LECTURA DANTIS IN LIMINE VITAE
La celebrazione centenaria in corso deve far pensare soprattutto alla morte di Dante. È indubbiamente un evento doloroso, e, certamente, anche inaspettato, se non altro perché avviene quando il poeta, ormai famoso per la sua grande opera, avrebbe potuto godere forse qualcosa di questa sua fama. Se il cammino era posto “nel mezzo” a 35 anni, e questi suoi anni cadevano mirabilmente nel 1300, anno giubilare, ma soprattutto anno carico nei simbolismi numerici del suo totale riferimento a Dio, la vita sua si sarebbe dovuta compiere a 70 anni. Ed invece Dante sparisce a 56 anni con un tracollo che avviene in poco tempo, senza che ci siano avvisaglie. Ma questo suo inabissarsi nella morte, che tutto vorrebbe assorbire e sfiorire, diventa in realtà l’ingresso in un mondo che gli dà giustamente fama ed eternità. È quello che lui stesso avverte di meritare, pur in mezzo all’amarezza di un esilio che diventa di giorno in giorno sempre più duro e senza sbocchi. Mentre la sua situazione di esiliato si incancrenisce e addirittura si fa senza speranza con la condanna a morte, non solo sua, ma anche dei figli, dopo la battaglia di Montecatini (1315), oltre a cercare la sua pace fra chi lo ammira e lo desidera, si dedica con tutte le sue forze ad ultimare la grande opera, ormai salendo sempre più fino all’ultimo cielo. C’è dunque anche in questo suo cammino come un’aspirazione alla pace eterna, senza per questo che egli si possa augurare la morte o possa cercarla. Semmai è a Firenze che si insiste nel volere la condanna alla pena capitale. Egli piuttosto aspira al riconoscimento pubblico della sua grandezza di poeta e forse anche per questo cerca chi lo possa comprendere e sostenere in questa sua aspirazione, accogliendo l’invito del Signore di Ravenna, che ha pure interessi e sensibilità per la poesia.
Dante esprime con chiarezza di essere consapevole che la sua opera gli possa meritare il “cappello” di poeta, e si augura sempre che la sua incoronazione avvenga a Firenze …
Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte. (PARADISO, XXV,1-12)
Aspira ad una sorta di consacrazione terrena, quella che gli dovrebbe aprire le porte della sua città per essere riconosciuto grande nel battistero fiorentino, dove invece le autorità vogliono celebrare la sua umiliazione, riammettendolo dopo una processione in cui gli amnistiati ottengono il pubblico perdono, purché pentiti e dichiarati tali.
Dove è difficile non cogliere un rovesciamento sarcastico dell’offerta pelosa che gli era stata fatta, di rientrare a Firenze facendosi offrire come penitente in San Giovanni. (Barbero, p. 246)
Ovviamente lui non ci sta e, sdegnoso, rifiuta, nella vana speranza che la situazione si ribalti a suo favore …
Perché nell’estate 1315, fra lo sconcerto dei fiorentini atterriti, che si riflette ancora, tanti anni dopo, nei ricordi di Giovanni Villani, “Uguccione da Faggiuola co la forza delle masnade de’ Tedeschi, signore al tutto di Pisa e di Lucca, trionfando per tutta Toscana”, mise l’assedio a Montecatini; i fiorentini al comando del principe di Taranto, fratello del re Roberto, radunarono un poderoso esercito di 3200 cavalieri e marciarono su Montecatini, dove Uguccione inflisse loro il 29 agosto 1315 la più catastrofica delle sconfitte. Era uno di quei disastri dopo i quali un regime poteva collassare, e non stupirebbe che Dante lo avesse sperato; invece il regime popolare e nero resse. I termini dell’amnistia concessa in primavera vennero definitivamente chiusi a ottobre, e il 6 novembre Dante e i figli vennero compresi in una delle lunghe liste di banditi, “ghibellinos et rebelles”, condannati a morte per non essersi presentati. A Dante, che stava completando il Purgatorio, non restò che evocare con trista soddisfazione per bocca di Forese Donati, le urla delle donne fiorentine i cui mariti, figli o fratelli erano stati uccisi a Montecatini. (Barbero, p. 246-7)
Se da una parte Dante si rivela sempre più ombroso (e tanti episodi, narrati in seguito come battute che mitizzano il personaggio, stanno a dimostrare questo suo atteggiamento indurito), dall’altra si deve riconoscere che, forse anche perché s’inoltra nel Paradiso, egli pensa ad altro e costruisce il suo percorso che lo conduce sempre più verso l’orizzonte eterno.
Non si vede affatto un incupirsi che lo rende scontroso perché ha coscienza di aver esaurito tutte le sue risorse umane e non ha altra prospettiva che il morire. Se affiora sempre più un carattere indurito, lo si deve indubbiamente ad un vivere quanto mai precario e amaro. Ma tutto questo non gli impedisce, come si avverte leggendo la cantica del Paradiso, di vedere una luce che si intensifica, di udire una musica che si fa più armoniosa, di provare una gioia e una beatitudine davvero paradisiaca. Così gli ultimi anni di sua vita sono sempre all’insegna del doloroso distacco da Firenze, aggravato dal fatto che non gli si riconosce la sua assoluta innocenza, e dalla impossibilità di trovare una “stabilitas loci”, mentre intorno le questioni politiche, lungi dal chiarirsi, si aggrovigliano sempre più. Nello stesso tempo lo assorbe il lavoro della composizione della terza cantica, che gli apre la prospettiva del Paradiso, quasi a trovare in esso quella pace e quella beatitudine che il vivere del mondo non gli ha mai consentito di raggiungere. Così, mentre procede il suo cammino, mai pacificato, mai stabile, proprio questa aspirazione sempre coltivata, soprattutto con la “donna – angelo”, lo fa entrare sempre più nel mondo divino dove il mondo umano trova la sua piena realizzazione. Questa sua visione dipende certamente anche dalla sua fede cristiana; ma qui è ben oltre uno schema religioso, perché egli non rappresenta solo un certo tipo di mondo e un certo momento storico, ma ciò che l’uomo di ogni tempo e di ogni cultura può e deve cercare di raggiungere.
