INTRODUZIONE
Le diverse letture dello scrittore
Il II centenario della nascita di Dostoevskij è un’occasione per cercare di comprendere meglio lo scrittore difficilmente catalogabile con gli schemi di certa storia della letteratura. È anche l’occasione per rileggere testi, indubbiamente non facili, che, data la complessità delle vicende e soprattutto dei personaggi che vi si trovano, con tutti i loro tormenti interiori, possono disorientare chi vi si accosta senza una appropriata introduzione. C’è chi vi trova la vena autobiografica, che, senza alcun dubbio, permea molte pagine di quest’uomo, tanto inquieto e tanto toccato dal dolore, dal male, dallo stesso azzardo che lui ha conosciuto a partire dalla frenesia del gioco. C’è chi vi legge il tormentato ottenebramento, a cui va incontro un’Europa avviata ad un progresso industriale con l’illusione, coltivata, di poter godere del benessere, mentre invece essa scivola inevitabilmente verso una catastrofe, poi dilagata nelle tragedie del Novecento. C’è chi vi legge la ricerca spasmodica di una salvezza, tanto desiderata e nel contempo così difficilmente perseguita, mentre, con i contorcimenti psicologici che muovono verso la follia, imperversa una specie di “cupio dissolvi”, derivata dalla perdita della spiritualità, quella cristiana, a cui egli punta decisamente come la sola fonte di autentico rinnovamento.
Il pensiero dello scrittore: il senso della vita in mezzo al male
Non è facile seguire il suo pensiero, anche perché egli propriamente non è un filosofo, per quanto appaia sottesa, nei suoi testi, una certa filosofia della vita. E non è neppure un pedagogista o uno psicologo che si premura di scandagliare l’animo umano, soprattutto quando è in formazione, perché possa crescere secondo criteri ragionevoli, se non sono di fatto razionali. Egli è principalmente uno scrittore di romanzi, avendo trovato questa vena espressiva non solo come fonte di guadagno per vivere, ma come la sola modalità per lui di comprendere e spiegare il suo vissuto, estremamente tormentato, anche da una serie di circostanze drammatiche che hanno segnato la sua esistenza. Ciò che racconta sono indubbiamente vicende umane che lo sfiorano, se non altro perché molti dei suoi personaggi vivono qualcosa che appartiene alla sua stessa esistenza e riflettono mali e tormenti che lo toccano: chi ben conosce quanto egli ha vissuto, non fatica a trovare molti elementi autobiografici. E tuttavia, come succede a tanti scrittori, le sue storie sono pur sempre vicende umane, scandagliate soprattutto nel tormento interiore. Esse riflettono il parto travagliato di un umanesimo, soprattutto russo, che era in corso, in un mondo da troppo tempo in letargo e vorticosamente avviato a trasformazioni se-gnate poi dalla tragedia. Per quanto egli rifletta il mondo russo, di cui è figlio, e di cui, soprattutto, è espressione, tutto quello che scrive a proposito dell’uomo travalica comunque quel particolare mondo, e, per tanti versi, anche la sua epoca, così travagliata e sottoposta a cambiamenti, come sempre succede, non facilmente gestiti e soprattutto gestibili.
Una visione “spirituale”, non puramente psicologica
Anche a riconoscere il suo contributo nel cercare di comprendere il mondo umano russo, tentato di seguire la propria via di rinascita e di rinnovamento, rispetto al cammino percorso nello stesso periodo nel resto dell’Europa, e nello stesso tempo ben consapevole che dentro la storia russa si sono inoculati i principi, per lui demoniaci e devastanti del nichilismo, provenienti dalle dottrine filosofiche in elaborazione in quel periodo, lo scrittore non può essere catalogato dentro schemi o impianti di tipo ideologico, come si tende a fare per tentare una lettura unitaria del suo per-corso di vita.
Si è scritto molto su Dostoevskij. Molte cose interessanti e vere sono state dette. Nessuno tuttavia si è accostato a lui in modo sufficientemente unitario. A Dostoevskij ci si è accostati da vari punti di vista, lo si è giudicato alla stregua di concezioni di concezioni diverse, e i diversi aspetti di Dostoevskij conseguentemente si svelavano o si celavano. Per gli uni era, prima di tutto, il difensore degli “umiliati e offesi”, per gli altri un “genio crudele”, per altri ancora il profeta del nuovo cristianesimo, per alcuni lo scopritore dell’“uomo sotterraneo”, per altri è stato, soprattutto, un autentico ortodosso e il banditore dell’idea messianica russa. (Berdjaev, p. 7)
Il saggio di Berdjaev, qui abbondantemente utilizzato, coglie nel segno lo spirito di Dostoevskij, anche per un percorso molto simile che Berdjaev fa nella sua esistenza. “Veniva dallo studio di Karl Marx – scrive Givone nella sua introduzione – nel cui pensiero aveva creduto di individuare l’esito compiuto del messianismo giudaico-cristiano. Salvo prendere le distanze di lì a poco da quella nuova fede laica e rivoluzionaria e avviarsi per una strada ancora intentata. … Ma quel che viene precisandosi è non solo un disegno organico d’interpretazione, ma un progetto teorico di vasto respiro … mostrare, nell’orizzonte che Dostoevskij ha dischiuso, il necessario fallimento di quella tragica utopia, cui viene contrapposta una visione del mondo incentrata sul concetto di libertà invece che di necessità storica”. Perciò è su questo orizzonte che va letto lo scrittore russo …
ESPERIENZE DOLOROSE
I problemi in famiglia
Indubbiamente la complessità dell’uomo e dello scrittore è già presente nella sua vita, che ha momenti tempestosi e drammatici ed è contrassegnata dal male che lo insegue e lo perseguita. Celebrando proprio la sua nascita, dobbiamo più che mai puntare l’attenzione sull’ambiente in cui viene a vivere negli anni delicati della sua formazione scolastica e umana. Qualcosa trapela sempre da ciò che egli scrive nei suoi romanzi, anche se egli evita certi particolari che possono dare l’impressione dell’autobiografismo. Eppure chi legge, ben oltre i fatti, l’analisi dei caratteri, può trovare qualcosa che riguarda lo scrittore stesso.
