INTRODUZIONE
La celebrazione del bicentenario della nascita di Dostoevskij è l’occasione per cercare di conoscere meglio questa figura, indubbiamente grande nel mondo della narrativa ottocentesca, e non solo, e soprattutto appassionante, anche a risultare inquietante e difficile da seguire nei suoi libri. Capita spesso che alcuni estimatori e chi si avventura nelle sue storie si trovino in difficoltà a proseguire la lettura, quando ormai ci si è inoltrati. Non è immediatamente capace di attirare, se non per certe situazioni che possono suscitare a volte l’orrore e a volte l’interesse per le questioni che vi stanno sottese. E tuttavia, quando uno è in grado di superare una certa soglia, poi i suoi racconti avvincono, anche a doversi trovare in una specie di vortice. Ci si rende conto inoltre che ben al di là della lettura sociologica o psicanalitica che spesso si pensa di fare con i suoi romanzi, qui abbiamo la possibilità di cogliere, almeno in parte, quale possa essere l’anima del popolo russo, che egli tenta di scavare e di far venire allo scoperto. Si tratta di un mondo, quello della Russia, che ci affascina e nello stesso tempo ci lascia come disorientati, perché è un Paese, che, pur a considerarlo, per la geografia, appartenente all’Europa, non risulta omologabile a quello degli altri popoli del continente, come se la contaminazione con il grande mondo siberiano, facesse gravitare questa gente dentro una realtà, che è grande e infinita, come lo è lo spazio geografico di quell’immenso territorio. Alle prese con la costruzione dell’Europa, che già fatica a riconoscersi dentro realtà molto diverse, non possiamo escludere da essa la cosiddetta “Santa Russia”, che tanta parte ha avuto e continuerà a conservare con il mondo europeo, anche se oggi, a livello politico, sentiamo che essa vuole far parte “per se stessa”. Se vogliamo comprendere l’anima profonda della Russia non possiamo non passare da Dostoevskij, soprattutto considerando il suo discorso su Puškin (1799-1837), tenuto l’8 giugno 1880, nel quale egli riconosce colui che ha forgiato l’anima russa liberandola dalle contaminazioni del mondo occidentale, da cui provenivano quelle ideologie divenute “I Demoni”, dissacratori e distruttori.
Dostoevskij considera i Russi come il “popolo portatore di Dio”, l’“unico popolo portatore di Dio”. Ma una simile coscienza messianica non può essere ritenuta un segno di umiltà. In essa insorge l’antico orgoglio e l’alta coscienza di sé del popolo ebraico. (Berdjaev, p. 123)
L’ANIMA RUSSA
Missione salvifica della Russia
Tenuto conto che siamo nell’Ottocento, a noi potrebbe sembrare che una simile rivendicazione suoni come patriottismo o come indice di nazionalismo. Eppure in Russia non risulta che si dovesse rivendicare qualcosa del genere, anche perché l’impero appariva piuttosto un insieme di nazionalità e, comunque, quella russa avvertiva un suo ruolo “salvifico” nei confronti degli altri popoli, i quali sembravano riconoscere questa sorta di missione. Si potrebbe pure aggiungere che qualcuno si immaginava anche di vedere la Russia in questa stessa missione proposta fuori dei suoi confini e rivolta alla stessa Europa, che stava smarrendo la sua “anima”, inseguendo la rivoluzione tecnologica e con essa il miraggio di un arricchimento senza limiti. Proprio da questo mondo “senz’anima” provenivano, secondo lui, quei demoni che stavano corrompendo la Russia e stavano rovinando la sua gioventù, attratta da queste ideologie corrotte e corruttrici. Così il suo lavoro di scrittore, con i suoi racconti “accattivanti”, doveva servire a suscitare attenzione e riflessione, ben oltre i letterati, gli studiosi, i filosofi e i cultori di ideologie. E si riprometteva di raggiungere anche il mondo occidentale, dove i romanzi ottocenteschi, un po’ ovunque, avevano una particolare presa. Questo succedeva quando i romanzi partivano dalle figure che non erano più gli eroi mitici, ma risultavano appartenenti alla gente comune, e nello stesso tempo andavano a descrivere realisticamente il mondo che era socialmente ai margini, e che nei romanzi di Dostoevskij apparirà come il mondo del “sottosuolo”. Voleva così scuotere anche il mondo europeo? Certamente ne sapeva qualcosa, anche per i suoi viaggi, durevoli nel tempo, e vissuti con la curiosità propria di un narratore tutto dedito alla realtà desunta dalla cronaca. Naturalmente si era fatta una sua idea dell’Europa nel suo insieme.
Ambiguo e contradditorio è pure in Dostoevskij il suo modo di considerare l’Europa. Vedremo che egli era stato un vero patriota europeo, rispettoso dei grandi monumenti e delle reliquie europee, e a lui si devono parole mirabili sull’Europa, quali nessun occidentalista ha pronunciato. Nella sua concezione d’Europa si rivela il senso umano universale dei Russi, l’attitudine dei Russi a sentire tutto ciò che di grande è stato al mondo, come se fosse loro proprio. Ma Dostoevskij nega che i popoli d’Europa siano cristiani, e pronuncia la condanna a morte dell’Europa. Egli è stato uno sciovinista.
