polacco Jan Dobraczynski (1910-1994) c’è una pagina che racconta di Giuseppe ammalato, assistito da Maria, mentre Gesù prosegue il lavoro che il padre non può ultimare e consegnare ai richiedenti. Giuseppe è tormentato dall’idea di dover morire senza aver esaurito il suo compito. Dal colloquio con la sposa vien fuori un uomo che si tormenta per i suoi errori nello svolgere la missione ricevuta da Dio. Maria lo incoraggia ad affrontare la vita, con tutti suoi risvolti, sapendo che sono in due a sorreggersi vicendevolmente.
Tornando dal colloquio col capo della sinagoga Giuseppe si sentì improvvisamente male. Già dal mattino lo disturbava una strana debolezza. Poi aveva improvvisamente avvertito un dolore acuto al petto e un senso di soffocazione. A stento era riuscito a salire fino in casa. Miriam lo aveva aiutato a sdraiarsi e si prendeva amorosamente cura di lui.
Soltanto dopo qualche giorno i dolori e il senso di sofferenza si calmarono. Non c’era neppure da pensare di riprendere il lavoro nella bottega. Venivano le persone a ritirare gli oggetti pronti, e Giuseppe con voce debole si scusava e spiegava perché non aveva potuto mantenere la scadenza. Era talmente avvezzo ad eseguire puntualmente tutte le ordinazioni, che sentiva il fatto di non aver osservato la scadenza come una dolorosa umiliazione. Per tutta la vita era stato fedele ad ogni promessa fatta, nelle questioni piccole o grandi e nei confronti di ciascuno. Questa serietà gli conquistava sempre l’ambiente, dovunque si trovasse.
Alcuni lavori più piccoli poteva eseguirli Gesù. Giuseppe dal letto osservava attentamente il Ragazzo chino sul bancone. Era indubbiamente capace di parecchie cose, era abile, gli piaceva lavorare il legno. Continuava però ad essere soltanto un Ragazzo. Soltanto tra un anno doveva ricevere bar mizwà, la maturità religiosa. Ma quanto tempo ancora sarebbe stato necessario, perché diventasse del tutto maturo per la vita?
Che accadrà se perderò le forze prima che Lui sappia lavorare per Sua madre e per Sé? Che ne sarà di loro, se morrò? Il pensiero della morte comparve all’improvviso. Non era vecchio, fino ad ora non si era mai ammalato. I membri della stirpe di Davide in genere vivevano a lungo. Forse che come Mosè – si domandò inattesamente Giuseppe – dopo aver condotto Israele dall’Egitto dovrei morire proprio alle soglie della Terra Promessa? Questo significa che non ho eseguito il compito che mi è stato affidato?
Giaceva col viso affondato nel giaciglio, sempre più oppresso dal gravame di quei pensieri, allorché udì sopra di sé la voce di Miriam:
“Giuseppe, ti ho portato del buon brodo di pollo. Devi berlo per rinforzarti. Questa malattia ti ha tolto completamente le forze”.
Si scosse, levò il capo. I suoi occhi incontrarono gli occhi di Miriam. Essa dovette scorgere nel suo sguardo l’ansia e la depressione.
“Di nuovo ti affliggi per qualcosa” disse con dolce rimprovero.
“Penso – disse – di aver eseguito male il compito che l’Altissimo mi ha affidato. E per questo Egli mi ha tolto le forze”.
“Per quale motivo tenti di indovinare i Suoi pensieri? – si sedette sul letto accanto a lui – Egli ha un suo modo particolare di parlare all’uomo. Che voglia appunto, quando manda la debolezza, che l’uomo tiri fuori da sé tutte le sue forze? Bevi quello che ti ho portato e scaccia da te i pensieri inutili”.
“Però, Miriam …”
“Scacciali! Te lo dico! – da molto tempo non sentiva tanta perentoria energia nella sua voce. – So chi te li invia. Lo sento … Oh, Giuseppe, tu però sai bene che i pericoli non sono finiti. Dobbiamo avere la forza di affrontarli”.
“Ce l’hai tu”.