Dostoevskij nacque a Mosca il 30 ottobre 1821, secondogenito di sette figli. Suo padre, Michail Andreevič, proveniente da una famiglia di sacerdoti uniati (sono uniati i cristiani del mondo slavo orientale che si riconoscono uniti alla Chiesa cattolica romana. I sacerdoti uniati possono sposarsi …), era un medico militare in servizio presso l’ospedale dei poveri Mariinskij … La leggenda … ce lo tramanda uomo dispotico e violento, prototipo di Fedor Karamazov, all’origine di intollerabili sensi di colpa e dinamiche sadomasochistiche nel figlio. La realtà che emerge dai pochi documenti, ci presenta un uomo cupo e introverso, dedito alla famiglia (sceglie per i figli scuole private dove non si praticavano punizioni corporali), benché geloso e possessivo nei confronti della moglie Marija Fedorovna Nečaeva. Costei apparteneva a una famiglia di mercanti, religiosa e ben radicata nelle tradizioni, ma al tempo stesso intraprendente e colta: la giovane, in particolare trasmise al figlio l’amore per la musica (mentre era il padre che riuniva la famiglia per leggere ad alta voce i capolavori della letteratura europea e russa) … (Ghidini, p. 21-22)
Già l’età della formazione, che lo vede studente a Mosca, e poi, dal 1838, a Pietroburgo nella Scuola Superiore del genio militare, per studiare ingegneria, è segnata da problemi che minano la serenità del suo cammino tra infanzia e adolescenza. La madre muore di tisi – e questa malattia sarà un po’ sempre presente nei personaggi, soprattutto femminili, dei suoi romanzi – mentre il padre, muore nel 1839, in uno strano incidente, che viene registrato da voci insistenti come un omicidio, perpetrato dai suoi contadini, sempre maltrattati da un uomo dedito al bere. Di qui iniziano le crisi epilettiche per lo scrittore, che lo tormenteranno un po’ sempre.
Nel “sottosuolo”
Nei dieci anni prima dell’arresto che lo porteranno alla condanna a morte per attività sovversiva, si dedica alla letteratura, scrivendo alcuni racconti e brevi romanzi, ma soprattutto si dà alla traduzione di altri testi, nell’intento di far soldi, che non bastavano mai alla sua vita dissoluta, da vero figlio prodigo. È una condizione di vita che lo tormenta e che lo sprofonda sempre più, per farlo divenire un uomo del “sottosuolo”. Così egli si definisce e così definisce quella parte di umanità che fatica ad emergere dal vivere civile. Quella che per lui doveva essere la vita, se non del parvenu mediante la scalata in società, per migliorare il proprio tenore di vita, almeno del cittadino che cerca una “dimora” migliore per vivere dignitosamente, di fatto si trasforma in una caduta che lo conduce sempre più … nel sottosuolo. Tra i libri scritti dopo la tragedia della prigionia in Siberia, a cui era stato condannato quando, in extremis, viene tolto alla fucilazione mentre il picchetto di soldati era già pronto all’esecuzione della pena, c’è appunto “MEMORIE DEL SOTTOSUOLO”, che risulta scritto in “prima persona”, come se fosse lui stesso a parlare di quella situazione di vita, avvertita come estremamente oscura e drammatica.
Le Memorie dal sottosuolo sono del 1864 … L’importanza delle Memorie dal sottosuolo sta nel fatto che per la prima volta Dostoevskij rivolge consapevolmente e, diciamolo pure, spietatamente lo sguardo a se stesso … Certo l’uomo che, nelle Memorie dal sottosuolo, dice “io” è “cattivo e invidioso”; ma il se stesso di cui Dostoevskij si serve per scrivere il racconto è qualche cosa di molto più vasto e più profondo … Dostoevskij troverà nel sottosuolo, cioè nell’“inconnu”, il nuovo, cioè “le nouveau” in tale quantità che non ne uscirà più. Tutti i libri dopo le Memorie dal sottosuolo sono stati scritti da quelle latebre tenebrose. E Dostoevskij è morto alla fine nel sottosuolo, senza mai più risalire alle stanze superiori … Chi è l’“io” narrante delle Memorie dal sottosuolo? Al contrario di quanto avviene di solito negli altri racconti e romanzi di Dostoevskij, non è un proprietario di terre, non è un professionista, non è neppure un membro dell’intellighenzia, non è, insomma, un uomo socialmente riconoscibile. Egli è, in realtà, soltanto un uomo “del sottosuolo” cioè un uomo che non si reprime come è d’obbligo nell’appartamento del primo piano per la buona ragione che non fa parte di alcuna società e allora a che serve reprimersi se si è fuori della società? È un uomo, però, sincero fino all’indecenza, fino alla spudoratezza, fino all’autoflagellazione. Insomma è un uomo “che si confessa”; ossia, diciamolo pure una buona volta, un’anima … (Moravia, p.5-7)
Alla ricerca dell’“anima” di Dostoevskij
Questa particolare lettura che Moravia fa dello scrittore russo dice come l’attenzione debba essere data alla componente religiosa, quella che dà una visione dell’uomo a partire da Dio. I romanzi di Dostoevskij non sono solo opere di carattere psicanalitico, come spesso si vuole sottolineare; sono piuttosto uno scandaglio interiore alla ricerca di quell’anima che è principalmente il rapporto religioso dell’uomo che lo lega con Dio. Perciò non si può neppure limitare l’attenzione alle componenti di carattere sociale, che fa degli “umiliati e offesi” i veri protagonisti delle sue storie: costoro sono pur sempre le “anime” del sottosuolo, che possono essere scellerati demoniaci o figure all’insegna della purezza e della semplicità che ai più può apparire idiozia, come nel caso del “principe Miskin”.
