FEDOR DOSTOEVSKIJ nel 1876
INTRODUZIONE
La questione del male continua
Sempre e solo il male. Ciò che domina nella vita e nelle opere di Dostoevskij è il male. E tuttavia non è qualcosa di disperato e di disperante. Si potrebbe dire però che esso diventa ossessivo, anche perché tra l’epilessia che lo assale frequentemente, il demone del gioco che lo prende e lo seduce senza scampo, e la necessità di sfuggire ai creditori e agli editori, egli si sente attanagliato e sempre più avvinto. Se rifugge dall’idea che il male debba essere cercato e trovato in un sistema che corrompe, che annienta, che tritura, volendo addossare le colpe e le responsabilità del proprio male a chi attorno appare irretito in ideologie perverse e pervertitrici, non può comunque negare che siano in corso in Europa e in Russia delle trasformazioni che hanno in sé il germe della rovina.
I mali nell’ambito familiare
Ma le sue ossessioni non vengono solo dal sottosuolo di un mondo in ebollizione, perché la società, sempre inquieta, è alla ricerca di un equilibrio, mai totalmente raggiunto. C’è pure un sottosuolo che gli appartiene, che è il suo stesso vivere contrassegnato da una serie di vicende con le quali è messo a dura prova chiunque, in modo particolare lui, già toccato da esperienze al di là di ogni limite immaginabile.
Al principio del 1865, Dostoevskij scorgeva attorno a sé soltanto morte, deserto e fantasmi. Il 15 aprile del 1864 era morta la prima moglie, di tisi, dopo una lenta agonia. Negli ultimi mesi di vita, mentre nella stanza accanto il marito modulava la voce grottesca e furibonda dell’“uomo del sottosuolo”, Mar’ja Dmitrievna sputava sangue. La morte tornò presto a visitare Dostoevskij. Nel luglio dello stesso 1864, scomparve suo fratello Michail, il più amato, in-sieme al quale aveva pubblicato due riviste, “Il tempo” ed “Epoca”. Dostoevskij rimase sconvolto della nuova perdita. “Letteralmente non m’era rimasto nulla per cui vivere” scrisse più tardi. “Stringere nuovi legami, creare una nuova vita! Mi ripugnava anche il solo pensarci. E per la prima volta sentii che non c’era nulla con cui sostituirli, che al mondo amavo soltanto loro, e che un nuovo amore non si può avere e neppure si deve averlo. Tutto, intorno a me, fu freddo e deserto”. Morendo, Michail aveva lasciato quindicimila rubli di debiti. Dostoevskij si impegnò a pagarli, e a mantenere la vedova del fratello con quattro figli, l’amante del fratello con un figlio, un altro fratello alcolizzato, e il figlio della prima moglie, Pasa, insolente e presuntuoso, che divideva il suo appartamento di Pietroburgo. (Citati, p. 281)
I mali nell’ambito sociale e politico
In un simile contesto familiare chiunque si troverebbe più che mai provato a livello psicologico; lui, in modo ancor più forte, perché queste disgrazie si aggiungono alle tante già sperimentate in precedenza. Ma nel stesso tempo ciò che gli prospetta il quadro sociale e politico di quegli anni è pure motivo di preoccupazione e spesso anche di sconcerto. In presenza di un continuo movimento del quadro europeo, dove nuove nazioni andavano formandosi in antagonismo ai vecchi Imperi centrali, che apparivano sempre più in crisi e in una ormai molto probabile dissoluzione, Dostoevskij avvertiva che la stessa Russia, a cui era molto legato, viveva la presenza di “demoni” che avrebbero portato allo sfacelo non solo una istituzione politica come lo zarismo, ma la stessa “anima” russa. E su questo fronte egli voleva combattere per salvare quest’anima!
Ancora una volta è preso dal vortice del male, che non è solo quello dell’individuo, mai sufficientemente libero dalle proprie passioni, ma è anche quello delle ideologie, diffuse in Russia e provenienti dal resto d’Europa. Dunque, queste nuove idee non appartengono all’anima russa, ma di fatto la devastano e la incancreniscono. E su questo influsso era necessaria una opportuna riflessione, che lo scrittore propone sempre con lo strumento del romanzo, più adatto, secondo lui, delle stesse correnti filosofiche e dei libri che ne veicolano il pensiero, a far pervenire un po’ dovunque il suo contributo. Il suo lavoro non si riduce, anche in questo caso a fare delle analisi di tipo sociologico, e neppure a voler discutere le traduzioni operative di certe ideologie politiche di moda, ormai dilaganti. Del resto le conoscenze che aveva acquisito su queste ideologie, che qua e là si facevano sentire non solo come dibattito politico, ma anche come atti di ribellione e di sobillamento, provenivano da quei Paesi europei che lui negli anni ’60 dell’Ottocento vedeva con i suoi occhi. Qui era fuggito per allontanarsi dai debiti contratti, dall’impossibilità di avere pace per poter scrivere e in questo modo rispondere ai creditori; ma dove era arrivato nelle diverse città europee, il demone del gioco prorompeva e lo tormentava …
… ai primi di agosto del 1869, dopo un lungo soggiorno a Ginevra,
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Milano e Firenze, i Dostoevskij erano di nuovo a Dresda, dove lui venne iscritto nei registri di polizia come “un tenente russo in ritiro e rentier” – amara ironia per un “forzato della penna” (…)(Citati, p. 318)
Non poteva più sopportare l’esilio. Lì, a Dresda, si sentiva come su un’isola deserta. Non c’erano pensieri russi, né preoccupazioni russe, e quasi nessun libro russo, e pochi volti russi. Qualsiasi lettera giungesse da Pietroburgo o da Mosca, provocava in lui un’emozione profonda, che si prolungava per molti giorni. “Quanto desidero la Russia – ripeteva da anni – che nostalgia provo della patria, a che punto mi sento spaventosamente infelice! Leggo i giornali fino all’ultimo segno tipografico”. E poi: “Penso alla Russia e me ne ricordo tutti i giorni fino ad esserne ubriaco, tanto ho voglia di ritornarci, costi quello che costi”. Mentre scriveva I Demoni, aveva l’impressione che la società russa gli sfuggisse: per quanto leggesse i giornali, gli sembrava di essere tagliato via dalla “corrente della vita”; aveva bisogno di tornare a guardare – luoghi, volti, situazioni –, e soprattutto di ascoltare le voci, quelle inconfondibili voci, che echeggiavano nel suo sonno. Diceva che non sapeva nemmeno più scrivere bene. (…) (Citati, p. 319)