“Entrambi ne abbiamo soltanto tanta quanta Egli vuole darcene. Una volta sorregge uno di noi, un’altra l’altro … E penso che quando ci sosteniamo reciprocamente, Egli allora si pone invisibile tra noi e aiuta il più debole tramite il più forte. Egli vuole tutto attraverso l’uomo. Bevi, te ne prego – gli porse la tazza – Perché ritieni di aver eseguito male il tuo compito?”.
“Non Gli ho ancora insegnato tante cose …”
“Gli hai insegnato molto. Che mai possiamo darGli di più noi, gente comune? Il nostro dovere è servirLo e, se occorre, sacrificare tutto per Lui … Forse è più importante: abbiamo noi imparato abbastanza da Lui?”
“Come ti è venuto in mente?”
“Lo guardo e mi pare che Egli ci insegni con la sua vita più di quanto noi non insegniamo a Lui. Noi chiediamo in continuazione. Egli non chiede …”
“Sono io a chiedere, non tu …”
“Anche io chiedo. Solo in modo diverso. Ma io cerco di non preoccuparmi. Egli mi ha scelto così come sono … Ricordiamocene, Giuseppe. C’è qualcuno che vuole che ci dimentichiamo di ciò. Che crediamo che non per grazia dell’Altissimo, ma per i nostri propri meriti siamo diventati i genitori di Gesù …”
“Io sono soltanto un’ombra … “
“Anche questo è lui a suggerirtelo. Non ascoltarlo! Ogni uomo è soltanto un’ombra. Ma l’Altissimo dà vita anche alle ombre”.
(JAN DOBRACZYNSKI, L’OMBRA DEL PADRE – IL ROMANZO DI GIUSEPPE – Morcelliana, 1980 – p. 340-343)
E’ molto interessante rilevare nel dialogo fra i due sposi il sostegno reciproco in un momento di particolare tensione: la malattia, che sembra essere mortale, crea in Giuseppe lo sconforto, perché egli ha come l’impressione di non aver compiuto tutto il lavoro che gli è stato affidato da Dio. Anzi, ha come la sensazione di non aver svolto totalmente la sua missione, e proprio per questo viene ora colpito dal male, sempre per quella visione che noi abbiamo di considerare il male come un castigo, come una sorta di punizione per qualche colpa, anche solo immaginata. In realtà Dio vuole metterci alla prova perché nelle condizioni di debolezza, noi abbiamo a far appello alle nostre forze, o, meglio ancora, a quello Spirito, che il Signore ci dà, proprio per reagire al meglio, persino nelle situazioni peggiori.
E ancora Giuseppe si lamenta perché ha l’impressione di non aver fatto abbastanza per l’educazione del Figlio. Maria gli obietta invece che semmai anche i genitori devono imparare qualcosa dal proprio figlio. Lei, forse, era memore dell’osservazione che Gesù stesso aveva fatto loro in occasione dell’episodio di Gerusalemme, quando essi avrebbero dovuto ben sapere della sua missione. In fondo, non solo nel caso di Gesù, anche i genitori devono imparare nel momento stesso in cui si mettono ad educare i propri figli. E d’altra parte la presenza dei genitori, anche ad essere significativa ed incisiva, deve di fatto risultare “sussidiario” all’agire di Dio. E questo lo devono fare per rispettare nella loro crescita quella libertà che consente loro di costruirsi in modo “responsabile”.
Così la malattia di Giuseppe, anche a portarlo, ma non in quel capitolo del romanzo, alla sua fine, diventa il momento rivelatore della sua persona e della sua missione in quella casa e in quella vicenda.
Il dialogo tra i due sposi, costruito dallo scrittore, diventa la riflessione che il lettore deve fare in certi “incroci” della vita, quando soprattutto la presenza di mali, di problemi, di sofferenze deve far maturare un vivere migliore, soprattutto perché esso diventa più conforme al disegno di Dio.
IL TRANSITO DI GIUSEPPE
NEL VANGELO APOCRIFO
La “Storia di Giuseppe il falegname” è un testo apocrifo conservatosi in lingua copta e in arabo ma inizialmente redatto forse in greco. È databile al VI secolo o ai secoli immediatamente successivi.