La scienza artistica o l’arte scientifica di Dostoevskij studia la natura umana nei suoi abissi e nei suoi spazi infiniti, ne scopre gli strati più profondi, più sotterranei. Egli sottopone l’uomo a esperienze spirituali … Nella sua antropologia non c’è nulla di statico, nulla di solidificato, di pietrificato, in essa tutto è dinamico, tutto è in moto, tutto è un torrente di lava infuocata. Dostoevskij ci trascina in un in un abisso oscuro, che si spalanca all’interno della natura umana. Ci conduce per le tenebre infernali. Ma anche in quelle tenebre deve risplendere la luce. (Berdjaev, p. 32)
Sembra un percorso dantesco che dall’abisso infernale, dove l’uomo si smarrisce, risale al cielo di Dio per trovarvi dopo la purificazione la sua raggiunta beatitudine, frutto della grazia. Ma così non è. Perché lo stesso Dostoevskij, per le sue vicende personali, così dominate dal male, si trova immerso in un mondo da cui “lo spirito è volato via”. E così l’uomo si ritrova più che mai in una libertà anarchica e nichilista che lo travolge, portandolo all’esasperazione del proprio individualismo.
Il cammino dell’uomo nella libertà comincia con un individualismo estremo; con l’isolamento, con la ribellione contro l’ordine esterno. Si sviluppa un’ambizione sfrenata, si rivela il sottosuolo. L’uomo alla superficie della terra scende nel sottosuolo … Nell’uomo vi è una tendenza insopprimibile all’irrazionale, a una libertà folle, al dolore. (Berdjaev, p. 35)
LA CONDANNA A MORTE
L’esperienza del plotone di esecuzione
Dostoevskij è arrivato a questa voragine ben prima del “mezzo del cammin di nostra vita”, perché il suo fondo viene toccato quando è implicato in attività sovversive e arrestato. Un po’ in tutta Europa la Restaurazione diventa un sistema oppressivo con una più che vigile repressione di tipo poliziesco; ma in Russia la situazione appare ancor più oscurantista e ossessiva. Arrestato nell’aprile del 1849, viene tenuto in isolamento e poi condannato a morte per fucilazione …
… sentenza di morte, notificatagli il 22 dicembre: “Oggi sulla piazza Semenovskij a tutti noi è stata letta la sentenza di condanna a morte … Avevano legato al palo tre di noi per l’esecuzione della condanna. Io ero il sesto, chiamavano tre alla volta, dunque io ero al secondo turno e mi rimaneva di vivere non più di un minuto”. (Ghidini, p. 24)
Nel romanzo “L’IDIOTA” torna in maniera ossessiva la descrizione della condanna a morte, non la sua; evidentemente il fatto è stato particolarmente traumatico, anche perché viene proprio salvato all’ultimo momento. E il sadismo è nella stessa polizia, che fa arrivare la grazia dello zar proprio al’estremo istante, quando i condannati erano già pronti all’esecuzione. Il trauma continua con la condanna ai lavori forzati in Siberia, quando in effetti egli viene come sepolto nel sottosuolo, da cui manda le sue memorie. Quel trauma, che lo segnerà fortemente per tutta la vita, sarà solo in parte superato dal recupero della fede, che in quegli anni “rivoluzionari” era andata scemando. Da una donna riceve il vangelo, che diventa il suo compagno negli anni bui dell’isolamento totale e a questa donna scrive dopo la scarcerazione:
Di me Vi dirò che sono figlio del secolo, figlio dell’incredulità e del dubbio, fino alla tomba, come so bene. Che terribili sofferenze mi è costata, e mi costa tuttora, questa sete di fede, che nell’anima mia è tanto più forte, quanto più mi sorgono dentro gli argomenti contrari. E tuttavia, a volte Dio mi manda dei momenti in cui io sono perfettamente tranquillo; in essi io amo e scopro di essere amato dagli altri, e proprio in un momento come quelli io ho concepito dentro di me il simbolo della fede, in cui tutto mi sembra chiaro e santo. Esso è molto semplice, eccolo: credere che non c’è niente di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più coraggioso e perfetto di Cristo, e non solo non c’è, ma con amore geloso dico a me stesso che non può esserci. Dirò di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità e se realmente la verità fosse fuori di Cristo, io preferirei rimanere con Cristo piuttosto che con la verità. (Ghidini, p. 25)
Il trauma della morte imminente, vissuto davanti al plotone d’esecuzione rimane vivo in lui e si traduce, come già detto, nella descrizione di quei momenti, non già perché nei suoi racconti egli si trovi in presenza di si-tuazioni simili, ma perché i suoi personaggi ne trattano, come se la questione della pena di morte potesse rientrare nelle discussioni “a tavolino” in momenti di conversazione …
Per quanto il cameriere andasse contro i i suoi principi, gli era impossibile non sostenere una conversazione tanto amabile.
“A Pietroburgo? Quasi mai, solo di passaggio. Allora della città non sapevo nulla. Poi, dicono, ci sono state così tante novità da renderla irriconoscibile a chi l’ha visitata nel passato. Adesso, mi pare, è tutto un gran parlare di codici e di tribunali …”.
“Sì … non so bene … E laggiù, all’estero, c’è forse più giustizia che qui?”.
“Non saprei. Della nostra giustizia non ho sentito che lodi. Noi, per esempio, non abbiamo la pena di morte”.
“All’estero sì?”.
“Sì, in Francia, a Lione, ho assistito a un’esecuzione capitale. Ci andai con Schneider”.
“Impiccano?”.
“No, tagliano la testa”.
“E il condannato grida?”.
“Eh no, non fa in tempo, è un attimo. Lo mettono al suo posto, sul ceppo, e dall’alto gli arriva sul collo una lama pesante. Si chiama ghigliottina. Cade con violenza e tronca la testa in un batter d’occhio. I preparativi, quelli sì che sono penosi. Quando si legge al condannato la sentenza, quando poi lo vestono, gli radono i capelli, lo legano, lo portano sul patibolo … allora, sebbene molti lo disapprovino, per vedere quello che succede si raduna una gran folla, vengono perfino le donne”.
“Non è uno spettacolo per loro”.