Vi è molto di ingiusto nei suoi giudizi sulle altre nazionalità, per esempio sui Francesi, sui Polacchi, sugli Ebrei. La coscienza nazionale russa è sempre stata fatta così, che in essa o si negava accanitamente tutto ciò che è russo e si rinnegava la patria e il suolo patrio, o accanitamente si sosteneva tutto ciò che è russo in modo esclusivo e allora tutti gli altri popoli del mondo sembravano appartenere ad una razza inferiore. (Berdjaev, p. 123-4)
La coscienza nazionale russa, o l’anima russa
Sulla base di questo giudizio, dato da Berdjaev, che – non dimentichiamolo – è all’indomani della rivoluzione bolscevica e in un contesto di “imbarbarimento” dell’Europa, dovremmo pensare che Dostoevskij avesse una particolare idiosincrasia nei confronti dell’Europa nel suo insieme, per la salvaguardia, in chiave “nazionalistica”, di una Russia che invece risultava perdente nel confronto con l’Occidente. In realtà non si può considerare il suo giudizio nel sistema di lettura presente allora e, in parte, ancora oggi: non vuole affermare il nazionalismo in Russia secondo gli schemi diffusi allora in Occidente e neppure immaginare una specie di globalizzazione ad opera della Russia nei confronti del resto dell’Europa. Più che rivendicare un ruolo della Russia in termini di “nazionalismo”, come si faceva in modo estremamente forte in tutto l’Ottocento, Dostoevskij è preoccupato di far ritrovare alla Russia la sua “anima”, e non tanto la sua affermazione nazionalistica su un territorio, che per altro era esteso ben oltre i territori dove erano in vigore la lingua e la cultura russa, insieme con la religione. Non è mai facile riuscire a decifrare questa “anima russa”, sia nel lavoro di ricerca di Dostoevskij, sia nella recezione che se ne poteva avere in Occidente. Spesso si va a considerare quel sentimento che noi dovremmo cogliere nella psicologia, che nei personaggi principali dei romanzi di Dostoevskij appare “disturbata”. Altre volte si vuole individuare l’anima nella religiosità, che stava a cuore allo scrittore, anche se la fede, ovviamente nella forma ortodossa, veniva considerata presente nella gente comune. Proprio questa anima popolare fa da sfondo alle sue “storie”, che pur vedono come protagonisti quanti potremmo definire “demoni” perché contaminati dalle ideologie provenienti dall’Occidente. E tuttavia l’attenzione cade di fatto sui personaggi principali dalle cui vicende i lettori sono come risucchiati. Ma per lo scrittore la salvezza viene da questo substrato, da questo mondo del sottosuolo, il solo che conserva e alimenta l’anima russa. Ancora Berdjaev, negli anni terribili della guerra civile russa (1920-21) cerca di illustrare questa anima …
L’anima russa è capace di esperienze radicali, alle quali è inadatta l’anima europea, troppo formata, troppo differenziata, troppo fissata nei suoi confini e nei suoi limiti, troppo legata alle tradizioni della sua stirpe. Solo nell’anima russa si sarebbero potute compiere le esperienze spirituali che ha operato Dostoevskij. Egli ha indagato le possibilità infinite dell’anima umana. Le forme e i limiti dell’anima occidentale, la sua complessità culturale e la sua compattezza razionale, sarebbero state d’ostacolo a indagini di tal genere. Ecco perché Dostoevskij è pensabile solo in Russia e solo l’anima russa poteva dare il materiale sul quale egli compì le sue scoperte. (Berdjaev, p. 126)
Sull’orizzonte del mondo globalizzato
Indubbiamente oggi, con un mondo globalizzato, ci troviamo con nuovi sistemi, non solo di natura economica. Questi – come possiamo vedere nel complesso mondo islamico, o nel sistema delle cosiddette “tigri d’Asia”, con le loro economie “rampanti” – si affacciano sull’orizzonte del mondo con il loro peso, che non è solo riconducibile all’aspetto economico, anche se indubbiamente possono far paura, proprio perché pesano molto in quell’ambito. E tuttavia non possiamo e non dobbiamo giudicare queste realtà solo da un simile fronte, perché poi si fanno anche sentire rilevanti altri aspetti che rivelano la preponderanza possibile per il futuro, quanto mai incerto, quando affiorano componenti dell’ambito culturale e religioso. Abbiamo avuto in questi anni l’emergere del mondo arabo-islamico, che si è fatto forte per essere l’esportatore determinante del petrolio, con il conseguente accumulo di cespiti finanziari. Se anche è mancata la possibilità di determinarsi con il peso politico, oggi avvertiamo come la componente religiosa sia quella accampata per far sentire il proprio peso. Per noi questa “anima” risulta piuttosto incomprensibile, se non altro perché essa fa ricorso all’arma del terrorismo per imporsi. Non basta sapere tutti gli elementi di natura storica o di natura religiosa, perché sia possibile contenere questa forza che fa paura, o comunque tenerla a bada e magari anche sconfiggerla. Dal mondo islamico nel suo insieme proviene oggi l’accusa nei confronti del mondo occidentale, come di un mondo degenerato, perché manca di una sua “anima”, avendo fatto prevalere la tecnica e la finanza, come motore di tutto. E sull’orizzonte, oggi compaiono altre concezioni del vivere, che noi non riusciamo a comprendere nella loro anima profonda. Di qui la necessità di entrarvi a partire da coloro che la rappresentano al meglio, perché la sanno individuare, descrivere, analizzare e spiegare.