Se nel mezzo del cammino della vita si ritrova in una selva oscura (e ciò è dovuto al suo smarrimento a causa dei mali che sono propri del suo tempo e del suo mondo), ora, “in limine vitae” può riconoscere che il compimento dell’esistenza non è solo raggiunto con il ritorno a Firenze, non è solo ottenuto con il recupero di ciò che è stato o che ha perso, ma è soprattutto conquistato sublimandosi per entrare in un mondo che non è più quello terreno. Proprio nella composizione della cantica del Paradiso si scopre questo suo sgusciare da un mondo mortificato e mortificante, per lasciarsi assorbire da un mondo nuovo , dove conosce la sua piena realizzazione. Una simile lettura dei suoi ultimi anni di vita e di produzione non è solo scoperta di ciò che egli ha fatto, tenuto conto anche del mito che è stato costruito attorno a lui circa quegli anni e proprio in quegli anni. Se al cronista e allo storico interessa raccogliere i dati e le date dei suoi ultimi trascorsi, a chi vuol comprendere meglio la figura del poeta, proprio questi ultimi anni, anche senza la consapevolezza che essi siano per lui gli ultimi, fanno emergere in tutta la sua pienezza l’umanità di Dante e nel contempo anche la sua lezione di vita, la cui considerazione non è solo un lavoro per esperti o per nostalgici di quel periodo, per filologi o per cultori di storia in un’epoca di passaggio. E allora vale la pena di addentrarci in quel periodo che in genere sfugge alla considerazione che se ne fa nella scuola, dove interessa la sua produzione, più ancora che la sua “anima”, il suo “spirito”. Sembra quasi che a scuola il suo tramonto terreno non sia neppur degno di una cronaca più attenta e meticolosa. Qui invece, probabilmente si comprende ancor meglio l’eredità umana e culturale che ha lasciato Dante.
LA MORTE DI DANTE
Come leggere in effetti la sua morte? In genere questo momento è solo un dato di cronaca, che può avere un impatto forte nella misura in cui succede qualcosa di imprevisto o di imprevedibile. Nel caso di Dante in effetti non sembrava possibile che la morte fosse prevedibile nel corso del tempo in cui viveva a Ravenna, una delle tante tappe del suo inesausto percorso in cerca di approdo e di pace. Dopo le speranze coltivate con l’apparire di Arrigo VII e soprattutto le delusioni sopraggiunte in occasione della sua scomparsa nell’agosto del 1314, non c’è requie per il poeta, che i racconti popolari, costruiti in quel periodo e su quel periodo, vogliono vedere presente in tante località, anche in quelle che appaiono improbabili.
La storia di Dante è una lunga catena di “non si sa”. Il corso del suo esilio assomiglia a quello di un fiume carsico, con brevi apparizioni e tortuosi nascondimenti. Non si sa perché abbia lasciato la corte di Cangrande. Irritazione per i modi del principe? Preoccupazione di natura spirituale per la scomunica piombata sullo Scaligero? Speranza di ottenere a Ravenna una cattedra d’insegnamento? Non si sa quanti anni sia rimasto a Verona né quando se ne sia allontanato. Non si sa … Non si sa … Non si sa … (Marchi, p. 153)
Ci sono dunque degli scrupoli religiosi che spingono Dante e lasciare Verona? Alcuni credono di sì. Ma Dante non era un uomo da lasciarsi influenzare così, anche perché non aveva e non poteva avere stima per i papi di Avignone, pur rispettandoli sempre, come fa anche con Bonifacio VIII, quando afferma che la violenza fatta nei confronti della sua persona è il rinnovamento della passione stessa di Cristo, visto che il Papa né è sempre il vicario, anche a non esserne degno. Qualcuno comunque immagina che, sentendosi vecchio – ma lo era poi davvero, anche ad aver superato la metà “canonica” degli anni di vita? –, egli abbia voluto pensare ad una sistemazione più serena e più rasserenante. Non è improbabile che la scelta di Ravenna dipenda dal suo “signore”, Guido da Polenta, che coltivava la poesia.