“Si capisce, una tortura infernale. Il condannato, quella volta a Lione, era un uomo intelligente, robusto, coraggioso, di mezza età. Si chiamava Legros. Ebbene, lo credereste? Salito sul patibolo si fece bianco come la carta, piangeva. Un orrore, una cosa indescrivibile! E si può forse piangere di spavento? Un uomo, vi dico, non un ragazzo: un uomo di quarantacinque anni. Che prova l’anima in quel momento? Da quali convulsioni è dilaniata? Perché, vedete, è proprio l’anima che si manda a morte. Non uccidere, è detto nei comandamenti. E perché, dunque, per punire un uomo di aver ucciso, lo uccidono? No, no, è un’infamia. È passato già un mese da quando vi ho assistito e ho quella scena sempre davanti agli occhi e, per almeno cinque volte, quell’uomo me lo sono persino sognato”.
Il principe si scaldava e, sebbene non alzasse la voce, vampate di calore gli arrossavano le guance. Il cameriere, non meno impressionabile del principe, ascoltava intento.
“Di buono”, notò, “è che, con questo sistema, non si soffre a lungo quando la testa viene tagliata”.
“Lo dicono tutti. E la ghigliottina, d’altra parte, è stata inventata proprio per questo. A me, però, durante l’esecuzione venne un sospetto: e se fosse proprio questo il colmo della sofferenza? Potrà sembrarvi strano, vi farà ridere, eppure … prendiamo, per esempio, la tortura: strazio, piaghe, scricchiolio di ossa, dolore materiale insomma, un dolore che distrae la vittima dalle sofferenze morali fino all’arrivo della morte. Ma il dolore principale, il più forte, non è quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. Tu metti la testa sotto la mannaia, senti strisciare il ferro, e quel quarto di secondo è più atroce di qualunque agonia. Questa non è una mia fantasia; ce ne sono moltissimi che la pensano come me. E ve ne dico anche un’altra. Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaven-toso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e spera sempre, fino all’ultimo, di potersi salvare. Ci sono stati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, e casi in cui l’assalito, supplicando, ha ottenuto la grazia dai suoi assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, la speranza che attenua lo spavento della morte, vi viene tolta con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone e accostatevi con la miccia: chi sa! Penserà il disgraziato, tutto è possibile … Ma leggetegli la sentenza di morte e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un colpo simile senza impazzire? E allora, a cosa può mai essere utile una pena così mostruosa?
C’è solo un uomo che potrebbe chiarire questo punto: un uomo a cui abbiano letto la sentenza di morte e poi detto: “Va’, ti è fatta la grazia!”. Di un simile strazio ha parlato anche Cristo … No, no. La pena di morte è inumana, è selvaggia e non può né deve essere lecito applicarla all’uomo”.
Il cameriere, sebbene incapace di esprimere tutti questi sentimenti allo stesso modo del principe, aveva afferrato il senso del suo discorso, e si era commosso. (L’idiota, p.36-38)
Sono riflessioni ineccepibili e tuttavia sconvolgenti, soprattutto se sono rapportate a quei tempi e in quei luoghi. Del resto sono messe in bocca al principe, proveniente dall’Europa e da poco rientrato in Russia, dopo le cure per i suoi problemi di natura psichica. Il principe è di fatto “l’idiota” e quindi il personaggio centrale della vicenda narrata nel romanzo. Egli, anche per questa “nomea” che ha, risulta l’incarnazione del bene, non in quanto principe, ma in quanto … idiota. E qui nel racconto lo stesso Miskin sembra addirittura immedesimarsi nella situazione del condannato. Proprio in questa identificazione leggiamo il profilo autobiografico dello scrittore. Ma è ancora più sconvolgente il richiamo alla morte che Dostoevskij fa nel romanzo, osservando e richiamando il cadavere di Cristo come appare ridotto nell’immagine che lui ha visto nel “Cristo deposto dalla Croce” di Hans Holbein il Giovane.
Miskin osserva: “a causa di questo quadro si può perdere la fede”, che come Dostoevskij stesso era rimasto sconvolto alla vista del quadro a Basilea. Un altro personaggio, il giovane tubercolotico Ippolit, si chiede:
“Ma stranamente, quando si guarda quel cadavere di uomo tanto straziato, viene allora una domanda particolare e curiosa: se è proprio un cadavere come quello (e doveva essere per forza così) che videro tutti i suoi discepoli, i principali suoi apostoli futuri, che videro le donne che lo seguivano e che stavano sotto la croce, tutta gente che credeva in lui e lo venerava, allora in che modo potevano credere, guardando quel cadavere, che quel martire sarebbe risorto? Viene spontaneo pensare che se la morte è così orribile e così forti sono le leggi della natura, come vincerle allora?” (Ghidini, p. 187-8)
IL BENE E IL MALE
Il Bene identificato in una persona
Lo scrittore è dunque segnato fortemente dalla morte, quella che – si potrebbe dire – ha visto in faccia, al momento della sua esecuzione, che solo all’ultimo momento non ci fu. Ma questo pensiero diventa dominante e tormentoso un po’ in ogni suo racconto, in modo particolare in quello de “L’idiota”, comparso a puntate su una rivista tra il 1868 e il 1869.
Viene considerato il manifesto dell’uomo dominato dal Bene o dalla Bontà: essa non è solo quella della morale secondo convenzioni diffuse che fanno pensare ad una persona dal carattere pacifico, dal temperamento remissivo, dal comportamento che fa sempre e solo azioni benefiche. È piuttosto quel Bene che si identifica con Dio stesso e che trova la sua concreta incarnazione e traduzione nella fisionomia umana del “principe Miskin”. E il Bene qui viene pure a identificarsi con il Bello, sempre letto in Dio stesso. Il Bene (e il Bello) viene raggiunto superando le passioni, quelle derivate dagli istinti, per approdare alla compassione, proprio come si vede nel Cristo, il Figlio dell’uomo che si unisce alla passione dell’uomo, condividendola fino all’annientamento di sé.