Nel caso specifico della Russia, quella attuale (che noi definiamo a partire dalla figura e dal governo di Putin), uscita dall’esperienza comunista, che l’ha indubbiamente segnata e che nello stesso tempo non ha mai del tutto oscurato questa sua anima profonda, questo sistema va meglio capito, ben oltre gli schemi soliti delle questioni economiche e politiche. Come dobbiamo considerare questo mondo, che sentiamo lontano nonostante l’appartenenza allo stesso continente e alla medesima storia di questo angolo di mondo?
La Santa Russia
Siamo abituati da un certo modo occidentale di “fare storia” a concepire la Russia come uno dei tanti Stati europei, con un peso che viene valutato sulla base delle risorse economiche e tecnologiche. Questo criterio è insufficiente a capire quel mondo che non è solo legato al nostro cammino storico. La Russia – come deve essere anche per altre realtà geografiche – va inquadrata meglio cercando di capirla a partire da coloro che sono in grado di darcene l’anima, come succede ai suoi scrittori e ai suoi analisti …
La Russia si era foggiata come un immenso e oscuro regno contadinesco, comandato dallo zar, con uno sviluppo insignificante delle classi, con una classe colta superiore poco numerosa e relativamente debole, con un apparato statale ipertrofico. Tale struttura della società russa, assai diversa dalla società europea, fece sì che la nostra classe colta superiore sentisse la propria importanza di fronte all’elemento popolare, all’oscuro oceano popolare, e temesse il pericolo di essere inghiottita da questo oceano. La classe colta non trovava nel governo zarista un appoggio adeguato alla necessità popolare, di una cultura, superiore. Il governo zarista, legittimato da una sanzione religiosa nella coscienza del popolo, difendeva la classe colta dalle tenebre popolari e la perseguitava allo stesso tempo. Questa classe si sentiva come in una morsa. Nel XIX secolo lo stato d’animo della classe colta, che a un certo momento aveva cominciato a denominarsi “intelligentija”, divenne tragico. (Berdjaev, p. 126-7)
E la tragedia deriva dal fatto che, secondo questo autore, alla classe colta mancava la fede, la quale invece risulta genuina nel popolo. Anzi, a dire il vero, ciò che risulta perso non è un apparato di dogmi, di precetti, di culti, di riti, ma è la mancanza o il rifiuto di Dio stesso. E allora così continua e conclude Berdjaev …
Nella nostra estrema “destra” e nella nostra estrema “sinistra” vi sono talora somiglianze impressionanti, si cela la medesima animosità reazionaria contro la cultura.
Il medesimo male del nostro del nostro spirito nazionale si rivela ai poli opposti. Vi è la medesima mancanza di sviluppo del principio individuale, la stessa scarsa cura della personalità, della responsabilità e dell’onore individuale. La medesima inettitudine all’autonomia spirituale, la medesima intolleranza, la ricerca della verità non in sé, ma fuori di sé.(Berdjaev, p. 128-9)
UNA RELIGIOSITA’ MESSIANICA
La componente religiosa:
spiritualità “messianica”
Come ben si può constatare, la componente religiosa risulta essere estremamente importante per tentare di capire l’anima profonda del popolo russo. Tale componente non è qui riconducibile alla visione ortodossa, che pure sembra essere un apparato, un sistema, una serie di osservanze da praticare. Di fatto Dostoevskij non può togliersi di dosso il suo attaccamento alla Ortodossia, prendendo la distanze dal Cattolicesimo romano.
E questa sua religiosità, molto popolare e nient’affatto costruita sugli apparati di potere, lo porta a coltivare una spiritualità “messianica”, cioè avvertire il desiderio che ciascun individuo e ciascun popolo si apra alla salvezza universale, si dedichi alla realizzazione di un sogno come può essere la famiglia universale. È qualcosa che ha il sapore utopistico di chi guarda ben oltre i tempi presenti, segnati dal male, per sperare un futuro che possa essere libero dal male, non senza passare dal sacrificio, dal dolore, compreso quello innocente. In tutti i suoi romanzi le storie sono segnate da un male inquietante e nello stesso tempo queste vicende, dove la morte è di casa, dove la colpa e il rimorso continuano a tormentare, dove la giustizia umana risulta insufficiente o incapace di raggiungere i suoi obiettivi, vedono sorgere sull’orizzonte una speranza, quella di una risurrezione sempre possibile. Ai lettori le vicende dei personaggi dostoevskijani possono sembrare un groviglio quasi ossessivo, un nodo di vipere, un tunnel oscuro o un baratro che fa precipitare; ma di fatto esse non appaiono segnate dal compiacimento del male, anche laddove le pagine più cruente fanno supporre un autore che abbia il gusto di cercare e di trovare lì il meglio di sé e della sua arte. In realtà per quanto sia insistita la tematica della condanna a morte e sia dettagliato il racconto delle esecuzioni capitali, egli vuole superare queste autentiche ingiustizie.