Leggeva tre giornali russi ogni giorno: fino all’ultima riga, frugando tra le notizie politiche, la cronaca nera e i resoconti giudiziari, cosa poteva evocare la patria lontana. Aveva una vera passione per i giornali, perché la sua “seconda vista” gli faceva scorgere tra avvenimenti in apparenza banali il senso stesso della realtà. “Tutta la realtà – diceva – ce la facciamo passare sotto il naso. Chi, finalmente, noterà i fatti, e si sprofonderà dentro di loro?”. Nel maggio e nel dicembre 1869, e nell’anno successivo, lesse specialmente sulla Gazzetta di Mosca degli articoli su una cellula terroristica, che Sergej Nečaev, un allievo di Bakunin, aveva organizzato tra gli studenti di Mosca. Nečaev aveva scritto delle parole che il tempo avrebbe fatto diventare sinistramente famose: “Il rivoluzionario non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione … Conosce un’unica scienza: la scienza della distruzione”. Il 21 novembre 1869 il gruppo di Nečaev uccise, nel parco dell’Accademia di agricoltura di Mosca uno studente che voleva abbandonare la società segreta. Dostoevskij aveva il dono di leggere attraverso i giornali: bastava il resoconto di un processo, perché la sua terribile fantasia oggettiva scorgesse da lontano, attraverso i fogli di carta, il viso del criminale, i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole, la sua condizione. Anche questa volta fu così. Quando lesse la notizia del delitto, vide Nečaev: lo comprese come solo oggi gli storici lo comprendono; e lo trasformò in Pëtr Stepanovič Verchovenskij, il suo alter ego nei Demoni. (Citati, p. 321)
“I DEMONI”
Genesi del romanzo
È dunque un fatto di cronaca che lo avvince e gli dà spunto per un nuovo romanzo, che assume sempre più la caratteristica del pamphlet contro le ideologie provenienti dal mondo occidentale e che causavano tante tensioni, sfociate in attentati, uccisioni, distruzioni e soprattutto il disorientamento continuo di molti giovani. In questo conati rivoluzionari lo scrittore legge la continuazione di quanto egli stesso aveva sperimentato nei suoi anni giovanili, quando il movimento decabrista si era fatto influenzare dalle idee “carbonare” di coloro che si opponevano alla Restaurazione. In Russia tutto questo risultava un prodotto del mondo occidentale, che mal si adattava con la realtà culturale e sociale radicata nel territorio russo e soprattutto nella sua storia.
Le questioni politiche e le questioni sociali sullo sfondo
Le ideologie che avevano trovato un buon terreno nelle città russe, non certo nelle campagne e nella profonda provincia della Grande Russia, si rifacevano a quelle che erano in ebollizione nel resto dell’Europa, e che ogni tanto manifestavano la loro presenza e la loro virulenza con episodi traumatici. Con essi si sperimentava la possibilità di ribaltare il sistema, l’assetto che aveva preso l’Europa nella prima metà dell’Ottocento. In primis spingeva a sovvertire il sistema della Santa Alleanza e la Restaurazione, che voleva cancellare gli effetti della rivoluzione francese e del fenomeno di Napoleone, quel fenomeno che aveva aperto la strada al risveglio del senso di nazionalità. In nome delle “libertà borghesi”, affermate e difese negli anni della Rivoluzione, si cercava di ripristinare almeno la forma costituzionale dello Stato, con la quale si sperava di attenuare il sistema della monarchia assoluta, quella che, soprattutto nell’ambito de-gli Imperi si voleva mantenere come impianto essenziale e fondamentale per garantire l’unità territoriale, in presenza di forze nazionaliste ritenute disgregatrici. Poi di fatto queste stesse forze finiscono in alcune realtà per aggregare nuovi Stati, come succede nella seconda metà dell’Ottocento per Germania e Italia. Ma oltre a questi fenomeni, si andavano affermando nuove ideologie, che prima di considerare nuovi assetti costituzionali, cercavano di entrare nel fenomeno della dilagante industrializzazione: qui, secondo la visione marxista, si concentrava il grande capitale nei nuovi ceti borghesi, ormai più forti dell’aristocrazia terriera, e nello stesso tempo andava crescendo il fenomeno del proletariato con il nuovo mondo operaio, che entrava sempre più prepotentemente come fondale (e non più solo lì) dei grandi racconti a sfondo sociale. La Russia appariva sempre più arretrata rispetto al cammino intrapreso dal capitale industriale nel resto d’Europa, e i fenomeni di contestazione e di ribellione si avvertivano in modo spesso molto velleitario, solo nelle città dove attecchivano le idee provenienti dal centro Europa. Dostoevskij è un grande ammiratore dei romanzi inglesi a sfondo sociale. Ma lui va oltre quei fenomeni e risulta sempre più come un precursore dei fenomeni che sarebbero deflagrati anni dopo. Viene per questo ritenuto un profeta, uno che anticipa i tempi nel riconoscere i veri problemi di fondo al di là di ciò che la cronaca deve registrare. Indubbiamente egli parte dalla cronaca, perché nella trama dei suoi romanzi che sono dunque legati alla sua inventiva, si può rintracciare qualche segnale di quanto la gente che leggeva poteva riscontrare nelle vicende del tempo, soprattutto quando que-ste apparivano davvero sensazionali e venivano poi seguite anche nella cronaca giudiziaria di processi, tanto famosi quanto complessi.