Il Signore di Ravenna era anche lui un poeta, autore di canzoni, alcune delle quali sono conservate; e può darsi che abbia giudicato da poeta quei canti in cui comparivano la sua città e la sua famiglia – a partire dal terzo dell’Inferno, di cui era protagonista sua zia Francesca, assassinata dal marito quando lui era bambino. Che cos’era Ravenna a quell’epoca? Innanzitutto era una grande capitale ecclesiastica, sede di un arcivescovo tra i più ricchi d’Italia e di ricchissime abbazie come San Vitale e sant’Apollinare in Classe. L’arcivescovo era il milanese Rinaldo da Concorezzo, a suo tempo influente collaboratore di Bonifacio VIII, per conto del quale s’era quasi fatto ammazzare quando era rettore di Romagna … (Barbero, p. 259)
A quanto risulta dai dati, Dante non si è fermato molto a Ravenna, perché giungendoci all’inizio del 1321, vi trova la morte al rientro dalla sua ambasceria presso il governo di Venezia a favore del Signore di Ravenna, che egli voleva servire. I contenziosi sempre aperti fra le due città riguardavano i confini e la pesca nell’Adriatico: non sembra che l’ambasceria di Dante abbia fruttato qualche interesse per il suo Signore. Di fatto il passaggio fra le acque paludose di Comacchio è stato per lui letale. Secondo la datazione dell’epoca Dante muore la sera del 13 settembre; ma era già iniziata, con i Vesperi, la festa dell’Esaltazione della S. Croce del 14 settembre.
Durante il ritorno il poeta si ammalò, o si aggravarono i sintomi d’una malattia già latente. Il viaggio durava tre giorni. Il primo in barca, da Venezia a Chioggia attraverso la laguna, poi per via di terra fino a Loreo. Il secondo giorno, da Loreo a Pomposa, dove i viandanti sostavano a pregare e a rifocillarsi nell’abbazia benedettina. Il terzo, da Pomposa a Ravenna, in una zona infestata dalla malaria. La fibra di Dante, provata dagli stenti dell’esilio, indebolita dal lavoro intellettuale, fiaccata dai disagi d’un viaggio tra paludi malsane, sotto il sole d’agosto, non resistette all’attacco del male e il poeta si prese le febbri. A Ravenna si mise a letto, circondato dalle cure della famiglia finalmente riunita, eccettuata sempre la moglie. La figlia Beatrice fu l’angelo consolatore del divino poeta morente. (Marchi, p. 163)
La notizia della malattia diffuse in città un’accorata apprensione. Tutta la Ravenna colta, giudici e notai, amici ed estimatori, la gente minuta, anonima, seguivano con trepidazione l’evolversi della malattia ogni giorno più grave, mentre Firenze persisteva nel suo silenzio ostile … Le sue condizioni peggioravano inesorabilmente, sotto gli occhi rassegnati dei medici. Negli intervalli lasciati liberi dalla minacciosa situazione politica, Guido accorreva al capezzale del malato, che serenamente si spegneva … La sera del tredici settembre incominciò l’agonia … Spirò nella notte del quattordici . (Marchi, p. 164-5)
Sappiamo ben poco di quanto era successo in quei frangenti, nonostante la fama del personaggio fosse già notevole. La maggior preoccupazione di chi gli stava attorno era di raccogliere “le sudate carte” del suo lavoro, perché – si dice – mancavano all’appello gli ultimi canti del Paradiso.
Boccaccio racconta che subito dopo la morte del padre i figli si misero a cercare fra le sue carte gli ultimi tredici canti del Paradiso, non ancora pubblicati; non trovandoli, per la disperazione si erano quasi lasciati convincere dagli amici a completare loro stessi il poema, dato che entrambi sapevano fare versi. Chissà che cosa ne sarebbe venuto fuori! Poi, otto mesi dopo la morte di Dante, Iacopo, “il quale in ciò era molto più che l’altro fervente”, vide in sogno il padre che lo condusse nella propria camera e gli mostrò un ripostiglio segreto. Iacopo si sarebbe precipitato a casa dell’amico di Dante, ser Piero Giardini, raccontandogli tutto, poi insieme avrebbero ispezionato la stanza e scoperto il nascondiglio, dove trovarono un fascio di carte “per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari più state vi fossero”; ripulite dalla muffa riconobbero i canti tanto cercati. (Barbero, p. 266)
Guido Novello aveva predisposto una cerimonia pubblica. Subito dopo il cadavere veniva “seppellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosofo”. Lo annotava un cronista, confermato poi da Boccaccio, il quale aggiungeva che Guido aveva fatto “adornare il morto corpo di ornamenti poetici sopra un funebre letto”. La chiesa della tumulazione – “in un arca lapidea” – era quella di San Piero Maggiore. Usciti dalla chiesa, quanti avevano partecipato al rito tornarono alla casa in cui Dante aveva abitato. Guido vi tenne “uno ornato e lungo sermone”. Si sapeva che in quella casa, nascosti in qualche angolo, dovevano trovarsi i canti del Paradiso ai quali Dante aveva lavorato negli ultimi tempi; ma non si sapeva dove cercarli, e d’altronde non si era nemmeno sicuri che la cantica fosse stata completata. Mancavano tredici canti alla fine. (Altomonte, p. 388)
Il ritrovamento di quelle carte sembra un aneddoto di … risurrezione! Come se con questo disseppellimento dalla muffa ritornasse in vita colui che proprio nel suo cammino terreno aveva cercato nel cammino dell’oltretomba di “eternarsi”. Proprio da questo suo morire un po’ nascostamente, senza alcuna connessione con eventi “gloriosi” che gli dessero fama, comincia la sua fama.
L’ETERNARSI DI DANTE
Naturalmente qui non interessa la questione della salvezza eterna del poeta: non compete a noi “spedirlo” in uno dei regni dell’oltretomba, dove lui dice di essere stato con il suo poema, dove lui ha collocato tanti personaggi del suo tempo, e non solo, secondo suoi personalissimi criteri di ordine morale.