Se anche dominano le cronache di fatti di sangue, come pure i resoconti dei processi che ne seguono, con le indagini previe e con il tormentoso lavoro della coscienza che prende chi ha fatto il male, lo scrittore vuole uscire di lì con la prospettiva di tempi migliori, anche se questi sembrano sempre rimandati.
La componente religiosa:
Dostoevskij “profeta” di una salvezza universale
Proprio per questo Dostoevskij va considerato come un “profeta”, uno che apre alla speranza e che induce a guardare sempre oltre il mondo in cui si vede trionfare la diabolicità, la perversione, la violenza. Nel mondo non c’è solo il male di chi lo commette con la sicumera di chi si ritiene l’eroe di turno, come dicono di essere i grandi condottieri e i grandi conquistatori della grande storia. C’è anche il male di chi, sulla base di questa sua convinzione, ritiene giusto togliere di mezzo “la cimice”, la persona insignificante, immonda e depravata, che non merita di vivere e da cui bisogna liberarsi. E c’è pure il male di chi in nome delle ideologie diaboliche ritiene che tutto sia permesso. La descrizione dettagliata di simili figure, che dominano la scena nei suoi racconti, fa pensare che Dostoevskij abbia questa concezione terrificante del mondo e non veda altro che male. Ma così non è. Egli, anzi, rivendica per sé e per la sua Santa Russia, come una missione messianica, la medesima che egli riscontra nel popolo ebraico. Ed è quello che egli prospetta al popolo russo, ben consapevole che per svolgere questa missione deve passare attraverso un crogiuolo di prove e di sofferenze. Ancora Berdjaev dice questo, citando lo stesso scrittore …
“Ogni popolo grande deve credere, se vuol vivere a lungo, che in lui e in lui solo è riposta la salvezza del mondo, che esso vive per stare alla testa dei popoli, che li associerà (sic) a sé tutt’insieme e li condurrà in un coro concorde a uno scopo finale, che tutti li attende”. Così Dostoevskij nel Diario di uno scrittore formula le sue esigenze di una coscienza nazionale messianica … La coscienza messianica di un popolo è universale. Il popolo messianico è chiamato a salvare tutti i popoli, tutto il mondo. Un simile compito di universale salvezza propone Dostoevskij al popolo russo, al popolo di Dio. Il messianismo non è nazionalismo. Il messianismo ha pretese incomparabilmente più vaste del nazionalismo. Invece gli è estraneo l’esclusivismo nazionalistico. Gli slavofili erano in misura notevole nazionalisti per le loro convinzioni. Essi credevano che il popolo russo rappresentasse il tipo più elevato di cultura cristiana. Ma non pretendevano che il popolo russo dovesse salvare tutti i popoli e tutto il mondo, e rivelare una verità universale. (Berdjaev, p. 138)
A confronto il suo universalismo e il globalismo
Insomma, Dostoevskij coltiva quella forma di universalismo, che noi oggi chiamiamo globalismo? Non sembra, anche perché i contesti sono diversi. Evidentemente egli è consapevole che esiste, ed è radicato, il nazionalismo. E tuttavia esso, per le modalità con cui viene vissuto e attuato nell’Europa occidentale, lo preoccupa, perché di lì vengono i conflitti. Invece in Russia il nazionalismo non ha a che fare con una geografia limitante, segnata da confini ben netti e tali da circoscrivere spazi linguistici, culturali e religiosi ben marcati. Questa realtà non appartiene alla Grande Russia che invece può svolgere un ruolo di superamento del nazionalismo limitato e limitante. Considerando la Russia così , Dostoevskij ci fa andare alla cosiddetta “Russia profonda”, senza comunque limitarsi al cosiddetto “popolo minuto”. Il mondo della “Russia profonda” noi lo consideriamo legato alla terra, e quindi fatto di contadini che fino al 1861 erano “servi della gleba” secondo uno schema feudale, mentre con la riforma di Alessandro II diventano liberi, anche se in maniera “gattopardesca” sembra che tutto sia sovvertito con la rivoluzione sociale senza che nulla davvero cambi. Ma questo mondo non esaurisce la cosiddetta “Russia profonda”. Agli uomini legati alla terra Dostoevskij preferisce quelli più vagabondi, un po’ come era stato anche lui. E in questo senso allora non va circoscritto ad un territorio e non va concepito come uno attaccato al proprio suolo, legato alle sole sue tradizioni, ancorato ad una realtà da conservare. Proprio allargando il mondo “popolare” a questa categoria si può davvero raggiungere quel tipo di universalismo che è auspicato, perché proprio da “certi vagabondi” può circolare questo messianismo salvifico.