(Miskin) propone un ambito radicalmente nuovo. Non importa amare o odiare, fare del bene o fare del male, se ciò conduce inesorabilmente a commettere l’unico vero peccato, che è quello di distrarsi dal prossimo perché travolti dalla propria passione. Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione. Si dice all’inizio della pericolosità dell’Idiota. Questo romanzo è il più radicale manifesto sovversivo che la letteratura moderna abbia prodotto. E per la semplice ragione che l’avvento di Miskin marca la negazione della Legge, fa saltare ogni discrimine tra Bene e Male, evoca la necessità di una nuova legge, che il principe enuncia con trasporto, la legge della compassione. Ma si tratta di una legge che nulla ha in sé di normativo, dal momento che la sua attuazione si ha soltanto in presenza di due pulsioni primigenie: il dolore radicale dell’uno e la disponibilità immediata dell’altro ad assumerlo. (Martini, Introduzione a “L’idiota”, p. 9)
È evidente in tutto questo che il solo liberatore dal male è il Cristo: nel romanzo qui evocato, anche a non parlare in modo diretto di lui, molti dettagli ne richiamano la presenza e l’azione salvifica, perché bastano i segni, i simboli a far sentire che su tutta quella vicenda complessa aleggia proprio il Salvatore e, più di ogni altra cosa, si riconosce l’opera che egli compie e nella quale il cristiano è chiamato a credere. Qui addirittura i nomi dei personaggi evocano tutto l’apparato essenziale della fede cristiana, che permette di affrontare il male e di superarlo nel bene essenziale che è proprio la “compassione”: la figura femminile protagonista porta il nome di Nastas’ja, che deriva dal greco “anastasis” (anastasis = resurrezione), mentre il suo cognome (Barskova) richiama l’agnello sacrificale. Il protagonista (l’idiota) è il principe Miskin che ha nome “Lev”, cioè Leone, quello di Giuda, che fa riferimento a Cristo. E il Cristo, che si continua ad evocare anche senza citarlo direttamente, è quello sacrificato come traspare dall’immagine già citata dell’Holbein.
Così lo stesso scrittore spiega il suo romanzo alla nipote:
L’idea fondamentale del romanzo è quella di raffigurare un uomo positivamente bello. Non c’è niente di più difficile al mondo, soprattutto ora. Tutti gli scrittori, non solo i nostri, ma anche quelli europei, che si sono cimentati nella raffigurazione di un uomo positivamente bello, hanno dovuto lasciare. Perché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale non è nostro e anche la civilizzata Europa è ben lontana dall’elaborarlo. Al mondo c’è soltanto una persona positivamente bella: Cristo, così che l’apparizione di questa persona smisuratamente, infinitamente bella è, naturalmente, un miracolo infinito. (Tutto il Vangelo di Giovanni è in questo senso: egli trova il miracolo tutto nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello). Ma mi sono spinto troppo in là. Ricorderò soltanto che di tutte le persone belle della letteratura cristiana, la più compiuta è Don Chisciotte. Ma lui è bello esclusivamente perché allo stesso tempo è ridicolo … Entra in gioco la compassione per il bello deriso che non conosce il proprio valore: e, dunque, anche nel lettore entra in gioco la simpatia. Questo risvegliare la compassione è il segreto dell’umorismo. (Ghidini, p. 193)
L’incarnazione del Male
Ma come sorge in Dostoevskij la concezione del male che incatena l’uomo e lo porta a perdizione? Indubbiamente l’esperienza dell’arresto e della condanna e di seguito gli anni del totale isolamento in Siberia e dei lavori forzati hanno minato la sua fragile psicologia, come pure ha compromesso la già debole costituzione fisica. Ma qui non c’è ancora la sua concezione di male; qui c’è l’esperienza amara di una vita segnata dal male, sul quale è comunque necessario fare poi un’adeguata riflessione. Ed è a partire dalla liberazione dalla prigionia e dal conseguente ritorno nella Russia europea che inizia la seconda fase della sua vita, non meno travagliata della prima. Se già in precedenza la sua ancora di salvezza è lo scrivere, ora questa attività diventa dominante ed anche la fonte di quel guadagno, che presto svanisce nell’uso scriteriato che egli fa del suo denaro, soprattutto con il vizio del gioco che non lo abbandonerà mai del tutto. In quella situazione si rende conto che la radice del male non gli deriva dalle sole ideologie abbracciate o dai condizionamenti dell’ambiente che frequenta, come spesso si tende a dire e a fare, anche oggi. Il male, andando alla sua radice, è da ricercarsi dentro l’uomo, dentro l’esercizio della sua libertà. Prima ancora di individuare il bene e il bello, che egli trova incarnato in colui che viene definito “l’idiota”, lo scrittore si dedica ad analizzare l’uomo contrassegnato fortemente dal male, che è tutto dentro la sua coscienza “disturbata”. E lo trova incarnato nel protago-nista del romanzo del 1866, “Delitto e castigo”: Raskol’nikov.
L’ARBITRIO PORTA AL MALE
Dostoevskij più profondamente di ogni altro ha compreso che il male è figlio della libertà. Ma ha compreso pure che senza libertà non c’è il bene. Anche il bene è figlio della libertà. A ciò si ricollega il mistero della vita, il mistero del destino umano. La libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene che il male. Ma ricusare la libertà per il fatto che può produrre il male, significa produrre un male ancora più grande. … Bisognerebbe capire fino in fondo come egli ha posto e risolto il problema del male. La via della libertà trapassa in arbitrio, l’arbitrio porta al male, il male al delitto. Il problema del delitto occupa un posto centrale nell’opera di Dostoevskij.(Berdjaev, p. 67)
In effetti così è soprattutto negli ultimi romanzi, in quelli che costituiscono i suoi capolavori. In relazione al tema del delitto esso è al centro di “DELITTO E CASTIGO”, che esce a puntate su una rivista nel 1866. Così egli lo descrive a metà settembre 1865.