Il recupero dell’anima russa
Quello che premeva a Dostoevskij non era affatto la curiosità, a volte anche oggi morbosa, circa i dettagli degli episodi criminosi o, peggio ancora, circa le dichiarazioni che uscivano dai processi; egli voleva andare oltre per riconoscere in quelle situazioni un sentire e un agire che non rientravano nella storia, nella cultura, nella spiritualità russa, in quella che potremmo definire l’anima russa. Sembrava che si scatenassero i diavoli dell’Apocalisse o che i diavoli stessi, liberati dall’uomo posseduto, andassero a finire nel branco di porci che poi precipitava nel lago, come racconta l’episodio evangelico, raccontato dai sinottici circa l’indemoniato di Gerasa. Questo episodio, inquietante anche per la gente del luogo, secondo quanto narra l’evangelista, risulta allo scrittore emblematico: le idee rivoluzionarie, provenienti dall’Europa, diventano devastanti in Russia, e possono portare al precipizio, in quanto esse, incarnate da tanti diavoli, come sono i protagonisti del romanzo, come sono i protagonisti degli episodi più sanguinosi di quegli anni, possono portare la Russia al suo precipizio. C’è chi vede in questa sua visione una sorta di profezia circa tutto quello che poi in effetti si è scatenato con la rivoluzione, che si è prodotta con il sovvertimento totale dell’anima profonda russa.
Se l’ateismo genera solo distruzione, l’accettazione dell’esistenza di Dio non diventa allora un problema centrale, urgente a cui nessuno può sottrarsi? E ancora: la politica, che ha sempre come conclusione, per Dostoevskij, l’inserimento dell’uomo in un ingranaggio sociale volto a schiacciare e annullarne i valori, non è forse prodotto umano di matrice demoniaca? E l’assassinio politico, anche se motivato da giustificazioni ideologiche, non è sempre e soltanto l’inammissibile, arbitraria soppressione di un uomo da parte di altri uomini? (Malcovati, Introduzione, p.7)
Chi sono “i demoni”?
Come è nella visione dello scrittore, questi demoni sono concretamente delle persone, le quali, come nel racconto del romanzo, sono imbevute di ideologie, ritenute aberranti, soprattutto perché derivano non dalla storia e dall’anima profonda russa, ma a partire da un mondo che appare estraneo alla Russia, anche quando questa ha bisogno certamente di svecchiare le sue strutture, senza per questo perdere la sua anima. Ovviamente se essa la perde, allora si scatenano i demoni, quelli che poi vediamo all’opera con il prorompere e lo scontrarsi di idee, che portano soprattutto a sacrificare tante persone, comprese quelle che si mettono al servizio di queste idee e ne rimangono travolte. Poiché in quegli anni le ideologie, già presenti e soprattutto operanti con i tanti episodi di “terrorismo” politico, erano soprattutto il nichilismo, l’anarchismo e l’incipiente socialismo, contro di esse si muove la riflessione che Dostoevskij propone con i suoi racconti: egli vuole raggiungere un più vasto pubblico rispetto a quello che potrebbe toccare con i pamphlet filosofici. Se da una parte egli continua con l’inventiva, perché quanto racconta e i personaggi che mette in campo sono il frutto della sua fantasia, dall’altra parte la modalità narrativa prende la piega di un resoconto giornalistico, per certi versi, perché si ha come l’impressione che egli voglia far intendere che quanto racconta trova il riscontro nella realtà di quegli anni.A dicembre (1869) Fedor Michajlovic legge sui giornali che Ivanov era stato ucciso da Nečaev, per cementare con l’omicidio la fedeltà di una sua cellula eversiva. L’assassinio prima e poi il processo a Nečaev (luglio 1871) viene seguito con molto clamore dalla stampa e con attenzione da Dostoevskij, che si trova proprio nel pieno della scrittura del romanzo. Questo fatto di cronaca, anzi di storia, gli pare importante, quasi il compimento di un presagio: in effetti il “comunismo da caserma” di Nečaev sembra la sinistra realizzazione del delirio dell’uomo del sottosuolo. Dostoevskij, così, decide di scrivere un romanzo pamphlet e, come racconta nel 1870 in una lettera all’amico Majkov, intende mostrare come i demoni (del nichilismo terrorista) sono usciti dall’uomo russo e sono entrati in un branco di porci. (Ghidini, p. 222)
Lo scrittore era rimasto sconvolto da ciò che si diceva in quegli anni e che trovava audience soprattutto nelle menti giovanili, attratte dalle novità e dal desiderio di sovvertire un sistema che pure non capiva la necessità delle riforme.
Dostoevskij era presente all’intervento di Bakunin al congresso della “Lega della pace e della libertà” nel settembre del 1867. Lo descrive in una lettera alla nipote Sofija Ivanova del 29 (11 ottobre 1867): “Sono capitato proprio in mezzo al Congresso della Pace, al quale era convenuto Garibaldi. Questi se ne era andato presto, ma non ci sono parole per esprimere come quei signori, che era la prima volta che vedevo nella realtà e non nei libri, socialisti e rivoluzionari, mentissero dalla tribuna, davanti a 5000 persone. E quella feccia agita l’infelice massa dei lavoratori. Fa tristezza. Hanno cominciato dicendo che, per raggiungere la pace sulla terra, andava liquidata la fede cristiana, bisognava annientare gli Stati grandi e dividere quelli piccoli, eliminare i capitali per far in modo che tutto fosse pianificato. Tutto senza la benché minima argomentazione, tutto imparato a memoria ancora vent’anni fa, perché è rimasto tutto uguale. E la cosa principale: ferro e fuoco e, secondo loro, dopo aver fatto tabula rasa, sarebbe venuta la pace”. (Ghidini, p. 224)
Generazioni a confronto
Qui sentiamo lo scrittore far riferimento a vent’anni prima e dunque alla sua esperienza “rivoluzionaria”, quella che lo porta al plotone di esecuzione. Per lui si sta perpetuando quel male che rovina l’età giovanile con idee urlate e prodotte come slogan, incapaci di cambiare realmente. Di qui la necessità di una riflessione per comprendere la vera natura di questo male, che ha travolto la sua generazione e ancora travolge quella che segue la sua. Evidentemente, per lui, questo succede per il fatto che si dimentica la vera anima russa, inseguendo piuttosto idee che provengo-no dall’esterno e che non comprendono quanto appartiene alla storia del Paese. L’applicazione di queste ideologie finisce per snaturare la Russia stessa, che deve invece fare il suo percorso a partire da una conoscenza profonda della propria anima.