La missione del russo è senza dubbio europea e universale. Diventare un vero russo, diventare integralmente russo forse significa soltanto diventare fratelli di tutti gli uomini. Oh, tutto questo nostro slavofilismo e occidentalismo è solo un grande malinteso, sebbene storicamente necessario. Al vero Russo, l’Europa e la sorte di tutta la grande schiatta ariana stanno tanto a cuore quanto la Russia stessa, quanto la sorte di tutta la terra patria, perché la nostra sorte è mondiale. (Berdjaev, p. 141)
Il “messianismo” russo continua nella fase comunista
Questi ideali appaiono naturalmente quanto mai utopistici, anche se lo scrittore li ha coltivati nella prospettiva di avere una autentica rinascita russa e di averla nei confronti dell’Europa, perché il suo futuro viene colto in quella direzione. La stessa prospettiva di mirare verso il Mediterraneo, anche in chiave di conquista politica e territoriale, mentre era in atto la dissoluzione del mondo turco e con esso dell’Islamismo, faceva illudere di poter raggiungere la tanto auspicata funzione storica di “Terza Roma”.
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Ed invece si ebbe con l’avvento del comunismo la … Terza Internazionale. Ma, anche se la vediamo così – mentre Dostoevskij se la immaginava diversamente –, si potrebbe dire che questa maniera di concepire e di attuare la missione messianica del popolo russo, proseguiva anche oltre la fase zarista, e veniva assunta dal potere bolscevico. In effetti la Russia comunista si trovò a continuare le prospettive messianiche che emergevano nel corso dell’Ottocento, sia perché si prefiggeva con l’Internazionale di coinvolgere altri popoli in questa “palingenesi” del mondo, sia perché la sua stessa struttura di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) voleva rappresentare questa nuova visione del potere, che in realtà fu quanto mai centralista e dittatoriale. Quello che sembrava incarnarsi in una visione di tipo religioso, viene tentato anche da un sistema che voleva eliminare la religione e che si poneva in antitesi con quel mondo. Ma di fatto l’impianto sovietico appariva esso pure come l’erede di una concezione della missione della Russia che avrebbe dovuto diffondere nel mondo, attraverso l’Internazionalismo, la propria concezione di vita, che sarebbe dovuta diventare universale. In effetti si tentò questo. Ma l’universalismo non fu prodotto, nonostante si volesse il trionfo un po’ ovunque del “verbo” rivoluzionario di stampo bolscevico.
“IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO”
Il messianismo russo è di fatto un “sogno”
Così Dostoevskij ci aiuta a comprendere più in profondità che cosa muovesse la cultura russa nell’Ottocento con le sue produzioni nei diversi campi: non c’era solo l’imitazione di una certa letteratura o di una certa musica dominante in Europa. Da quelle esperienze, non senza i riflessi negativi che potevano venire dall’abbracciare le idee provenienti dall’Occidente, la Russia costruiva la sua missione, che ancora deve trovare sbocchi … Compete ad essa, compete all’uomo russo prospettare la salvezza che si auspica per tutta l’umanità. E su questo lo scrittore nei suoi romanzi ha sempre una prospettiva salvifica, nonostante si abbia l’impressione di essere più che mai irretiti in un vortice di male. Soprattutto nella fase finale della sua produzione che coincide con la fase finale della sua esistenza Dostoevskij coltiva questo sogno, che troviamo espresso in un suo breve racconto, “Il sogno di un uomo ridicolo”, comparso nell’aprile 1877, mentre era in gestazione il suo capolavoro, “I fratelli Karamazov”.
L’uomo ridicolo, una variante dell’“uomo del sottosuolo”, è giunto alla piena consapevolezza del nichilismo, dello zero spirituale che costituisce la malattia ontologica della civiltà moderna … Il sogno di un uomo ridicolo è la quintessenza dell’arte di Dostoevskij e insieme è un concentrato della storia umana alle soglie di un suo capitolo decisivo e forse conclusivo, … un grande sogno-mito, una visione del destino dell’uomo nata non nella luce aurorale in cui sono germogliati i miti storici, ma in quella serale del tramonto, della fine se non della storia, certo di una sua lunga giornata. (Zoccatelli, p. 244)
Un’utopia che dà speranza
Di qui, soprattutto nella introduzione del racconto, possiamo avere un saggio della concezione che ha Dostoevskij a proposito della missione salvifica che investe l’uomo russo, che investe lo stesso scrittore, che ogni uomo deve assumere in un momento storico avvertito come decisivo, perché segnato da una possibile catastrofe o da una altrettanto probabile “risurrezione”. Nella sua visione “religiosa” Dostoevskij è più dalla parte della “risurrezione”, quella che appare una “utopia”, ed è comunque sempre alimentata da chi, anche a trovarsi ad un passo dalla fine, magari addirittura auspicata e ricercata, trova sui suoi passi chi lo trattiene dall’abisso, dalla desolazione, dal perdersi eternamente, perché c’è sempre per lui una mano tesa, un intervento della “grazia”, che qui è rappresentata da una bambina, anch’essa dominata dal dolore. È un messaggio di speranza che lo scrittore ha sempre in serbo e che, nel breve racconto, vuol come fissare, perché rappresenti l’eredità da lasciare e da raccogliere non solo per la sua generazione, posta – come noi possiamo sapere col senno di poi – su un autentico baratro, che per la Russia si aprì e fu vissuto nel “secolo breve”. Questo racconto può diventare così emblematico per cercare di capire il messaggio che è da raccogliere ancora oggi … Così può essere riassunto …