È il resoconto psicologico di un delitto. L’ambientazione è contemporanea, l’anno corrente. Un giovane, espulso dall’università, borghese per estrazione e in condizioni di grande indigenza, per leggerezza, per mancanza di convinzioni salde, influenzato dalle idee strane e “incompiute” che aleggiano nell’aria, ha deciso di prendere una scorciatoia e strapparsi dalla propria situazione incresciosa. Ha deciso di uccidere una vecchia, vedova di consigliere titolare, che prestava soldi su interesse. La vecchia è scema, sorda, avara, si prende interessi da ebrea, è cattiva, succhia la vita degli altri, tormentando a casa propria la sorella minore che le fa da serva. “Non serve a niente”, “vive a che scopo?”. “E’ utile almeno a qualcosa?” ecc. Queste domande confondono il giovane. Decide di ucciderla, rapinarla, con lo scopo di far felice la propria madre che vive in provincia, di salvare la sorella, che lavorava come dama di compagnia presso certi proprietari terrieri, dalle avances libidinose del proprietario capofamiglia, avances che la mettono in pericolo; con lo scopo di finire i corsi, andare all’estero e poi essere onesto, saldo, coerente per tutta la vita nel compiere il proprio dovere “di uomo nei confronti dell’umanità”, cosa che, naturalmente “deve appianare il delitto”, sempre che si possa chiamare delitto questo atto su una vecchia, sorda, scema, cattiva e malata, che non sa nemmeno lei perché vive a questo mondo e che tra un mese, forse, sarebbe comunque morta da sola. (Ghidini, p. 159-160)
Il rovello della coscienza e il “castigo”
È l’essenziale della trama del romanzo. Ma non basta questo, che è poi narrato nei dettagli e in un vorticoso susseguirsi di situazioni che sembrano coinvolgere scrittore e lettore, come se si volesse entrare nella coscienza dell’esecutore di un simile gesto estremo. In effetti, più che il delitto, conta poi nella trama il rovello tormentoso della coscienza, perché proprio a quel livello si produce il male, e nello stesso tempo quel tipo di pena che diventa il castigo, ben più pesante della stessa detenzione al confino estremo o nel carcere più duro. Lì si deve leggere la presenza del male che corrode l’uomo e con esso poi la stessa società. Se certi delitti vengono trattati con tutte le attenuanti del caso per gli ambienti degradati e condizionanti, per la psicologia estremamente fragile, poi però bisogna fare i conti con quel lavoro della coscienza individuale nel cui segreto va analizzato il male dell’uomo e il possibile bene di redenzione che ne deve uscire. Ecco perché è più opportuno leggere dal testo il tormento della coscienza che segue al delitto e che diventa poi l’itinerario del recupero. Questo si gioca proprio nel lavorio interiore, più ancora che non a partire dalle indagini della polizia per venire a capo di quel duplice delitto, tanto efferato quanto assurdo, se non per una coscienza traviata. Dostoevskij racconta nei dettagli sanguinosi il duplice omicidio: viene uccisa con l’accetta la vecchia usuraia, ma anche la sorella che sopraggiunge nello stesso momento ed è sacrificata in questa mattanza come agnello innocente. Allo scrittore comunque interessa anche scrutare nella coscienza dell’omicida. E qui si vede il tormento interiore …
Il terrore lo invadeva sempre più, specialmente dopo quel secondo assassinio (è stata pure uccisa la sorella Lizavèta, che non era affatto sordida come la vecchia, di cui l’autore vorrebbe giustificare quel tipo di morte truculenta), proprio impreveduto. Voleva fuggire di lì al più presto. Se in quel momento fosse stato in grado di veder le cose con maggior esattezza e di ragionare; se avesse potuto ponderare tutte le difficoltà della sua situazione, rendersi conto di come essa fosse disperata, mostruosa e assurda, e se, nello stesso tempo, avesse potuto capire quanti ostacoli gli restavano ancora da superare e quanti misfatti, avrebbe, forse, dovuto commettere per strapparsi di lì e recarsi a casa, molto probabilmente avrebbe piantato ogni cosa e sarebbe andato subito a denunciarsi da sé, non già perché avesse paura, ma soltanto perché provava orrore e disgusto di ciò che aveva fatto. Ora, per nulla al mondo, si sarebbe avvicinato al baule, per nulla al mondo sarebbe tornato nelle stanze. Ma, poco per volta, cominciò a sentirsi come distratto, cadde, anzi, in una specie di fantasticheria; in certi momenti pareva che si dimenticasse di se stesso, o meglio, che dimenticasse l’essenziale e s’attaccasse alle inezie. Però, data un’occhiata in cucina e visto sulla panca un secchio, per metà pieno d’acqua, pensò di lavarsi le mani e di lavare anche l’accetta. (Delitto e castigo, p. 80-81)
La ricerca più profonda del male
Incomincia di qui non solo il lavoro degli inquirenti per la ricerca dell’assassinio, ma soprattutto quel lavoro che è già “castigo” o pena con cui l’uomo, irretito dal male, deve risalire la china, conoscendo la sua espiazione. Secondo gli schemi filosofici di Berdjaev questo lavoro interiore non è solo legato alla scienza della psicanalisi, che anche nel resto d’Europa produceva romanzi di questi genere, pur senza questo spessore; esso è soprattutto un’esigenza dello spirito, e anche in Dostoevskij si chiarirà nel suo “Pentateuco”, cioè l’insieme dei suoi ultimi cinque romanzi, tutti segnati da questa ricerca, che avrà il suo compimento nel capolavoro. Nelle ricerche di natura filosofica e scientifica circa il male psichico si tendeva, come ancora si tende, ad attribuire in larga parte alle responsabilità di natura sociale, se alcuni soggetti, molto fragili, potevano essere assorbiti nella spirale del male, fino alle aberranti scene di delitti particolarmente gravi e odiosi: il singolo arriva a sbagliare perché molto condizionato da un ambiente degradato: questa poteva essere indubbiamente una lettura affascinante e in parte anche legittima, soprattutto quando si pensa che nel frattempo un po’ su tutti i piani si tendeva a dare spazio alle analisi di tipo sociologico e a considerare sempre più l’uomo nel suo inserimento dentro la società. Ma per Dostoevskij la lettura sociologica, o addirittura “socialista”, risulta insufficiente a comprendere il male che è presente nell’uomo.