Il romanzo nasce dalla … particolare atmosfera confusa e torbida, dall’ina-sprirsi delle tensioni sociali, dopo la fragile euforia delle prime riforme, dall’infittirsi degli atti terroristici (gli incendi dolosi a Pietroburgo del maggio 1862, attribuiti ai nichilisti, il fallito attentato allo zar del 4 aprile 1866 che aveva sconvolto Dostoevskij e aveva lasciato qualche traccia nel processo compositivo di Delitto e castigo). La differenza è che ora le due epoche non sono semplicemente giustapposte all’interno di reminiscenze o riflessioni personali, ma sono ricomprese in una riflessione teorica e storica sulle cause della violenza e del disordine sociale con le sue ricadute a tutti i livelli: psicologico, educativo-famigliare, economico-politico e religioso. Le due generazioni, quella degli idealisti degli anni Quaranta e quella dei socialisti radicali degli anni Sessanta, i padri e i figli di Turgenev, non sono contrapposte, ma riportate a una genealogia comune: lo sradicamento dal suolo natio, l’infatuazione per idee astratte nate in Europa e non applicabili tout court alla storia russa. I nichilisti rivoluzionari (“uomini di carta”, secondo Šatov) degli anni Sessanta sono nati dall’astrattezza velleitaria degli idealisti della generazione precedente che, dopo la reazione di Nicola I alla rivolta decabrista, si era ritratta nel mondo rarefatto di ideali senza sbocco nell’azione. Le chimere senza presa sulla realtà dei padri avevano generato la negazione dissolutrice dei figli. (Ghidini, p. 225)
I demoni sono dunque persone concrete che incarnano le ideologie diffuse in certi ambienti e che, pur da posizioni diverse e contrapposte, contribuiscono a distruggere l’anima profonda della Russia, con i loro discorsi e con le azioni conseguenti nelle quale si rivela e si scatena il male. A capo di tutto questo sta l’istigatore per eccellenza che è pure il protagonista del romanzo, descritto con particolare efficacia anche nelle sue forme decisamente esagerate. Si tratta di Stavroghin. “Da lui nasce, si riproduce, s’ingigantisce l’infezione che contamina tutti e tutto. Scandali, assassini, suicidi, incendi, profanazioni, stupri, violenze: ovunque il nome di Stavroghin …” (Malcovati, p. 7)
Era un bellissimo giovane sui venticinque anni, e confesso che mi fece colpo. M’ero aspettato d’incontrare uno straccione sporco, rovinato dai bagordi ed emanante odore di vodka. Al contrario, era il più elegante gentlemen di quanti mi fosse mai capitato di vedere, straordinariamente ben vestito e con un contegno degno solo di un signore avvezzo al più raffinato decoro. E non fui io il solo a meravigliarmi: si meravigliava tutta la città, alla quale naturalmente era nota la biografia del signor Stavroghin, con certi particolari, anzi, di cui non era possibile immaginare la provenienza e dei quali – cosa ancor più sorprendente – la metà risultò esatta. Tutte le nostre signore andavano pazze per il nuovo ospite. Si divisero nettamente in due campi: nell’uno Stavroghin era adorato, nell’altro era odiato a morte; ma tanto nell’un caso che nell’altro, le signore uscivano pazze. Alcune erano particolarmente sedotte dall’idea che sull’anima di lui gravasse forse qualche mistero fatale; alle altre decisamente piaceva che egli fosse un assassino. Risulta anche che egli possedeva una cultura considerevole e perfino una certa erudizione. Per stupire noi, naturalmente, di erudizione non ne occorreva molta; ma egli sapeva pronunziarsi anche su argomenti fondamentali e quanto mai interessanti e, ciò che più vale, con notevole assennatezza. Farò notare come cosa curiosa che quasi fino dal primo giorno fu giudicato fra noi una persona di grandissimo senno. Non molto loquace, era distinto senza ricercatezza, straordinariamente modesto e al tempo stesso audace e sicuro di sé più di tutti noialtri. I nostri bellimbusti lo guardavano con invidia e di fronte a lui scomparivano del tutto. Mi colpì anche la sua faccia: i capelli avevano qualcosa di troppo nero, gli occhi chiari qualcosa di troppo calmo e limpido, la carnagione qualcosa di troppo delicato e bianco, il colore delle guance qualcosa di troppo vivace e pure, i denti parevano perle, le labbra fatte di corallo: si sarebbe detto un uomo di straordinaria bellezza, e al tempo stesso era quasi ripugnante. Si diceva che il suo volto ricordasse una maschera, e si parlava molto, fra l’altro, della sua grandissima forza fisica. Di statura poteva dirsi quasi alto. Varvara Petrovna lo guardava con orgoglio, ma anche con persistente inquietudine. Egli rimase con noi sei mesi circa, sempre svogliato, silenzioso, piuttosto imbronciato: si mostrava in società e si conformava con inflessibile attenzione alla nostra etichetta provinciale. Da parte di suo padre era imparentato col governatore, in casa del quale era ricevuto come parente stretto; ma, trascorso qualche mese, la belva mostrò a un tratto gli artigli. (I demoni, p. 51-52)
I quattro demoni del romanzo
Attorno a lui si muovono, come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, quattro figure che incarnano altrettanti demoni, “divorati da passioni ideologiche tutte istillate” da Stavroghin. Essi dunque rappresentano diverse ideologie che sono comunque distruttrici, devastatrici, disgregatrici, soprattutto perché portano a rovina la grande Madre Russia, che invece di rinnovarsi, cerca con l’adeguamento a tutto ciò che viene dall’esterno di superare le sue distanze dal resto dell’Europa, finendo così per rovinarsi.