È l’unico vangelo apocrifo che ha come protagonista Giuseppe.
Il racconto della sua dipartita da questo mondo viene affidata a Gesù stesso, come se costui l’avesse raccontata ai suoi discepoli nel corso della sua missione. Qua e là ricorrono espressioni di preghiera, citazioni di salmi, rimandi alle Scritture, che rivelano un testo composto in un ambito religioso e per ravvivare lo spirito religioso …
La sua intera vita fu di centoundici anni e la sua partenza da questo mondo avvenne il ventisei del mese Abib, che risponde al mese Ab.
Possa la sua preghiera preservarci! Amen .
E, in verità, è stato il nostro Signore Gesù Cristo stesso che ha raccontato questa storia ai Suoi santi discepoli
sul Monte degli Ulivi, circa il lavoro di Giuseppe e la fine dei suoi giorni. E i santi apostoli hanno conservato questa conversazione e l’hanno lasciata scritta nella biblioteca di Gerusalemme.
Possano le loro preghiere preservarci! Amen …
Avvenne che la morte di quel vecchio, il pio Giuseppe, e la sua partenza da questo mondo, si stavano avvicinando, come accade ad altri uomini che devono la loro origine a questa terra.
E mentre il suo corpo stava per dissolversi, un angelo del Signore lo informò che la sua morte era ormai vicina. Perciò fu preso da paura e da grandi perplessità.
Allora si levò e andò a Gerusalemme; ed entrato nel tempio del Signore, vi versò le sue preghiere davanti al santuario, e disse: “O Dio! Autore di ogni consolazione, Dio di ogni compassione e Signore dell’intera razza umana; Dio della mia anima, corpo e spirito; con suppliche ti riverisco, Signore e mio Dio. Se ora i miei giorni sono finiti e si avvicina il tempo in cui devo lasciare questo mondo, mandami, ti supplico, il grande Michele, il principe dei tuoi santi angeli: lascia che rimanga con me, affinché la mia anima disgraziata possa partire da questo corpo afflitto senza problemi, senza terrore e impazienza”.
In seguito, quando tornò a casa sua nella città di Nazareth, fu preso da una malattia e dovette tenersi a letto. E fu in questo momento che morì, secondo il destino di tutta l’umanità. Poiché questa malattia era molto grave su di lui, e non era mai stato malato, come era adesso, dal giorno della sua nascita. E così sicuramente piacque a Cristo ordinare il destino del giusto Giuseppe.
Qui inizia il testo come viene immaginato detto dal Signore stesso, che racconta ai suoi discepoli quanto è avvenuto in occasione del transito di Giuseppe da questo mondo.
Ha vissuto quarant’anni da celibe; da allora in poi sua moglie rimase sotto la sua cura per quarantanove anni, e poi morì. E un anno dopo la sua morte, mia madre, la beata Maria, gli fu affidata dai sacerdoti, che avrebbe dovuto tenerla fino al momento del suo matrimonio. Ha trascorso due anni a casa sua; e nel terzo anno della sua permanenza con Giuseppe, nel quindicesimo anno della sua età, mi ha portato alla luce sulla terra da un mistero che nessuna creatura può penetrare o comprendere, tranne me, e il mio Padre e lo Spirito Santo che costituiscono una sola essenza con me stesso.
L’intera età di mio padre, quindi, quel vecchio giusto, era di centoundici anni: il Padre mio che è nei cieli aveva così decretato. E il giorno in cui la sua anima lasciò il corpo era il ventisei del mese di Abib …
La mia incontaminata madre Maria, quindi, andò ed entrò nel luogo dove si trovava Giuseppe. E io ero seduto ai suoi piedi a guardarlo, perché i segni della morte apparivano già nel suo volto. E quel vecchio benedetto alzò la testa e tenne gli occhi fissi sul mio viso; ma non aveva il potere di parlarmi, a causa dell’agonia della morte, che lo teneva in pugno. Ma continuava a raccogliere molti sospiri. E gli ho tenuto le mani per un’ora intera; e si voltò verso di me e mi fece segno di non lasciarlo. Da allora in poi ho messo la mia mano sul suo petto e ho percepito la sua anima ora vicino alla sua gola, preparandosi a partire dal suo abitacolo.