Se l’uomo è solo è solo un riflesso passivo dell’ambiente sociale esterno, se non è un essere responsabile, allora non c’è uomo e non c’è Dio, non c’è libertà, non c’è il male e non c’è il bene. Tale degradazione dell’uomo, tale rinuncia alla sua origine divina suscita lo sdegno di Dostoevskij. Egli non può parlare tranquillamente di questa dottrina, così diffusa ai suoi tempi, ed è pronto a sostenere le pene più rigorose in quanto rispondenti alla natura di esseri responsabili, liberi. Il male è insito nel profondo della natura umana, nella sua libertà irrazionale, nel suo allontanamento dalla natura divina, e la sua origine è interiore. I partigiani di un sistema rigoroso di pene considerano la natura del delitto e la natura dell’uomo in generale più seriamente che gli umanitari (con questo termine il saggista sta pensando in modo particolare a quel mondo di socialisti che in nome del loro umanesimo vogliono una rivoluzione liberatrice e libertaria, presto divenuta illiberale e liberticida) con il loro misconoscimento del male. In nome della dignità dell’uomo, in nome della sua libertà, Dostoevskij afferma la necessità della pena per ogni delitto. Questo l’esige non una legge esterna, ma, dal suo profondo, la libera coscienza dell’uomo. … Se esiste l’uomo, se esiste la personalità umana nella dimensione della profondità, allora il male ha un’origine intima, non può essere il risultato di condizioni occasionali dell’ambiente esterno. Così risponde alla dignità più alta dell’uomo, alla sua divina origine pensare che la via del dolore espii il delitto e consumi il male. È essenziale per l’antropologia di Dostoevskij l’idea che solo attraverso la sofferenza l’uomo si eleva. La sofferenza è indice di profondità. (Berdjaev, p. 68-69)
Si tenga presente che anche il filosofo, commentatore e “critico” del grande scrittore rosso, Nikolaj Berdjaev (1874-1948) vive una tormentata vicenda personale con l’approdo al marxismo rivoluzionario che lo vede partecipe della rivoluzione bolscevica, per poi allontanarsi da essa immediatamente, quando ne vede gli esiti “disumani” e “illiberali”. Oltre all’esilio, vissuto in Francia, sarà per lui naturale il recupero della dimensione spirituale, conosciuta nell’ambito ortodosso, anche ad essere critico della forma istituzionale con cui si presentava la Chiesa locale.
Non è stato da meno neppure Dostoevskij. Per entrambi comunque la sola via possibile per uscire dal male, mediante l’espiazione delle colpe, è quella di seguire Cristo, colui che ha davvero espiato per tutti.
L’espiazione ristabilisce la libertà dell’uomo, gli restituisce la libertà. Cristo Espiatore è la libertà. … Se non c’è Dio, se l’uomo stesso è dio, allora tutto è permesso. … Raskol’nikov … crede che tutto sia permesso, e vuole provare la sua potenza. … Può un uomo straordinario, chiamato a beneficare l’umanità, uccidere l’essere umano più insignificante e più laido, una ripugnante vecchia usuraia, che non fa agli uomini nulla all’infuori del male, per aprirsi con ciò la via a beneficare in futuro gli uomini? E’ lecito ciò? Con una forza sorprendente appare in Delitto e castigo che ciò non è lecito, che un uomo simile uccide se stesso spiritualmente … L’uccisione arbitraria sia pure dell’ultimo degli uomini, sia pure dell’uomo più nocivo non è ammessa dalla natura spirituale dell’uomo. Quando un uomo nel suo arbitrio annienta un altro uomo, distrugge anche se stesso, cessa di essere uomo, perde la sua immagine umana, e la sua personalità comincia a dissolversi. … (Raskol’nikov) ha compreso che è facile uccidere un uomo, che quest’esperienza non è così difficile, ma che ciò non dà alcuna forza, che ciò priva l’uomo della sua energia spirituale. (Berdjaev, p. 72-74)
IL MALE RADICATO NELLO SCRITTORE
L’esperienza diretta del male
Ciò che Dostoevskij cerca di analizzare nell’animo umano non è solo un lavoro a tavolino verso una umanità che appare nei suoi “tipi” estremi, i personaggi dei suoi romanzi, di cui dipinge tratti caratteriali, a volte a tinte forti, come dei casi da psicanalisi; egli mette in gioco anche se stesso, perché il male ce l’ha terribilmente radicato e per lui si esprime nella frenesia del gioco. Nello stesso anno in cui scrive “Delitto e castigo”, esce pure “IL GIOCATORE”, che il suo editore costringe a scrivere in poco tempo, entro il 1 novembre 1866, per non rischiare di veder perdere i diritti d’autore delle sue opere. Grazie all’aiuto della stenografa, Anna Grigor’evna, che poi diventa sua moglie, la seconda, riesce a portare a termine questo romanzo che vede la mania del gioco diventare sempre più dominante fino a far perdere, non solo nel gioco, ma anche nell’animo. È una rovina che ha il sapore dell’annientamento e del lento inesorabile morire. Eppure anche qui affiora la speranza della risurrezione, quella che appare nelle ultime battute del romanzo stesso.