Pjotr Verchovenskij è la parodia del rivoluzionario, è un bluff ideologico dalla prima all’ultima parola. Intorno a sé non crea un sistema politico coraggiosamente innovativo, ma semplicemente il caos: trame, intrighi, menzogne, capriole verbali, doppi giochi, omissioni. E dal caos trae il proprio tornaconto. Usa le persone per i propri giochi, spesso l’una contro l’altra; usa il padre, lo umilia, lo insulta, usa i membri del gruppo rivoluzionario, terrorizzandoli con l’oscura minaccia della delazione …
Scigaljov è invece il teorico della massificazione dell’umanità: l’umanità va livellata al gradino più basso, tutti vanno ridotti a schiavi e nella schiavitù unificati. Come fare? Abbassare il livello dell’istruzione, schiacciare e sopprimere le menti più evolute, da cui è venuto solo danno, mai vantaggio …
Kirillov, ingegnere disoccupato, è anche lui un fanatico. Il proposito della sua teoria è di negare Dio come fondamento della libertà. L’esistenza di Dio e la libertà illimitata si escludono; o esiste Dio, e allora l’uomo non è libero, o l’uomo è effettivamente libero e allora Dio non esiste e l’uomo stesso è Dio. Tre elementi (negazione dell’esistenza di Dio, libertà assoluta dell’uomo, sua divinizzazione) che culminano tutti nel suicidio, cioè nell’atto gratuito e assolutamente arbitrario con cui l’uomo afferma la propria autonomia assoluta e, sacrificando la propria esistenza, verifica l’inesistenza di Dio …
Šatov ha appreso da Stavroghin non la fede, che nessuno dei Demoni conosce, ma l’idea fanatica della grande missione del popolo russo come portatore dell’idea di Dio; rifiuta perciò il socialismo perché non può accettare che un popolo viva solo secondo i principi della scienza e della ragione. Pur non credendo in Dio (a una domanda diretta, risponde con un futuro: crederò), crede nella ricerca, insita in ogni popolo, del proprio Dio, che ne rappresenta la personalità sintetica: quanto è più forte un popolo, tanto più forte e luminoso è il suo Dio. Il suo misticismo, di stampo slavofilo, lo sottrae al cinico progetto rivoluzionario di Pjotr Verchovenskij e all’omicidio, guidato (non compiuto) da quest’ultimo: anzi, la vittima sarà lui, lui che, nonostante il suo fanatismo, incarna l’etica della comprensione e del perdono. (Marcovaldi, p, 9-11)
Particolarmente significativo è ciò che dice, e quindi rappresenta, Šatov a proposito dell’anima russa, della fede religiosa, della visione che si deve avere del mondo: qui si può riconoscere il tono da pamphlet che il romanzo assume, quando Dostoevskij deve far intendere il suo pensiero circa l’incontro-scontro nel mondo russo delle ideologie provenienti dal resto d’Europa e divenute devastanti. Rimane comunque il fatto che anche a risultare queste pagine intrise di concetti filosofici e di dottrine, proprio perché sono in bocca ad un personaggio, esse appaiono anche vive ed espressive, con una forte e accesa tonalità, da rivelare in esse la passionalità con cui lo stesso scrittore sosteneva le sue convinzioni.
“Sapete voi – cominciò quasi minaccioso, protendendosi in avanti sulla seggiola, con lo sguardo lampeggiante e alzando davanti a sé l’indice della mano destra (evidentemente senza accorgersene) – sapete voi qual è, ora, su tutta la terra, l’unico popolo “deiforo”, che avanza per rinnovare e salvare il mondo nel nome d’un nuovo dio e al quale sono state date le chiavi della vita e della nuova parola … Sapete chi è questo popolo e qual è il suo nome?”.
“Dal vostro modo di fare sono assolutamente tenuto a concludere (e credo, al più presto) che questo popolo è quello russo …”.
“E ridete già: oh che razza di gente!” stava per esplodere Šatov.
“Calmatevi, vi prego; al contrario, aspettavo proprio qualcosa del genere.”.
“Aspettavate qualcosa del genere? E voi, queste espressioni non le conoscete?”.
“Le conosco molto bene; prevedo anche troppo bene dove andate a finire. Tutta la vostra frase, e perfino l’espressione “popolo deiforo”, non è altro che la conclusione del nostro colloquio di oltre due anni fa, all’estero, poco prima della vostra partenza per l’America … Almeno per quanto posso ricordare adesso”.
“La frase è interamente vostra, non mia. È proprio vostra, non è semplicemente la conclusione del nostro colloquio. Non c’è mai stato un “nostro” colloquio. Ci fu un maestro che proferiva parole immense e ci fu un discepolo risuscitato dai morti. Io sono quel discepolo e voi il maestro.”.
“Ma se ricordo bene, voi, proprio dopo le mie parole, entraste in quella associazione, e soltanto più tardi partiste per l’America”.
“Sì, e ve ne scrissi dall’America, vi scrissi tutto. Sì, non potei subito strapparmi cruentemente da tutte quelle cose in cui ero radicato fin dall’infanzia, nelle quali avevo riversato tutti gli entusiasmi delle mie speranze, tutte le lacrime del mio odio … E’ difficile cambiare dei. Allora non vi credetti perché non vi volevo credere e mi aggrappai per l’ultima volta a quella cloaca … Il seme, però, rimase e crebbe. Ma sul serio, ditemi, sul serio, l’avete letta fino in fondo la mia lettera dall’America? Forse non l’avete letta per nulla?”.
“Ne lessi tre pagine: le due prime e l’ultima, e detti una scorsa alla parte intermedia. Avevo però sempre l’intenzione …”.
“Eh, non fa nulla, lasciate stare, al diavolo tutto questo! – fece Šatov con un gesto della mano – Se ora sconfessate le vostre parole di allora sul popolo, come faceste a quel tempo a pronunziarle? Ecco quel che adesso mi pesa.”.
“Non scherzavo con voi neanche allora; cercando di persuadervi forse mi preoccupavo più di persuadere me stesso che voi” proferì Stavroghin enigmaticamente.
“Non scherzavate? In America ho dormito per tre mesi sulla paglia accanto a un … disgraziato e ho saputo da lui che in quello stesso tempo in cui mi mettevate nel cuore Dio e la patria, in quello stesso tempo e forse negli stessi giorni avevate avvelenato il cuore di quel disgraziato, di quel maniaco, Kirillov … Avete stabilito in lui la menzogna e la calunnia e avete spinto la sua ragione fino al delirio … Andate, guardatelo adesso: è opera vostra … Del resto, lo avete visto.”.
“In primo luogo vi farò osservare che Kirillov stesso mi ha detto or ora che è felice e che è buonissimo. La vostra supposizione che tutto questo sia accaduto allo steso tempo è quasi esatta. Beh, e con questo? Vi ripeto, non vi ho ingannati né l’uno né l’altro.”.
“Siete ateo? Ora siete ateo?”.
“Sì.”.
“E a quell’epoca?”.
“Ora esattamente come allora.”.
“Non vi ho chiesto rispetto per me, nel cominciare questo discorso, con la vostra intelligenza avreste potuto capirlo” borbottò Šatov sdegnato.