Quest’uomo, per il quale “tutto è indifferente”, decide finalmente, guardando il cielo stellato, di uccidersi la notte stessa. Ma – egli racconta – durante la lugubre passeggiata notturna è stato afferrato per un braccio da una bambina che lo supplicava in maniera disperata. Egli la respinge e tornato a casa predispone il suicidio; ecco che però il rimorso per la ragazzina lo attanaglia; infine si addormenta, sogna di essere ucciso e di essere stato trasportato attraverso gli spazi in un nuovo mondo, un paradiso terrestre in cui vivono uomini esenti dal peccato. Ma dopo qualche tempo “io li ho pervertiti tutti!”. Il risveglio che segue al sogno è contraddistinto da una nuova consapevolezza della vita e dalla scelta di predicazione in nome dell’amore universale. (Zoccatelli, p. 244)
Il tormento dell’uomo ridicolo …
Come sempre Dostoevskij è efficace nella parte iniziale, dove descrive, da vero esperto scrutatore dell’animo umano, il tormento interiore che lo possiede. Non per nulla egli parla in prima persona, come se quanto va scrivendo derivasse dal profondo del suo animo, da una condizione di vita che lo ha preso e lo vorrebbe addirittura perdere. Ed è ben consapevole di essere posto fra il ridicolo e la follia …
Io sono un uomo ridicolo. Adesso loro mi chiamano pazzo. Sarebbe un avanzamento di grado se non mi trovassero sempre lo stesso uomo ridicolo. Ma adesso non mi arrabbio più, adesso li amo tutti, e persino quando se la ridono di me, anche allora, mi sono particolarmente cari. Io stesso riderei con loro, non di me stesso, ma per l’amore che gli porto, se non fossi così triste nel vederli. Così triste perché loro non conoscono la verità, mentre io, io conosco la verità. Oh, com’è duro essere solo nel conoscere la verità! Ma questo loro non lo comprenderanno. No, loro non lo comprenderanno.
Prima invece mi affliggeva molto il fatto di avere un’aria ridicola. Non di averne l’aria, di esserlo. Sono sempre stato ridicolo e questo forse lo so dal giorno in cui sono nato. Quando avevo sette anni, forse, sapevo già di essere ridicolo. Poi sono andato a scuola, e dopo ancora all’università, e che dire?, più apprendevo le cose e più apprendevo questo, che ero ridicolo. Così che alla fine tutta la mia scienza universitaria non era altro che la prova di una cosa, che non era là che per dimostrarmi e chiarire a me stesso, quanto più l’approfondivo, che ero ridicolo. E nella vita così come nella scienza. Di anno in anno sentivo crescere e rinforzarsi in me questa perpetua coscienza della mia aria ridicola sotto tutti i punti di vista.
Tutti hanno sempre riso di me. Ma nessuno sapeva, né poteva rendersi conto, che se c’era un uomo sulla terra il quale più degli altri sapesse che ero ridicolo, ebbene quell’uomo ero io; ed ecco cosa io trovavo più umiliante: che loro non lo sapessero, ma questa è ancora una volta colpa mia; sono sempre stato così orgoglioso che mai e per niente al mondo l’ho voluto riconoscere davanti a qualcuno. Questo orgoglio cresceva in me di anno in anno, e se mi fossi deciso a confessarlo di fronte a chicchessia, ecco che là, quella stessa sera, mi sarei fatto saltare il cranio con un colpo di pistola. Oh, come ho sofferto durante la mia adolescenza del fatto che non avrei resistito e che, da un momento all’altro, l’avrei confessato davanti ai miei compagni. Ma da quando sono diventato un giovanotto, anche se conoscevo sempre meglio e di anno in anno questa particolarità mostruosa che era la mia, sono diventato, non so perché, un po’ più calmo.
Proprio così, “non so perché”, visto che fino ad oggi non sono capace di stabilirne la ragione. La ragione potrebbe trovarsi in una circostanza che fece crescere un’angoscia terribile nella mia anima, una circostanza infinitamente più forte dell’intero mio esistere: intendo dire la convinzione costante che è penetrata in me che dappertutto nel mondo tutto è indifferente. Da molto tempo avevo questo presentimento, anche se la piena convinzione mi è venuta durante quest’anno, in maniera bizzarra e tutto d’un tratto. Da un momento all’altro ho sentito che per me sarebbe del tutto indifferente se ci fosse il mondo o se non ci fosse nulla. Iniziai a capire e a sentire con tutto il mio essere che davanti a me non c’era nulla. In principio avevo sempre l’impressione che, al contrario, nel passato c’erano state molte cose, ma poi compresi che anche nel passato non c’era nulla e che si trattava solo, non so perché, di un’impressione. Allora a un tratto ho smesso di essere irritato con gli uomini e quasi smisi di notarli. Sapete, questo accadeva anche nei minimi dettagli; per esempio, mi capitava di camminare per la strada e di urtare qualcuno. Ma non perché fossi indaffarato in qualche pensiero, a cosa avrei dovuto pensare?, visto che in quel momento avevo completamente smesso ogni pensiero: mi era tutto indifferente. Se solo avessi risolto le questioni. Oh, non ne avevo risolta nessuna, e Dio sa se ce n’erano. Ma tutto mi era diventato indifferente, e tutte le questioni si erano allontanate.