Di me non parlo proprio. D’altronde … d’altronde, per il momento non è questo il punto: sono solo parole, parole, parole, e invece ci vogliono fatti! Adesso quel che conta è la Svizzera! Domani, oh, se fosse possibile partire domani stesso! Rinascere, risorgere. Bisogna dimostrare loro … Che anche Polina sappia che io posso essere un uomo. Basta soltanto … D’altro canto, adesso é tardi, ma domani … Oh, me lo sento, e non può andare altrimenti! Ora ho quindici luigi d’oro e ho iniziato con quindici gulden! Se solo cominciassi con cautela … possibile, possibile che io sia un ragazzino! Possibile non capisca che sono un uomo perduto. Ma perché mai non potrei risorgere? Sì! Basterebbe soltanto, per una volta almeno nella vita, essere calcolatore e paziente, e il gioco sarebbe fatto! Basterebbe soltanto, per un’unica volta, esser fermo di carattere, e in un colpo solo potrei cambiare tutta la mia sorte! L’importante è la fermezza di carattere. Dovrei solo ricordare che una cosa del genere mi è successa sette mesi fa a Roulettenburg, prima della mia rovina definitiva. Oh, quello è stato un notevole caso di risolutezza: quella volta avevo perso tutto, tutto … Uscii dal casinò, mi frugai e dal taschino del panciotto spuntò ancora un gulden: “Ah, dunque ci sarà di che pranzare!”, pensai tra me e me, ma, fatto un centinaio di passi, ci ripensai e tornai indietro. Puntai quel gulden sul manque (quel giorno mi ero incaponito sul manque) e, davvero, c’è un che di particolare nella sensazione che provi, quando, solo, in un paese straniero, lontano dalla patria e dagli amici, senza sapere che cosa mangerai a cena, punti l’ultimo gulden, l’ultimo, l’ultimissimo! Vinsi e in capo a una ventina di minuti uscii dal casinò, con centosette gulden in tasca. È un fatto! Ecco quel che in certe occasioni può significare l’ultimo gulden! E che cosa sarebbe successo, se quella volta mi fossi perso d’animo, se non avessi avuto il coraggio di decidermi? … Domani, domani finirà tutto! (Il giocatore, p. 176-7)
In questa manipolazione che l’avidità di denaro genera nell’uomo non è catalogata una classe sociale, non è coinvolta una umanità ai margini; è piuttosto un “io” narrante che davvero corrisponde a colui che è l’autore del romanzo. Così Dostoevskij non legge in esso qualcosa o qualcuno di estraneo, ma la propria persona che, dopo il processo disumanizzante della Siberia, che lo fa essere abitante del “sottosuolo”, anche a provare finalmente la libertà, deve amaramente constatare che una simile disumanizzazione continua ed in maniera sempre più devastante, perché annichilisce. Egli in effetti si sente totalmente svuotato da una mania che lo riduce al nulla: “Chi sono io ora?” – prova a definirsi – “Uno Zero!”. È il totale annientamento. Il protagonista, che è pur sempre lo stesso scrittore …… continuerà la sua nomade esistenza disincarnata, conoscendo varie forme di degrado, nella vana attesa della vincita finale e di un’impossibile risurrezione nella terra di future chimere o destini misteriosi dostoevskijani, la Svizzera … (Ghidini, p. 157)
Come si può constatare da questi assaggi fra testi suoi e commenti critici, Dostoevskij, sia per le sue vicende personali, sia per la gran parte dei suoi romanzi, è stato davvero “divorato” dal male, quello che fisicamente si traduceva anche nella epilessia, la quale più volte gli causava disagio. Ma soprattutto si sentiva risucchiato in quel genere di male, che non lo tocca solo a livello fisico e psicologico, ma soprattutto a livello spirituale. Anche a venire sempre più compresso dal male e a sentire compromessa la sua stessa esistenza, Dostoevskij non perde la speranza di risorgere: essa gli deriva dallo stesso vangelo, soprattutto dalla pagina del vangelo di Giovanni che racconta il miracolo della risurrezione di Lazzaro. Trova l’occasione non solo per una fugace citazione, ma soprattutto per farne come una esegesi, che rivela la sua familiarità con quel mondo, che per lui non è solo il libro dei vangeli ma è il vangelo stesso divenuto anima e vita per la sua stessa esistenza. Dominante nel suo vivere così profondamente turbato dal male, è comunque la figura del Cristo in cui vede Dio che si fa uomo, il solo modo che ha l’uomo di trovare la sua salvezza. L’uomo non può diventare Dio e non deve pretendere di esserlo,
se non perché Dio si è abbassato al suo vivere per mettervi il suo Spirito. |
Fino alla fine egli negherà la razionalizzazione della società umana, e ogni tentativo di porre il benessere, il buon senso e la prosperità al di sopra della libertà, negherà il futuro palazzo di Cristallo, l’armonia futura, fondata sull’annientamento della personalità umana. Ma Dostoevskij conduce l’uomo per le vie estreme dell’arbitrio e della rivolta, per rivelare che nell’arbitrio si uccide la libertà, che nella rivolta si nega l’uomo. la via della libertà conduce o all’uomo-dio e su questa via l’uomo trova la sua fine e la sua rovina, o al Dio-uomo e su questa via trova la sua salvezza e il consolidamento definitivo della sua immagine. L’uomo è tale solo in quanto è immagine e somiglianza di Dio, in quanto è Dio. Se non c’è Dio, se lui stesso è Dio, non c’è neppure l’uomo, allora perisce anche la sua immagine. Solo in Cristo si risolve il problema dell’uomo. |
(Berdjaev, p. 39) |
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Conclusione |
Indubbiamente in questa sua esistenza, segnata dal male e dominata da “demoni”, non sembra albergare la speranza. Ma per uno che si sente pure continuamente “salvato” da una grazia che è di gran lunga superiore a quella sperimentata davanti al plotone di esecuzione, la riflessione non è affatto dominata da un male inesorabile, ma dalla prospettiva di una salvezza sempre possibile, perché sempre alimentata in una religiosità non riconducibile alla sola appartenenza confessionale, a cui pure dice di aderire. Dostoevskij sente la Russia nella sua anima profonda; avverte che in essa si stanno scatenando i demoni. E tuttavia anche per essa c’è l’alba della risurrezione … |
BIBLIOGRAFIA |
1. |
Nikolaj Berdjaev |
LA CONCEZIONE DI DOSTOEVSKIJ |
Einaudi, 2002 |
(il saggio è stato scritto nel 1923) |
2. |
Maria Candida Ghidini |
DOSTOEVSKIJ |
Salerno Editrice, 2007 |
3. |
Fedor Dostoevskij |
IL GIOCATORE … |
Newton Compton, 2020 |
4. |
Fedor Dostoevskij |
DELITTO E CASTIGO |
Newton Compton, 2020 |
5. |
Fedor Dostoevskij |
L’IDIOTA |
Newton Compton, 2020 |
6. |
Fedor Dostoevskij, |
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO |
Rizzoli, 2016 |