“Non mi sono alzato alle prime vostre parole, non ho troncato il discorso, non me ne sono andato, sto qui a sedere e rispondo docilmente alle domande e … ai vostri urli: dunque non ho ancora mancato di rispetto a voi.”.
Šatov lo interruppe con un gesto.
“Ricordate la vostra espressione: “un ateo non può essere russo”, “l’ateo cessa subito di essere russo”? Ve lo ricordate questo?”.
“Ah sì?” fece Nikolaj Vsevolodovic in tono interrogativo.
“Ah, lo domandate? L’avete dimenticato? Eppure è una delle più acute osservazioni che abbiate mai fatto su uno dei tratti essenziali dell’anima russa. Non è possibile che l’abbiate dimenticato! Vi ricorderò anche qualcosa di ancora più forte: alla stessa epoca diceste: “chi non è ortodosso non può essere russo.”.
“M’immagino che questa sia un’idea slavofila.”.
“No, gli slavofili di oggi la rifiuterebbero. Oggi il popolo s’è fatto più intelligente. Ma voi andavate ancora più oltre: ritenevate che il cattolicesimo romano non fosse già più cristianesimo: sostenevate che Roma aveva proclamato un Cristo che aveva ceduto alla terza tentazione del demonio e che, avendo annunziato a tutto il mondo che senza un regno temporale Cristo non poteva mantenersi sulla terra, con ciò stesso il cattolicesimo aveva proclamato l’anti-Cristo e così aveva rovinato tutto il mondo occidentale. Voi appunto dimostravate che se la Francia soffriva, la colpa era unicamente del cattolicesimo, poiché essa aveva ripudiato il fetido dio romano e non ne aveva trovato uno nuovo. Ecco quel che foste capace di dire allora! …”.(…) Šatov tornò a chinarsi sulla seggiola e per un attimo, anzi, alzò di nuovo il dito.
“Nessun popolo – cominciò come leggendo rigo per rigo e al tempo stesso continuando a guardare minacciosamente Stavrogin – nessun popolo ancora si è organizzato in base ai principi della scienza e della ragione. Neanche una volta se n’è avuto esempio, salvo forse per un attimo, per stupidaggine. Il socialismo, per la sua essenza, deve essere ateismo, poiché ha appunto proclamato fin dalle prime parole di essere un’istituzione atea e di voler organizzarsi esclusivamente sui principi della scienza e della ragione. La ragione e la scienza, nella vita dei popoli, sempre, ora e fin dal principio dei secoli, hanno adempiuto una funzione solamente secondaria e subordinata; e così faranno fino alla consumazione dei secoli. I popoli si formano e si muovono grazie a un’altra forza che comanda e signoreggia, ma la cui origine è sconosciuta e inesplicabile. Questa forza è quella del desiderio inappagabile di arrivare fino alla fine, forza che però allo stesso tempo nega la fine. È la forza dell’incessante ed instancabile affermazione del proprio essere e della negazione della morte. È lo spirito della vita, come dice la Scrittura, i “fiumi d’acqua viva” il cui essiccamento è tanto minacciato nell’Apocalisse. È il principio estetico, come dicono i filosofi, è il principio etico, col quale essi pure lo identificano. È “la ricerca di Dio”, come più semplicemente lo chiamo io. Lo scopo di ogni movimento popolare, presso ogni popolo e in qualsiasi periodo della sua esistenza, è la ricerca di Dio, del “suo Dio”, che deve essere assolutamente suo proprio, e la fede in lui come unico vero Dio. Dio è la personalità sintetica di tutto un popolo, dalle sue origini fino alla fine. Mai si è visto che tutti o molti popoli avessero in comune un unico Dio, ma ciascuno ha sempre avuto il suo. È segno di decadenza della nazionalità quando gli dei cominciano a diventar comuni. Quando gli dei diventano comuni, muoiono gli dei e la fede in loro insieme coi popoli stessi. Quanto più un popolo è forte, tanto più il suo dio gli è particolare. Mai si è avuto un popolo senza religione, cioè senza la nozione del bene e del male. Ogni popolo ha un concetto suo proprio del bene e del male, il suo proprio male e il suo proprio bene. Quando le nozioni del male e del bene cominciano a divenir comuni a più popoli, allora i popoli si estinguono e le distinzioni stesse fra male e bene cominciano a cancellarsi e a sparire. Mai la ragione è stata capace di definire il male e il bene, o neanche di distinguere il male dal bene, sia pure approssimativamente; al contrario, li ha sempre confusi in modo obbrobrioso e miserevole; la scienza poi ha sempre fornito soluzioni brutali. In questo si è particolarmente distinta la semi-scienza, il più terribile flagello dell’umanità, peggiore della peste, della fame e della guerra, sconosciuta fino al nostro secolo. La semi-scienza è un despota come fino ad oggi non se ne sono avuti mai, un despota che ha i suoi sacerdoti e i suoi schiavi, un despota davanti al quale si sono inchinati con un amore e con una superstizione fino ad ora inconcepibili, davanti al quale trema perfino la scienza, che vergognosamente lo favorisce. Tutte queste son parole vostre, Stavroghin, eccetto quelle sulla semi-scienza: quelle son mie, perché anch’io sono soltanto una semi-scienza e per questo la odio in modo particolare. Ma dei vostri pensieri, delle vostre parole anzi, non ho cambiato nulla, non una sola parola”.(Demoni, p. 217-220)
Può bastare anche solo questo brano per cercare di comprendere il pensiero che tormenta l’autore in riferimento alle demoniache ideologie dilagate in Russia e che sono come un cancro rovinoso capace di distruggere il tessuto connettivo di una nazione: quando si perde la propria identità, la propria natura, inseguendo quello che non appartiene al proprio filone storico, allora dilagano i Demoni …