Qui si dovrebbe piuttosto considerare la fama che segue alla sua morte e che lo fa essere poeta di grande eccellenza; anzi, di una sublimità tale che lo fa essere insuperato e per tanti versi insuperabile, proprio perché nessuno sarà in grado successivamente di lasciare qualcosa di simile. Dante non ha affatto imitatori, diversamente da altri scrittori, i quali, se non aprono scuole, diventano comunque punti di riferimento per lo stile, per il linguaggio ed anche per i contenuti delle loro opere.
Proprio il suo capolavoro rappresenta il vertice non solo della poesia italiana, perché scritto in lingua volgare, ma è, secondo i moduli medievali coevi, una sorta di “Summa” in cui l’uomo “s’etterna”.
È questo un vocabolo tipicamente dantesco, fatto di suo conio, come succede per altre parole che appartengono al lessico del capolavoro e che di fatto rimangono una sua esclusiva. Non solo per esigenze poetiche, in riferimento agli accenti e alla rima, ma anche per cercare di esprimere concetti e situazioni che sono ben oltre il visibile e il sensibile, Dante costruisce questo suo particolare vocabolario che gli consente di raggiungere ciò che appare irraggiungibile alla stessa mente umana.
Abbiamo così il ricorso ad espressioni, che diventano verbi a partire da sostantivi, aggettivi o avverbi, con i quali tradurre il progressivo introdursi in realtà che non sarebbero diversamente raggiungibili. Se l’uomo s’inoltra nell’aldilà e ne viene come assorbito, allora egli conquista ciò che non si sarebbe mai immaginato di ottenere.
L’uomo “si inciela”, entrando laddove nessuno pensa mai di arrivare …
L’uomo “si imparadisa”, quando viene assorbito nella luce e nella pace del Paradiso …
L’uomo “si indìa”, assumendo il vivere stesso di Dio che lo prende e lo fa proprio …
È questa l’esperienza dantesca, veramente mirabile, che inizia nella “Vita Nova” con l’innamoramento beatificante e che giunge al culmine nell’esperienza, veramente paradisiaca, quando arriva al Primo Mobile, dove contempla un punto immobile e luminosissimo, che è Dio stesso.
Questa sua parabola di vita, che culmina nel Paradiso, viene sintetizzata in maniera esaltante all’inizio del canto XXVIII del Paradiso:
Poscia che ’ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ’l vero
quella che ’mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se ’l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda. (PARADISO, XXVIII, 1-12)
È stata Beatrice ad aprire Dante alla conoscenza della verità! È Beatrice ad introdurre Dante nella vita divina!
La donna, rivelatrice di Dio, e, proprio per questo davvero beatificante, ha permesso a Dante di “salvarsi”, nonostante il suo stesso traviamento, quello che lo ha portato a vivere nella “selva oscura” di una esistenza segnata dal dolore, ma soprattutto dal rischio orrendo di cadere preda del maligno. Lei, con l’ausilio della ragione, rappresentata da Virgilio, l’espressione più alta della poesia antica, gli ha permesso di attraversare l’Inferno e il Purgatorio per innalzarsi poi al Paradiso. Qui il poeta ricorre al verbo che meglio descrive questa azione beatificante di sentirsi come assorbito nel regno divino. E così la sua mente “s’imparadisa”. E questa azione avviene mediante il riflesso che lui ha di Dio a partire dagli occhi belli della donna amata. Non poteva descrivere meglio, anche con questa sua immagine molto luminosa del “doppiero”, l’esperienza davvero salvifica che egli raggiunge, pur nel momento più disperante della sua esistenza, quando per lui non c’è più prospettiva di vita e sembrerebbe così cadere nel traviamento più angoscioso. Non è solo la conoscenza frutto di studi razionali; non è neppure la conoscenza teologica come dottrina, pur utile ad innalzare la mente dalle miserie mortali; per lui questa conoscenza di Dio passa dalla persona di Beatrice che è concretamente una figura umana, capace di elevare, capace di beatificare, capace di far entrare in Paradiso, mentre lo stesso Paradiso prende possesso di lui.
Anche a morire, come succede a tutti i mortali, – e neppure Dante sfugge a questa legge di natura – rimane per lui questa esperienza, non solo poetica, ma soprattutto umana, proprio perché “spirituale”, di sentirsi rapito in Dio, analogamente a quello che S. Paolo dice di sé e che lo stesso Dante ben conosce e sente come “vero”. Questo suo “incielarsi”, o, addirittura “indiarsi”, come arriva a dire con vocaboli suoi e che tali rimarranno in perpetuo, è quanto basta perché la sua esistenza sia “salvata”, nonostante l’amarezza di un esilio che sembra senza fine e senza speranza. Questo è il suo messaggio, che va ben oltre la sua personale esperienza umana e storica, in quanto egli si sente rappresentante di una umanità da rigenerarsi, sempre e dovunque. Lo strumento con cui è possibile questa rigenerazione è l’Amore, non come idea, ma come persona. E lo strumento mediante il quale questa persona lo eleva a Dio, salvandolo con l’Amore è quello della poesia!
Ed entrando in Dio (“indiandosi”), l’uomo, concretamente lo stesso Dante, come rappresentante nella sua particolare esperienza dell’intero genere umano, raggiunge la Verità, colui che è la Verità, cioè Cristo stesso, e quindi Dio! E così l’uomo “s’invera”, cioè raggiunge la pienezza dell’esistenza, naturalmente quella di Dio. E’ una vera e propria operazione spirituale, che non appartiene solo a chi professa un credo religioso. Questa azione salvifica passa dall’esperienza d’amore, che è di tutti.