E quando la mia vergine madre mi ha visto toccare il suo corpo, ha anche toccato i suoi piedi. E trovandoli già morti e privi di calore, mi disse: “O mio amato figlio, certo che i suoi piedi stanno già iniziando a irrigidirsi e sono freddi come la neve”.
Di conseguenza, chiamò i suoi figli e le sue figlie e disse loro: “Venite, quanti siete tra voi, e andate da vostro padre; perché sicuramente ora è in punto di morte”.
Ora il suo corpo giaceva prostrato e senza sangue; pertanto stesi la mia mano, e gli misi a destra gli occhi e gli chiusi la bocca, e dissi alla vergine Maria: “O madre mia, dov’è l’abilità che ha mostrato in tutto il tempo che ha vissuto in questo mondo? È perito, come se non fosse mai esistito”. E quando i suoi figli mi sentirono parlare con mia madre, la pura vergine, seppero che aveva già esalato l’ultimo respiro, e versarono lacrime e si lamentarono. Ma io dissi loro: “Certamente la morte di vostro padre non è la morte, ma la vita eterna: perché è stato liberato dai guai di questa vita ed è passato al riposo perpetuo ed eterno”. Quando udirono queste parole, si stracciarono i vestiti e piansero.
È indubbiamente affascinante la modalità narrativa di questo racconto, nel quale Giuseppe appare strettamente congiunto al Figlio che lo aiuta nel momento della morte. Evidentemente l’autore vuole che il lettore impari Ad assumere il medesimo spirito del morente, perché nell’atto di lasciare questo mondo si appoggi in tutto al Signore Gesù che presenta la morte come un fatto naturale, ma soprattutto come il passaggio ad una esistenza migliore. L’invito fatto ai suoi figli, avuti nel precedente matrimonio, vuole diventare un insegnamento a chi legge e a chi ascolta, perché superino il dramma della morte, affidandosi alla grazia del Signore, come ha fatto Giuseppe.
NELLA ICONOGRAFIA
GIULIO CESARE PROCACCINI (1574-1625)
Si tratta di un artista, proveniente da Bologna, ma in realtà vissuto e formato in Milano, che viene sostenuto dal Card. Federigo Borromeo. È anche autore di alcune tele dei famosi “Quadroni di S. Carlo”, esposti in Duomo in occasione della festa del santo a novembre. Chiamato a lavorare anche per la chiesa milanese dedicata a S. Giuseppe, propone alcuni episodi della vita del santo compreso quello della sua morte.
Al capezzale di Giuseppe, con la bocca e gli occhi semiaperti e le mani giunte in atto di preghiera, vi sono, inchinati su di lui, Gesù e Maria con i volti mesti. Gesù sta sostenendo con la mano destra le mani del padre terreno, quasi a unirsi con lui nella preghiera rivolta al Padre celeste che sovrasta la scena con le braccia aperte ad accogliere chi sta morendo mentre confida in lui. La prospettiva, che viene data alla scena, consente di vedere l’evento dalla posizione che hanno i devoti nel contemplare la scena: sembra un progressivo elevarsi verso colui che è l’Altissimo, seguendo i santi, davvero monumentali, posti di schiena, nella loro slanciata figura che invita a guardare sempre più in su.
Al centro nel suo vestito rosso sta un santo che tiene appoggiato al corpo un libro con la mano sinistra, mentre al suo fianco si possono riconoscere i santi milanesi: prostrato in ginocchio davanti al Signore Gesù con l’atto di richiamarlo mediante la mano supplichevole, si può riconoscere da una parte S. Ambrogio che ha la mitria deposta in terra, mentre sulle spalle ha un piviale pesante e tutto dorato. Sulla destra invece, sempre ammantato nel suo piviale, si può riconoscere S. Carlo, che nel 1610 era stato proclamato santo. Potremmo dire che qui è la Chiesa milanese ad essere rappresentata in questa chiesa di Milano che vuole onorare S. Giuseppe.