Ed ecco che, ma dopo questo, conobbi la verità. La verità l’ho conosciuta lo scorso novembre, più precisamente il tre novembre, e da quel tempo mi ricordo di ognuno dei miei istanti. Era una sera lugubre, la più lugubre che vi possa essere. In quel momento, erano le undici di sera, rientravo a casa, e per l’appunto dicevo fra me e me, lo rammento, che non poteva esserci un attimo più lugubre. Anche da un punto di vista fisico. Aveva piovuto tutto il giorno, una pioggia fredda e lugubre, inoltre una pioggia persino feroce, me lo ricordo, piena di una ostilità fragrante (sic) verso gli uomini, quando all’improvviso, verso le undici di sera, smise di piovere e salì un’umidità terribile, tanto che c’era ancora più umido e più freddo che durante la pioggia e scaturiva una sorta di vapore da tutto, da ogni pietra della strada e da ogni viottolo, se solo si posavano gli occhi un po’ più in profondità, il più lontano possibile dalla strada. Ad un tratto mi venne in mente l’idea che se si fosse spento il gas tutto sarebbe stato più lieto, mentre il gas rendeva il cuore tristissimo perché illuminava tutto. Quel giorno non avevo mangiato quasi nulla e avevo trascorso l’inizio della serata da un ingegnere presso il quale si trovavano altri due amici. Io me ne stetti sempre zitto e credo di averli annoiati. Discutevano di argomenti rivoltanti e inoltre ad un certo punto di animarono. Ma questo era per loro del tutto indifferente, lo notavo, e si scaldavano così, tanto per fare.
Tanto che ad un certo punto glielo dissi: “Ma questo, signori”, gli ho detto, “vi è del tutto indifferente”. Non si sentirono offesi, semplicemente risero di me. Questo perché glielo avevo detto senza il minimo tono di rimprovero, ma solo perché era del tutto indifferente anche a me. Avevano visto che mi era indifferente e ciò li rese allegri.
Quando per la strada ebbi quest’idea sul gas, gettai uno sguardo al cielo. Il cielo era terribilmente scuro, ma si potevano nettamente distinguere le nuvole stracciate e, fra loro, delle macchie nere insondabili. All’improvviso notai in una di queste macchie nere una piccolissima stella che mi aveva dato un’idea: decisi di uccidermi durante quella notte. Avevo preso questa ferma decisione già da due mesi e, povero com’ero, mi ero comperato una magnifica rivoltella che avevo caricato quello stesso giorno. Ma erano già passati due mesi ed era ancora nel suo cassetto; mi era tutto talmente indifferente che mi decisi per aspettare un momento in cui le cose mi fossero divenuto meno indifferenti, e d’altronde non so perché. In questo modo, rientrando a casa tutte le sere pensavo di farmi saltare le cervella. Attendevo il momento. Ed ecco che adesso quella piccola stella mi aveva suggerito l’idea, e decisi che sarebbe stato assolutamente per quella notte. Perché questa piccola stella mi avesse suggerito l’idea, proprio non so.
Ed ecco che mentre guardavo il cielo, tutto a un tratto quella bambina mi ha afferrato per il gomito. (Il sogno …, p. 292-4)
… e la sua “salvezza”
Per chi si abitua a leggere Dostoevskij – e non è facile leggerlo! –, una simile pagina tragica, dove ogni dettaglio è messo in rilievo per creare un’atmosfera lugubre (l’aggettivo qui ricorre insistente), ha sempre come esito, una specie di “uscita di sicurezza”, una “via salutis”, perché all’uomo è sempre riservata una mano liberatrice che viene dall’alto … Essa arriva da una figura infantile, e per giunta segnata dal dolore, quello innocente. Lì si può riconoscere la via della redenzione e della risurrezione.
La strada era già deserta, non c’era quasi più nessuno. In lontananza un vetturino dormiva sulla sua carrozza. La bambina avrà avuto otto anni, portava un fazzolettino sulla testa e un vestitino tutto bagnato, ma ricordo soprattutto le sue scarpette rotte e inzuppate, che ho in mente anche adesso. Soprattutto quelle mi balzarono agli occhi. La bambina all’improvviso si mise a tirarmi per il gomito e a chiamarmi.
Non piangeva ma strascicava le parole con una voce tremula, e non riusciva a pronunciarle correttamente perché tremava tutta dai brividi. Non so perché ma era terrorizzata e gridava: “Mammina! Mammina!”. Mi ero già girato verso di lei, ma non dissi una parola e proseguii nel mio cammino; però lei, lei mi seguiva e mi tirava per il gomito, e in quel momento la sua voce aveva quel suono che nei bambini veramente terrorizzati significa disperazione. Io conosco quel suono. Anche se non articolava le parole, compresi che sua madre stava morendo chissà dove o che le era accaduto qualcosa, e che lei era scappata per chiamare qualcuno o cercare qualcosa per aiutare la sua mammina. Io però non la seguii e, al contrario, mi venne tutt’a un tratto l’idea di scacciarla. Da prima le dissi di andarsi a cercare una guardia. Ma con un gesto lei giunse le sue manine come per supplicarmi e singhiozzando, soffocando, continuava a corrermi in fianco senza lasciarmi. Fu in quel momento che battei il piede sbraitando. E lei, lei gridò soltanto: “Signore, signore! …”, dopo di che mi lasciò in un attimo attraversare la strada di gran corsa: anche laggiù era apparso un passante e lei, evidentemente, mi abbandonava per gettarsi verso di lui. (Il sogno …, p. 294-5)
Anche ad aver lasciato quella bambina, che è divenuta la sua “salvezza”, il protagonista del racconto, che parla sempre in prima persona come se l’autore stesso si identificasse con lui, la avverte in continuazione.