Ovviamente questa esperienza d’amore ha la sua espressione migliore nella poesia, in quella forma di sensibilità che, in modo particolare e personale, il poeta sa raggiungere. È quanto cerca di spiegare Gianfranco Contini (1912-1990) in un suo saggio tutto dedicato alla “lectura” di questo canto XXVIII del Paradiso nel quale il “vero” e quindi la piena realizzazione del vivere umano in Dio viene raggiunto mediante l’amore, riflesso, a partire dagli occhi luminosi di Beatrice, dell’Amore infinito.
Qual è l’essenziale strumento conoscitivo di Dante? Al modo stilnovistico, “i belli occhi / onde a pigliarlo fece Amor la corda”. Corda, cioè lenza, laccio, rete, meglio ancora le ritorte del prigioniero: quasi fossimo in presenza delta consueta agudeza trobadorica o petrarchesca del catturato, con la relativa etimologia di Amore da amo (inteso come lo strumento per catturare il pesce), ovviamente inclusa da Dante, nel suo solito procedimento a spirale, ma qui non più esauriente. A quest’altezza, infatti, Amore non si limita alla banale ipostasi cortese, ma è l’Amore infinito di cui Dante è oggetto, Dio-Amore vòlto alla sua salute magari mediante astuzie teologiche. Amore, in altre parole, ha valore euristico rispetto alla conoscenza.(Contini, p. 198-9)
Insomma, è proprio l’Amore, quello vero e supremo, quello più alto, perché vissuto nello Spirito e non solo nei sentimenti o nella carnalità, a dare pienezza di vita e di verità al vivere dell’uomo. Appunto perché questo Amore si identifica con Dio e permette all’uomo di identificarsi con Dio, non può che essere espressione di una persona. E Dante lo riconosce nella persona della sua Beatrice, colei che lo introduce in Dio e gli consente così di “inverarsi”, di “incielarsi”, di “indiarsi”…
In questo modo Dante vive una esperienza che tutti possono e devono vivere se vogliono la beatitudine! Il suo percorso di vita, che culmina nel … Paradiso è un percorso emblematico ed esemplare …
DANTE “FIGURA”
Potremmo allora dire che l’esperienza umana e storica vissuta da Dante, soprattutto a partire dalla sua riflessione poetica, è emblematica di un particolare momento storico, come quello ormai all’autunno del Medioevo e ai primordi di una nuova epoca che vede l’uomo al centro del mondo, sempre e solo da salvare.
E tuttavia l’uomo, di cui sta parlando Dante, non è solo di quel particolare periodo, perché la salvezza non è solo la fuoriuscita dai problemi contingenti, dai mali temporanei e locali. C’è una salvezza superiore che riguarda l’impostazione stessa del vivere, perché esso diventi sempre più umano e quindi sottratto a quelle pecche e a quei vizi che rovinano e impediscono un vivere dignitoso per tutti e per ciascuno.
Per questo motivo non possiamo limitarci a leggere il suo poema come una fantasiosa avventura o come un percorso assolutamente “improbabile” e impossibile, vissuto alla ricerca di una evasione rispetto al mondo tormentoso e tormentato in cui si era trovato a vivere. Esso è piuttosto il miglior modo possibile, per quei tempi e per quella mente elevata, di porre la questione decisiva della vita, che non è solo la ricerca di un senso, ma soprattutto la ricerca di una “via salutis”, non solo in riferimento all’al di là, ma anche in relazione a questa esperienza terrena, che non si può lasciare al caso o al caos di forze disgregatrici.
Dante si presenta come “figura” dell’uomo, perché il suo cammino, accompagnato e arricchito dalle tante esperienze umane che lo contrappuntano, diventi un’opportunità di rinascita.
Proprio questa sua funzione di “figura” è la “lectura Dantis” costruita nel secolo scorso e che ancora richiede un accostamento e un approfondimento per rendere il poema meglio fruito e fruibile, ben oltre i banchi di scuola.
I risultati conseguiti dagli studi più recenti, dalle illuminanti intuizioni dello Auerbach, sulla “concezione figurale” dei personaggi della Divina Commedia, all’edizione critica del poema sacro, curata da Giorgio Petrocchi, che ci ha restituito il Dante quale lesse e commentò Boccaccio; nonché i nuovi orientamenti di una storiografia medievalistica, che giudica degli uomini e delle cose del passato col riferimento alle tradizioni viventi delle varie culture, ci danno, d’altronde, la possibilità di avvicinarsi oggi a Dante e all’opera sua con una più estesa coscienza critica e umana, poiché il miracolo della grande opera non vive avulso dalla vicenda spirituale del poeta, che seppe dare forma di altissima poesia al travaglio della sua grande anima, combattuta tra l’“umano” delle sue passioni terrene e le aspirazioni urgenti delle sue attese di cristiano, trasfigurando la rappresentazione concreta della realtà umana in immagini di una potenza fantastica che raggiunge quasi i limiti della rivelazione. (Morghen, p. 159-160)
L’interpretazione figurale, qui citata, fa riferimento agli studi fatti dal filologo, di origine tedesca ed ebreo, costretto a fuggire dalla Germania nazista, ERICH AUERBACH (1892-1957), che risulta ancora il più grande dantista del secolo scorso.