Le prospettive rivoluzionarie in Russia
In una simile sarabanda di Demoni il racconto assume toni allucinati che fanno pensare ad uno scrittore preso dalla frenesia di raccontare l’Apocalisse imminente: in effetti si ha l’impressione di riconoscere citato il testo biblico per i toni, per le situazioni, per il clima cupo e altamente drammatico, per certe situazioni estreme. Ma qui i tempi non sono quelli delle persecuzioni cristiane, quanto piuttosto della china distruttrice in cui sta precipitando soprattutto il mondo russo, contaminato da idee che non gli appartengono …
Il nichilismo politico russo diventò, tra le mani di Dostoevskij, l’irradiazione di un tema religioso molto più vasto. Siamo agli ultimi giorni della storia: stanno per giungere, o sono già giunti, i prodigi e i mostri; sulla terra soffia il vento di una drammatica imminenza, forse il tempo sta per fermarsi; e Dostoevskij compone la tragica e farsesca Apocalisse dei tempi moderni. (Citati, p. 326)
Da questa visione, che noi continuiamo a definire “apocalittica”, con il comune e diffuso significato che il vocabolo ha di qualcosa di devastante e allucinante insieme, si ha come l’impressione che il romanzo sia il manifesto di un Dostoevskij rivoluzionario. Egli cavalca in anticipo i tempi futuri, quando si scatenerà la rivoluzione, letta in quegli stessi anni come qualcosa di assolutamente inedito e di diverso rispetto a quelle che l’avevano preceduta altrove. In quella che si attuò agli inizi del Novecento, fino alla sua esplosione nel 1917, si voleva leggere un’alba nuova, una specie di liberazione universale, che sarebbe divenuta di tutti i popoli, perché tutti avrebbe visto lì una autentica palingenesi. Ma sarebbe riduttivo pensare che Dostoevskij sia stato una specie di profeta precursore di quanto poi avvenne in Russia: lungi da lui pensare a questo evento, o a un fenomeno del genere. E questo, sia perché non aveva preventivato la rivoluzione bolscevica, sia perché non aveva sollecitato una rivoluzione armata di altro genere per cambiare l’assetto istituzionale o sociale della Russia. Anzi, semmai egli voleva tenere alla larga questi Demoni, proprio perché incompatibili per lui con la storia e la cultura russa. Non per questo si deve pensare che egli fosse una specie di reazionario per il mantenimento dello “status quo”. Egli avvertiva la necessità di un cambiamento nella linea del recupero della vera anima russa e coltivava la speranza in un rinnovamento possibile, perché anche i racconti più tenebrosi, dove si registrano situazioni altamente drammatiche, portano ad uno sbocco positivo, ad un esito che ha pur sempre la speranza di un’alba nuova. Tuttavia la situazione risulta procedere verso uno sbocco che richiede un vero coinvolgimento per evitare lo scatenarsi di una “apocalisse” tremenda. Una lettura che guarda a quanto era in corso d’opera nei primi anni del Novecento è quella fatta da Berdjaev, il quale aderisce inizialmente alla rivoluzione bolscevica, immaginando che in essa si possa avere un’autentica liberazione. Ma già subito egli si rese conto della deriva autoritaria negli anni della guerra civile e se ne tirò fuori, per immaginare una rivoluzione diversa, quella che appunto veniva profetizzata da Dostoevskij non sul piano strettamente politico e istituzionale. Di qui una lettura che voleva cogliere il richiamo “spirituale”, non meno necessario di quello sociale e di quello politico.
Con grande acutezza aveva intuito i fondamenti ideali e il carattere della futura rivoluzione russa, e forse anche di quella mondiale. Dostoevskij è il profeta della rivoluzione russa nel senso assoluto di questa parola. La rivoluzione si è svolta secondo le sue previsioni. Dostoevskij ha rivelato le sue basi ideali, la sua dialettica interiore e le ha dato un volto. Egli è arrivato a scoprire il carattere della rivoluzione russa nel profondo dello spirito, nei suoi processi intimi, non negli eventi esteriori della realtà empirica che lo circondava. I Demoni sono un romanzo non dell’epoca contemporanea, ma di quella futura. Nella realtà russa degli anni 1860-80 non c’erano ancora né Stavrogin, né Kirillov, né Satova, né Verchovenskij, né Sigalev. Questa gente è apparsa da noi più tardi, solo nel XX secolo, quando nelle idee, divenute più profonde, cominciarono ad alitare correnti religiose. (…) L’ostilità di Dostoevskij per la rivoluzione non è l’ostilità dell’uomo all’antica, che difende interessi legati al vecchio modo di vivere. È l’ostilità dell’uomo apocalittico, che sta dalla parte di Cristo nella sua lotta finale con l’anticristo. (Berdjaev, p. 101-2)
Ovviamente per Berdjaev la questione principale era quella del socialismo, con la sua degenerazione nel bolscevismo e nel leninismo. Dostoevskij non poteva ancora vedere la realtà che poi si sarebbe dispiegata negli anni successivi con l’avvento di Lenin e della forzatura, che egli impresse allo stesso marxismo. Ma certamente vedeva già all’opera i segni nefasti di una simile concezione politica. Era naturale per il critico, che si prefiggeva di svelare la “concezione” dello scrittore, fare riferimento anche a questa realtà divenuta dominante negli anni ‘20 del Novecento.