Costui, ovviamente, è al centro della scena, in una posizione che lo fa essere elevato dal terreno e, per quanto coricato nel suo letto di morte, già collocato ad elevarsi verso il cielo, mentre chi dovrebbe guardare questa scena, e ne è di fatto all’esterno, si trova ancora immerso nella sua “valle di lacrime”, con la vicinanza di Gesù e di Maria. Costoro sono afflitti per la morte di Giuseppe, ma sono, in tal modo, addolorati e partecipi della mortalità di tanti che devono fare questo medesimo passo. Così, chiunque si può immedesimare nella scena e avvertire che al momento del trapasso c’è pur sempre l’assistenza amorosa di Gesù e di Maria e nel contempo l’intercessione di una schiera di santi: se di tre si vedono i volti di scorcio, di altri tre si vedono i soli visi addolorati e imploranti nei confronti del Padre che dall’alto si protende con la sua benevola accoglienza, dentro lo svolazzare di angeli che lo sostengono nel suo apparire e quasi affiorare alla luce di questo mondo. Essa invece sembra spegnersi proprio sul volto di Giuseppe, per andare a illuminare i volti della sposa e del Figlio e soprattutto vanno notate le mani di costoro, molto vicine a quelle del morente, come per significare la loro totale partecipazione a quel momento.
Bisogna riconoscere che l’artista , pur nello sfoggio di pose e di paludamenti secondo gli stilemi dell’arte del suo tempo, che amavano riempire lo spazio con affollamenti e soprattutto drammatizzando la scena a partire dalle forti tonalità di colore e di chiaroscuri, ha ben espresso quanto la devozione del tempo voleva mettere in luce. In un mondo dominato dalle tenebre la luce viene dalla grazia divina che sola può far uscire dall’ombra di morte in cui tutti siamo immersi.
Il morente, che qui rappresenta tutti i mortali, sembra svanire in quel turbinio di figure gigantesche che si affollano attorno per elevare fino a Dio chi non avrebbe neppure la forza di risollevarsi. Ciò che vale per Giuseppe morente, vale anche per i tanti devoti che davanti a questa scena sono invitati a pensare al proprio transito, nella speranza di avere attorno nella preghiera di intercessione i soli che possono presentarci a Dio, perché già sono presenti a Lui.
Il dolore, vivo e sincero, senza forzature, si comunica a chi contempla, ma nello stesso tempo costoro possono trovare in questa visione la speranza di poter essere elevati a Dio e di trovare lì l’accoglienza a braccia aperte …
GIOVANNI BATTISTA BEINASCHI (1636-1688)
Piemontese di origine, il pittore ha di fatto operato prima a Roma e nella maturità a Napoli, dove è morto. Siamo nel pieno barocco e l’opera esprime uno stilema che potremmo definire teatrale: abbiamo le pose, anche nei gesti particolarmente marcati, che tendono a sottolineare una certa mestizia, senza che si arrivi al dramma. C’è l’essenziale della famiglia, senza altri personaggi ad invadere e a riempire la scena. Gli angeli che fanno da cornice servono a suggerire che ormai siamo in presenza degli ultimi istanti di vita di S. Giuseppe, il cui torso nudo, messo in luce, lascia intendere che ormai si sta spogliando del suo uomo vecchio, per rivestire quello luminoso dell’al di là. La posizione con cui è collocato nella scena è tale da non rivelarci il suo sguardo, proprio perché tutta la sua posa dice l’anelito verso l’alto, dove egli aspira; nello stesso tempo chi guarda potrebbe identificarsi con lui per assumere la medesima posizione che apre la visione celeste. Maria e Gesù, seduti accanto, rivolgono il loro sguardo al morente, senza lo strazio di una dolorosa separazione. Gesù sembra benedire il padre e con il gesto parlargli per affidarlo al Padre celeste. Maria sostiene la testa tristemente, senza essere comunque affranta. Sta dolcemente assistendo Giuseppe nel suo trapasso, osservando e meditando, come è nella immagine evangelica, dove tutti gli avvenimenti passano nel suo cuore, senza conoscere particolari turbamenti.