Egli vede in Dante il primo autore che, alla fine del Medioevo cristiano, anticipa un elemento che egli ritiene una costante della moderna cultura europea, ovvero la centralità della persona umana frutto della convinzione che la sorte personale dell’uomo sia necessariamente tragica e rivelatrice della sua connessione con l’universale. Secondo Auerbach, Dante ritrovò nell’uomo quella unità di spirito e corpo, di realtà individuale e realtà storica, che avrebbe caratterizzato la coscienza moderna dell’Occidente.
Nel suo studio sul concetto di “figura” del 1938, quando Auerbach era a Istanbul, ci dà una chiave di lettura affascinante del mondo dantesco e di tutti i suoi personaggi. Essi sono collocati già nell’al di là e sono considerati a partire dalla loro morte, definita il momento “veritativo” della loro esistenza, quello che rimane perennemente come ipostasi, cioè come lettura ormai fissa ed eterna a significare quel particolare mondo umano da cui dobbiamo trarre lezione di vita.
Così ognuno, indipendentemente dal suo retaggio morale, quello per cui può essere condannato e condannabile per sempre, come è nel caso di quanti sono all’Inferno, appare pur sempre nella sua grandezza “umana”, quella con la quale è opportuno confrontarsi, perché anche il proprio vissuto acquisti pienezza e completezza. Tutto questo perché ognuno è chiamato a confrontarsi con chi lo precede, che appare sempre come una “figura”, una sorta di recinto o di contorno, dentro il quale collocarsi per far emergere la pienezza di umanità, che si raggiunge attraverso il contributo di ciascuno e di tutti insieme.
Auerbach parte dalla interpretazione figurale che si fa sui testi biblici, laddove i singoli personaggi sono letti non solo per il loro contenuto storico, ma anche per quello che rappresentano in vista di una pienezza di lettura, fatta a posteriori, in colui che è la pienezza dell’uomo, e cioè Gesù Cristo.
Così facevano i padri della Chiesa con i personaggi biblici.
Isacco, ad esempio, è figura di Cristo nel suo sacrificio, perché il senso di quell’episodio può essere compreso pienamente, se raffrontato con il sacrificio di Cristo, fatto da Dio Padre, ben diversamente da quanto succede al padre Abramo che è fermato al momento in cui sta per uccidere il figlio, Isacco. In questo modo noi potremmo pensare che il sacrificio di Isacco sia una figura, cioè un contorno vuoto, che diventa significativo e chiaro quando dentro quel contorno si mettono i colori della pittura, che noi possiamo riconoscere nel sacrificio di Cristo, il compimento di questa figura. Isacco, tuttavia, non è solo figura di Cristo, ma è anche figura di tanti altri che vivono l’esistenza, nel corso della storia, all’insegna del sacrificio; e quindi quanti vengono dopo di lui danno pienezza a questa sua immagine iniziale.
Nello stesso tempo anche quanti nel corso della storia vivono il proprio sacrificio possono essere a loro volta figura per chi li segue.
Potremmo, ad esempio dire, che l’olocausto di Isacco ha trovato la sua pienezza anche nell’Olocausto ebraico del secolo scorso e continua ad averlo in tante altre forme di Olocausto. In questo modo ogni episodio della storia, ogni personaggio, anche quello più comune e oscuro, dà il suo contributo a completare il vivere, perché emerga sempre più l’umano.
Così fa Dante con tutte le figure che egli ci rappresenta a partire dalla loro collocazione nell’aldilà, e dunque nella luce della morte, che illumina meglio il vivere di ciascuno ancora immerso in una esistenza dolorosa e spesso considerata oscura e senza significato. Ognuno è figura per gli altri e ognuno può trovare lì quella figura che aiuta a completare il proprio vissuto. In questo confronto “storico” possiamo leggere il cammino umano e quindi anche il nostro che è destinato a compiersi, pur nella sensazione di tanti ostacoli, di tanti fastidi, di tanti problemi.
Si potrebbe dire che in questo suo cammino ultraterreno Dante abbia voluto affrontare l’esistenza con la varia umanità che è entrata a far parte della sua vita. Purificandosi in mezzo al male ha trovato modo di “incielarsi”, cioè di raggiungere la pienezza del vivere.
Ecco il contributo di Auerbach.
La Commedia è fondata in tutto e per tutto sulla concezione figurale. Nel mio studio su Dante, poeta del mondo terreno (1929) ho cercato di mostrare che nella Commedia Dante ha voluto “presentare tutto il mondo terreno-storico … già sottoposto al giudizio finale di Dio e quindi già collocato nel luogo che gli compete nell’ordine divino, già giudicato, e non in modo tale che nelle singole figure, nella loro sorte escatologica finale, il carattere terreno fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico, e da identificarlo con la sorte eterna. Per questa concezione, che si trova già in Hegel e sulla quale si fondava la mia interpretazione della Commedia, mi mancava a quel tempo la precisa base storica; nei capitoli introduttivi del libro essa era più intuita che riconosciuta. Ora io credo di avere trovato questa base: è appunto l’interpretazione figurale della realtà, che domina le concezioni del medioevo europeo, sia pure in lotta continua con le tendenze meramente spiritualistiche e neoplatoniche; secondo essa la vita terrena è bensì assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto “umbra” e “figura” di ciò che è autentico, futuro, definitivo e vero, di ciò che, svelando e conservando la figura, conterrà la realtà vera. In questo modo ogni accadimento terreno non è visto come una realtà definitiva, autosufficiente e neppure come anello di una catena evolutiva in cui da un fatto o dalla concorrenza di più fatti scaturiscano fatti sempre nuovi, ma viene considerato innanzi tutto nell’immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui fa parte e che in un tempo futuro sarà anch’esso un accadimento reale; e così il fatto terreno è profezia o “figura” di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente all’occhio di Dio e nell’aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. (Auerbach, p. 223-4)
Non è immediatamente facile il discorso di Auerbach e tuttavia è affascinante il suo modo di considerare la lettura che Dante fa dei suoi personaggi, della sua vicenda, dell’intero suo poema, vera “Summa umana”, volendo rappresentare la storia non solo come eventi, ma come “figure umane”, la cui comprensione piena è nella luce divina, in quella visione propria dello Spirito, che esalta quanto di meglio ciascuno è e dà di suo, anche dentro un quadro morale inaccettabile o insufficiente.