Il problema della natura della “rivoluzione” per Dostoevskij era prima di tutto il problema del socialismo. Il problema del socialismo è sempre stato al centro delle preoccupazioni di Dostoevskij e a lui si devono sul socialismo i pensieri più profondi che siano mai stati espressi. Egli ha compreso che il problema del socialismo è un problema religioso, il problema di Dio e dell’immortalità. “Il socialismo non è solo il problema operaio o del cosiddetto quarto stato, ma è un problema prevalentemente ateo, Il problema dell’incarnazione contemporanea dell’ateismo, il problema della torre di Babele che si costruisce senza Dio,non per raggiungere i cieli dalla terra, ma per abbassare i cieli alla terra”. Il socialismo risolve il problema secolare dell’unione universale degli uomini, dell’assetto del regno terreno. La natura religiosa del socialismo si vede soprattutto nel socialismo russo, un problema apocalittico, rivolto a una catastrofe finale della storia. Il socialismo rivoluzionario russo non è mai inteso come uno stato transitorio e relativo al processo sociale, come la forma temporanea di un assetto economico e politico della società. È inteso sempre come uno stato definitivo e assoluto, come una soluzione dei destini umani, come l’avvento del regno di Dio sulla terra. (…) Il socialismo è un fenomeno dello spirito. Pretende risolvere i problemi ultimi, non gli altri. Vuole essere una religione nuova, soddisfare le esigenze religiose dell’uomo. Il socialismo non sostituisce affatto il capitalismo. Al contrario, sta sul medesimo terreno del capitalismo, è carne della sua carne. Il socialismo vorrebbe sostituire il cristianesimo (…) Dostoevskij ignorò Marx e teoricamente non conobbe una forma più perfetta di socialismo: conosceva solo il socialismo francese. (…) Dostoevskij stesso era alla sua maniera un socialista cristiano, ortodosso, ma questo socialismo cristiano è in tutto opposto al socialismo rivoluzionario, è rivolto alla futura Città di Dio, non alla costruzione della torre di Babele. (…) Il fondo del socialismo è la mancanza di fede in Dio, nell’immortalità dell’anima e nella libertà dello spirito umano. (Berdjaev, p. 104-7)
Ovviamente in queste considerazioni si coglie la particolare visione che ha quest’uomo nella sua valutazione dello scrittore e soprattutto nella valutazione del fenomeno rivoluzionario bolscevico, da lui abbracciato inizialmente con ardore e poi lasciato, ben presto, per la deriva autoritaria che vi riconosce. È la consueta tentazione di voler cercare l’incontro con fenomeni che appaiono molto diversi, con storie addirittura divergenti e incompatibili. Certamente Dostoevskij non ha avuto la possibilità di verificare alla prova dei fatti tutti questi fenomeni che erano solo in corso di elaborazione. Egli vedeva queste ideologie lontane dalla natura profonda della storia e della cultura russa e come tali le avvertiva pericolose, anche per quei fenomeni che li accompagnavano con una gioventù ammaliata e proprio per questo smarrita e abbandonata alle proprie velleità. Descrivendo con la sua bravura di narratore queste derive, si augurava di arginare le peggiori conseguenze dei fenomeni. Mancava invece una proposta alternativa, che sembrava indicata nel ritorno alla fede ortodossa, non sempre ben capita neppure all’interno del mondo religioso della grande Russia. In effetti, se Dostoevskij è indubbiamente efficace narratore delle grandi tragedie, nel suggerire soluzioni che diano speranza, soluzioni sempre cercate, appare “leggero”, “vaporoso”, scegliendo un personag-gio che non sembra neppure appartenergli, tanto risulta … ridicolo.
Malgrado il suicidio di Stavrogin, I Demoni si chiude con una specie di lieto fine: un incantevole lieto fine. Quante volte, liberandosi dal regno atroce dello scorpione, della tarantola e del ragno, Dostoevskij aveva cercato di aprire nelle pagine del libro un balzo o uno scorcio utopico, come quello che aveva salvato Raskol’nikov alla fine di Delitto e castigo. Il doloroso mito mite terrestre e mariano di Mar’ja Lebjadkina; Kirillov che sogna gli angeli; Stavrogin che sogna l’età dell’oro. Ma tutte e tre queste fughe utopiche finiscono nel sangue, nella disperazione e nel trionfo del Ragno. La salvezza viene affidata a un personaggio inatteso: il più leggero e frivolo del romanzo. Come un decaduto e puerile Don Chisciotte, Stepan Trofimovič lascia la casa, vestito come egli immagina debba essere vestito un viaggiatore. È vano e ridicolo come sempre, parla il suo bel francese vaporoso; e sino alla fine Dostoevskij si prende gioco di lui … Proprio sulle labbra di un personaggio così lontano da lui, Dostoevskij pone le parole più amare, annunciando la liberazione dai demoni che si sono impadroniti della Russia – un futuro ancora remoto, una pura speranza –, e un luogo di incontaminata perfezione. (Citati, p. 332)
Se però è vero che Stepan Trofimovič, con il suo irresponsabile culto per la bellezza, diventa il padre ideologico del sovvertimento più radicale, è anche vero che al termine del romanzo ha la forza e la lucidità di riconoscere tutta la stoltezza del proprio liberalismo, di auspicarne la distruzione, di accettare il risorgere della fede del Cristo. deciso a diventare pellegrino, si avvia sulla strada maestra, incontrata una venditrice di Vangeli che lo accompagna, lo assiste, lo cura. E lo riporta, con semplicità d’animo, alla parola divina, alla essenziale verità del sermone della montagna, alla comprensione di sé, della menzogna in cui ha vissuto, all’accettazione del castigo. I demoni, secondo la parabola evangelica, verranno cacciati e si getteranno nel lago: “Quei demoni che escono dal malato e che entrano nei porci sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutta l’immondizia, tutti i demoni e demoni etti che si sono raccolti nella grande e cara malata, la nostra Russia, durante secoli e secoli. Oui, cette Russie que j’aimais toujours. Ma una grande idea e una grande volontà illumineranno dall’alto …”. (Marcovaldi, p, 12)
Conclusione
Noi oggi siamo usciti dall’incubo di ideologie assolutiste che hanno dominato nel Novecento con tutto il carico di guerre e di devastazioni, di morti e di generazioni irretite in un disegno utopistico e ingannevole. Ci sembra di poter respirare e di poter avere davanti un futuro più carico di speranza. Ma anche questo tramonto delle ideologie non ci ha portato a respirare un’aria migliore. Anzi, ci sono altri incubi all’orizzonte. Certamente la lezione che possiamo ricavare dalla riflessione che Dostoevskij fa e lascia è quella di recuperare l’anima profonda, quello spirito che dovremmo riconoscere come l’eredità più grande di una storia europea, segnata da tanti drammi, ma non per questo destinata allo sfacelo. La risurrezione è sempre possibile grazie anche a tante voci positive, che possono suggerire il percorso da intraprendere sul solco tracciato e nel contempo con la ricerca continua che fa andare oltre le debolezze, le fragilità, le deviazioni, le malattie insorgenti. Il male continua ad esserci, ma ci sono anche gli antidoti con i quali è possibile “scoprire” – ecco il vero significato della parola “apocalisse” – una via d’uscita, una via di salvezza …
BIBLIOGRAFIA
1.Nikolaj Berdjaev, LA CONCEZIONE DI DOSTOEVSKIJ –Einaudi, 2002 (il saggio è stato scritto nel 1923)
2.Maria Candida Ghidini, DOSTOEVSKIJ – Salerno Editrice, 2007
3.Fedor Dostoevskij, I DEMONI – Newton Compton, 2020
4.Pietro Citati, IL MALE ASSOLUTO – Mondadori, 2000