La scena induce ad una contemplazione beatificante: pur sapendo di essere in presenza della morte, non c’è assolutamente lo strazio di dover passare all’altra vita e di dover vivere il momento della desolante separazione.
I personaggi vivono quella situazione con totale abbandono, come in un passaggio ritenuto naturale.
E anche chi si sofferma in presenza di questa immagine deve avvertire la medesima sensazione di pace e di beatificante rilassamento, che fa mettere tutto e tutti nelle mani di Dio, nel suo disegno d’amore. Appare evidente l’intento devozionale per aiutare chi medita e chi prega ad assumere l’atteggiamento del morente che si abbandona a Dio e il comportamento dei due che assistono sereni e non disperati, anche a dover vivere un momento così triste.
Non è dunque una scena teatrale altamente drammatica, come ci si potrebbe aspettare in considerazione dell’agonia di Giuseppe, ma è l’indicazione ad assumere la medesima distensione nello Spirito in presenza di un difficile momento da vivere bene, da vivere rimettendosi totalmente al volere di Dio.
FRANCESCO POLAZZO (1683-1753)
La “Morte di san Giuseppe” è un dipinto a olio su tela di Francesco Polazzo,
databile al 1738 e conservato nella collegiata dei Santi Nazaro e Celso di Brescia.
Il pittore è di origine veneziana, con opere che si trovano anche a Bergamo e Brescia.
Qui, superata l’impostazione secentesca dei dipinti scuri con sciabolate di luce, prevale un certo gusto cromatico con l’accostamento di vari colori per offrire sempre una scena dolorosa, ma soprattutto edificante. Ed è tale non solo perché il tutto viene collocato nel contorno di angeli, quelli prostrati a terra, come se volessero sollevare Giuseppe al cielo, e quelli che stanno in un cielo aperto ad accogliere chi tra breve si eleverà per salire nell’orizzonte di luce. È soprattutto una scena che invita a salire verso l’alto, con Maria e Gesù che stanno ai lati del letto del morente, indicando, l’uno con la mano elevata al cielo, l’altra con lo sguardo rapito in estasi, la meta a cui deve aspirare il morente, l’unico in posizione orizzontale. Anche lui però ha lo sguardo ormai rivolto in alto da dove piove la luce divina che lo investe. La coperta gialla che lo riveste sembra già la luce che lo sta fasciando per immergerlo nella luce di Dio. Anche il giaciglio sul quale sta morendo è messo su un ripiano, quasi a voler già elevare chi vi si trova …
È evidente anche in questo caso l’intento devozionale della tela, forse anche per gli affiliati di un gruppo di preghiera e di azione caritativa in favore dei morenti. Solitamente negli altari laterali delle chiese si trovavano gruppi di fedeli per vivere momenti di preghiera, di riflessione e di impegno caritativo, legati ad un santo o ad una particolare devozione, come potrebbe essere anche in questo caso, tenuto conto che siamo in una città. La devozione a S. Giuseppe morente, che poi diventa il S. Giuseppe dei morenti, doveva servire alla cura di questi momenti delicati e della situazioni umane più problematiche per aiutare a gestire meglio una difficoltà che si avvertiva sempre molto pesante. Questa tela, luminosa e soprattutto con una scena che invoglia a puntare lo sguardo in alto e nella luce, doveva servire ad aiutare i devoti in una preghiera più fiduciosa, ma anche in un’opera caritativa improntata a confortare chi doveva affrontare l’estremo passaggio della vita.
SPARISCE COME UN’OMBRA … L’OMBRA DEL PADRE
L’immagine di Giuseppe morente trova spazio soprattutto nella devozione popolare: se i testi sacri tacciono, e nei diversi documenti della Chiesa, anche nel magistero degli ultimi Papi, non se ne fa particolare menzione, se non di sfuggita, presso tanta gente è invece abbastanza facile evocare la figura di Giuseppe sul letto di morte e invocare, soprattutto per i moribondi, l’assistenza del santo in questo passaggio così delicato.