Il mondo umano vive, così, nel pensiero di Dante, quasi di una sua vita autonoma d’impegni, subordinati, sì, ai valori eterni della rivelazione ed esaltati nella loro adesione alle verità della fede, ma sempre validi, anche quando la giustizia di Dio ne condanna le deficienze, gli eccessi, le deformazioni dovute all’amore soverchio di sé e delle cose terrene. D’altro canto, per Dante, natura e spirito risultano strettamente congiunti in una concezione unitaria e gerarchica che sale dal mistero della vita vegetativa e dell’istinto, e dalla materialità della vita animale, alle espressioni più alte dello spirito, nella sua tensione verso l’eterno. Santità e peccato, angeli e demoni, passioni selvagge e speculazioni dell’intelletto, l’amore carnale, nella sua potenza inesorabile e distruttiva, e come sublimazione dell’ideale femminile, tutto trova il suo luogo nel grande quadro della realtà umana e divina del poema dantesco, non come composizione di tessere giustapposte, nelle combinazioni di raffinate esperienze estetiche, ma come dati concreti della realtà stessa, trasfigurati in una visione trascendente dell’amore e della giustizia di Dio, scanditi nei ritmi esistenziali della libertà umana e del peccato. (Morghen, p. 161)
Sulla base di questa considerazione la realtà terrena appare pur sempre nella sua miseria: l’uomo è sempre segnato dal suo male, dal suo peccato. E tuttavia, anche a perdersi “in una selva oscura” ha pur sempre la luce della grazia per venirne fuori. Dante, che vive l’amarezza della sua condizione di esiliato, ormai non si aspetta più il rientro in patria e vive i suoi ultimi anni ben consapevole che non c’è speranza. Non gli rimane, dunque, che aspirare alla liberazione suprema, quella che lo fa uscire dagli allettamenti terreni che fanno correre dietro a tante occupazioni e preoccupazioni, mentre una cosa sola è necessaria. Lo esprime in maniera mirabile in un’altra scena paradisiaca, con cui sente che la salvezza per l’uomo non può giungere se non dall’alto …
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto. (PARADISO, XI, 1-12)
La sua visione del mondo è indubbiamente segnata dal male, anche perché lui stesso ne è colpito, ne è marcato. Ma proprio perché ogni personaggio è una “figura”, il senso pieno della sua visione è posto in Dio. Il poema è davvero, esso pure, una sorta di “Summa theologica”, in cui il centro e il cuore di tutto è Dio, come non poteva essere diversamente nel mondo medievale a cui Dante appartiene. E però, non senza Dio, l’uomo è chiamato a realizzarsi seguendo “virtute e canoscenza”, riconoscendo comunque che la piena realizzazione di sé avviene nello Spirito, nella spiritualità.
La critica dantesca di tutti i tempi ha dato al termine di “visione”, così ripetutamente adoperato da Dante a giustificazione del significato religioso e morale della sua opera, un significato di puro espediente letterario e non di un momento di illuminazione interiore, strettamente legato ad esperienze di vita intensamente vissuta, nel ricordo della fanciulla, che prima gli aveva rivelato il miracolo dell’amore. Così, altrettanto semplicemente, si è voluto trovare precedenti al poema dantesco nei viaggi dell’oltretomba, a partire da quello di Enea, presenti nelle maggiori letterature antiche e contemporanee del poeta. Ma l’originalità del poema dantesco è soprattutto nei motivi spirituali e religiosi dei suoi contenuti. (Morghen, p. 164)
In effetti non si può prescindere dalla componente religiosa e, soprattutto, spirituale. Essa è certamente legata all’esperienza cristiana di Dante. Ma la religiosità, vera e profonda, del poeta, pur con tutti i suoi strali verso certi personaggi della gerarchia e verso certi stili di vita fra i religiosi, non si limita solo alla morale, perché punta alla pienezza di vita che si ha solo in comunione con Dio. Più che un compendio di dottrine religiose, anche ad essere affermate con rigore e con chiarezza, il suo poema è un viaggio e quindi un vissuto. Analogamente al Vangelo, dove si narra la vicenda umana di Gesù, che si rivela Salvatore nella sua Passione, qui c’è il viaggio dell’uomo, con tutto il suo carico di storia che anela alla salvezza, raggiunta come grazia, come illuminazione, come elevazione al cielo.
Le tre cantiche del poema scandiscono, del resto, in una progressione di successiva sublimazione i momenti essenziali del processo spirituale del poeta, dalla mirabile visione che chiude la Vita Nova al “messaggio di salvezza”, che illumina con la luce della fede e della speranza tutti i canti del Paradiso.
Nei canti dell’Inferno il poeta è ancora vicino al mondo umano involto nel peccato, dal quale l’amore di Beatrice doveva redimerlo …
I canti del Purgatorio riflettono, invece, il momento del distacco di Dante dal primo periodo della sua giovinezza, trascorsa tra i sogni svagati della vita cavalleresca e la dissipazione intellettuale che l’aveva distolto dall’amore di Beatrice …
Nei canti del Paradiso, dopo il definitivo distacco dagli interessi terreni, si celebra l’eterna gloria della tradizione vivente che, nata dalla rivelazione del Cristo, abbraccerà nei suoi ultimi destini, l’umanità intera nella apoteosi apocalittica della Monarchia universale in terra, e nel trionfo, nei cieli, di tutti i redenti in Cristo …
Certo quello del Paradiso dantesco è il mondo più difficile a comprendersi dai moderni, per la conoscenza che richiede di una cultura, specialmente teologica, nella quale Dante ha pagato il debito al suo tempo. Ma per quel che riguarda la coscienza ch’Egli ebbe della Rivelazione cristiana e della storia della salvezza, estesa a tutti gli uomini di tutti i tempi, essa è di una attualità che desta meraviglia anche agli spiriti più spregiudicati. (Morghen, p. 167-9)
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Dobbiamo augurarci che la commemorazione del settimo centenario della morte di Dante non sia solo una data del calendario che fa presto a scorrere. Già si è detto che non basta solo raccontare come sono andati i fatti nei periodi che precedono e che seguono l’evento. La lettura figurale, che è stata introdotta per meglio comprendere fatti e personaggi della Commedia, dovrebbe aiutarci a considerare questo evento come il lascito più importante del poeta. Se la lettura, che lui fa degli uomini e delle donne del suo tempo e della conoscenza che ne ha nella sua enciclopedica cultura, coglie lo spirito, ben oltre la psicologia, come il vero valore di ogni persona, anche quando moralmente uno può rimanere condannato e condannabile, allora dobbiamo imparare da lui a coltivare questa visione “spirituale”. Non è semplicemente una lettura religiosa abbinata ad una particolare fede, con tutte le pratiche e le dottrine che questa comporta; non è neppure una lettura che depurando dagli elementi negativi vuole come astrarre “il salvabile”. È piuttosto la considerazione che in ogni tempo e in ogni luogo chiunque può e deve dare la sua più autentica fisionomia, cercando una piena corrispondenza nel vivere e nei fatti con il disegno che lo precede e che lo spiega. E Dante che appare certamente come una tra le menti migliori del nostro Medioevo, ha intuito in questo suo lavoro di ricerca, vissuto anche in mezzo a tanti disagi, come l’uomo si possa e si debba “eternare” per quello che sa leggere ed operare nella sua esistenza con il contributo di tutti coloro che lo accompagnano. Diversamente tutto cade nel non-senso.
Al principio del canto II del Paradiso Dante si volge all’umanità tutta, con accenti nei quali vibra il consapevole orgoglio della sua condizione di peccatore, redento e ammesso, con la guida degli occhi lampeggianti di Beatrice, a contemplare la gloria del Paradiso e l’immagine stessa di Dio:
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti. (PARADISO, II, 1-6)
L’immagine del legno che cantando varca, non è immagine secentesca, ma l’espressione più densa di significato dell’idea che il poeta ebbe del “poema sacro”, nel quale trasfuse tutte le esperienze di vita e d’arte, che per più anni l’avevano fatto “macro”. Il legno che “cantando varca” le onde infide del mare dell’esistenza, verso l’infinito, è il simbolo della poesia stessa che trasfigura i dati delle esperienze nelle attese della conoscenza e del valore umani, e della speranza suprema nelle realtà ultraterrene. Nel declino di un’epoca, a distanza di secoli, la voce possente del poeta, quasi profeta di biblica ispirazione, pur nell’orgoglio, quasi disumano, del predestinato da Dio, ci giunge, sulle ali di un canto immortale, risvegliando nel cuore degli uomini le attese più esaltanti della civiltà umana e le speranze eterne della fede e della salvezza nella luce di Dio. (Morghen, p. 171-2)
Se seguendo lui e la sua piccoletta barca, non ci perdiamo nel mare della vita, anche ad essere tempestoso, è proprio perché impariamo da lui a coltivare lo Spirito, quella lettura delle persone e del vivere che ci comunica lo Spirito, davvero essenziale perché il vivere sia pienamente raggiunto, anche ad avvertire la fatica e lo sconcerto di un certo traviamento che a volte ci sorprende. Con lo Spirito è sempre possibile uscire a … riveder le stelle!
BIBLIOGRAFIA
1. Antonio Altomonte – DANTE – UNA VITA PER L’IMPERATORE- Rusconi, 1985
2. Cesare Marchi – DANTE IN ESILIO – Longanesi, 1976
3. Alessandro Barbero – DANTE- Laterza, 2020
4. Erich Auerbach – STUDI SU DANTE – Feltrinelli, 1986
5. Raffaello Morghen – DANTE PROFETA: tra la storia e l’eterno – Jaca Book, 1983
6. Gianfranco Contini – UN’IDEA DI DANTE – Saggi danteschi . Einaudi, 1976