Eppure, di questi tempi, si fa anche fatica a trattare l’argomento, a dare rilievo a questa fisionomia di Giuseppe, perché si vorrebbe non pensare alla morte, come se si trattasse di un argomento molesto, causa di tristezza e di angoscia. Del resto anche lui, Giuseppe, non compare da nessuna parte in un frangente simile, come se anche su di lui si sia voluto stendere un velo, per tacere anche il momento nel quale, più silenzioso che mai, si ritira dalla scena del mondo. Non ha mai detto una parola; non è mai stata spesa una parola in più per dire di lui e del suo ruolo nella vicenda umana di Gesù e nella famiglia di Nazareth; quando poi arriva il momento di sparire, tutto tace, tutti tacciono.
Ma la sua maniera di vivere la Pasqua ebraica, la sua maniera di vivere l’estremo passaggio, secondo quello che ci si immagina, la sua maniera di morire, sparendo senza lasciare traccia, sono tasselli che ci rivelano la verità di quest’uomo.
Accompagnando Gesù dodicenne in quella Pasqua, prefigurazione della vera Pasqua, Giuseppe rivela di essere veramente il custode, che introduce Gesù nel luogo del sacrificio, perché lì si manifesti in anteprima il suo insegnamento di vita: senza nulla dire, perché parla Maria, riesce a intuire, come è solito fare con i suoi sogni, che c’è ben altro lavoro per quel “suo” figlio, ed è la missione vissuta nello sparire, un po’ come un morire, per poi risorgere.
Non c’è nessuno a dire una parola, quando Giuseppe esce di scena: si rivela anche lui come il seme che deve sparire sotto terra, perché lì, marcendo e dissolvendosi, possa dare frutto.
Se così dice Gesù di sé, potremmo dire la stessa cosa di suo padre, anche a non averlo generato dal suo seme, ma divenuto per lui e come lui un seme da gettare. Lui, però, ha capito la lezione di vita, quella cioè di mettersi dentro il vivere, sparendo, perché il proprio contributo di vita continui in altri che ne raccolgono il testimone.
E anche ora, senza avere risalto, come meriterebbe per il compito che si è assunto, Giuseppe continua ad essere “l’ombra del Padre”, colui che deve richiamare la paternità di Dio, la sola che deve emergere per Gesù e per noi, in modo tale che nel suo venir meno appaia ciò che veramente conta nel vivere, e cioè la mano paterna di Dio, il volto paterno di Dio, il cuore paterno di Dio, che ci fa sentire tutti appartenenti ad una sola famiglia, come ci vuol vedere lo stesso Giuseppe, lui pure uno come noi, anche ad essere stato per un po’ … l’ombra del Padre!
Preghiera
Sei stato convocato, Giuseppe, ad essere “ombra del Padre”,
e tu hai fedelmente assolto alla tua missione in silenzio e in modo operoso.
Anche nei momenti duri e drammatici, sei rimasto nell’ombra,
muovendoti senza farti notare, nella notte, con molta vigilanza e tanto amore.
E quando avresti potuto raccogliere i frutti di un delicato lavoro,
sei sparito ancora nell’ombra,
quella del nascondimento nella casa di Nazareth,
quella della quotidianità senza clamori e visibilità,
quella del lasciare spazio al Figlio, che cresceva in età, sapienza e grazia.
Poi arriva la chiamata a mettersi in disparte, per lasciare che lui viva la sua missione,
arriva il momento di rendere ragione della propria fede e della propria speranza,
perché Dio sviluppi il suo disegno, quello che è stato intuito e comunicato,
perché altri lo portino a buon fine.
Così ci insegni, carissimo Giuseppe, come vivendo nell’ombra il nostro compito,
noi possiamo favorire il disegno di Dio, perché si compia,
perché si realizzi quel Regno, che solo Dio costruisce,
non senza il nostro agire, fedele al suo.
Aiutaci ad essere come te, nell’ombra,
perché appaia il sole di giustizia, la vita vera, la gioia senza fine.
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