Questo incontro gli muove domande che ritardano il suicidio (perché prova pena, se, ormai di fronte alla morte, tutto dovrebbe essergli indifferente?), tanto che, immerso nei pensieri, finisce per addormentarsi. Sogna di capitare su di un pianeta, simile alla terra, ma pervaso da un’armonia diffusa, tra gli uomini e tra gli uomini e la natura: una sorta di realizzazione dell’età dell’oro, dove vive un’umanità solare. (Ghidini, p. 299-300)
Vedete dunque, ancora una volta: e se anche non fosse stato che un sogno? Ma la sensazione di amore di questi uomini innocenti e belli resterà in me per sempre, ed io sento che anche oggi, di lassù, il loro amore si riversa in me. Io stesso li ho visti, li ho conosciuti e mi sono convinto di loro, li ho amati e in seguito ho sofferto per loro. Oh, capii subito, da quell’istante, che in molte cose non li avrei compresi affatto; per me, un progressista russo contemporaneo, un volgare pietroburghese, rimaneva un enigma, ad esempio, che loro sapessero così tante cose, ma che ignorassero tutto della nostra scienza.
Compresi però molto velocemente che il loro sapere, perfetto, si nutriva di tutt’altre intuizioni che non le nostre sulla terra, e che anche le loro aspirazioni erano del tutto differenti. Essi non desideravano nulla ed erano tranquilli; loro non provavano questo desiderio di conoscere la vita che noi stessi proviamo, perché la loro vita era già così perfetta. Ma il loro sapere era più profondo e più elevato di quello della nostra scienza; perché la nostra scienza cerca di spiegare la vita, essa stessa aspira a conoscerla per poterla insegnare a vivere agli altri; loro, anche senza la scienza, sapevano come si fa a vivere, e io questo lo compresi, ma fui incapace di comprendere in che cosa consistesse la loro conoscenza. Mi mostravano i loro alberi e io ero incapace di comprendere il grado d’amore con il quale li guardavano: era come se parlassero con degli esseri loro simili. E capitemi, probabilmente non mi sbaglierei se dicessi che vi facevano conversazione! Sì, avevano scoperto la loro lingua, e io sono convinto che gli alberi li comprendevano.
(Il sogno …, p. 304)
Sembra un altro mondo e il sogno racconto in effetti che il protagonista è stato portato su di un altro pianeta. In realtà, se ben si considera questa pagina, noi potremmo scoprire che questo mondo esiste già sulla nostra “madre terra”, laddove ci sono i “mugiki” che sanno rapportarsi con la natura, come succede nella profonda Russia, e come succede, laddove l’uomo conserva un rapporto fraterno e “francescano” con la natura. Sembra un mondo idilliaco, e proprio per questo irreale. In realtà è un mondo che è stato devastato da … i demoni, con le ideologie perverse e con la loro opera distruttrice. Il racconto prosegue con la corruzione che viene introdotta in questo mondo idilliaco.
La sua presenza, però, corrompe quel mondo primigenio: tenta quelle anime pure con l’albero della conoscenza, che per loro finisce per diventare più importante della vita stessa. Il pianeta viene così gradualmente insidiato dal male che monta in modo inesorabile con la sua forza distruttiva.
(Ghidini, p. 300)
Il quadro che ne emerge è davvero impressionante ed è una pagina narrativa dal forte tenore filosofico, che fa riflettere ben oltre i tempi in cui la pagina è stata scritta …
Sì, sì, alla fine li ho pervertiti tutti! Come sia potuto succedere, io non lo so, ma lo ricordo molto bene. Il sogno attraversò alcuni millenni e non mi lasciò che una sensazione d’insieme. Io so soltanto che la causa del peccato originale fui io. Come una disgustosa trichina (parassita di vari mammiferi, compreso l’uomo), come un atomo di peste che contamina interi paesi, così io stesso ho contaminato tutta quella terra che prima di me viveva felicemente e senza peccato. Impararono a mentire e amarono la menzogna, conobbero persino la bellezza della menzogna. Oh, forse tutto questo prese inizio innocentemente, per scherzo, per civetteria, un gioco fra innamorati, o forse realmente da un atomo, ma quest’atomo di menzogna sprofondò nel loro cuore e gli piacque. Di seguito, rapidamente, nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia la crudeltà … Oh, non so, io non me lo ricordo più, ma presto, molto presto, schizzò il primo sangue; essi si stupirono, furono terrorizzati e cominciarono a disperdersi, a disunirsi. Apparvero le alleanze, ma questa volta le une contro le altre. Cominciarono i rimproveri, le accuse. Conobbero la vergogna e fecero della vergogna una virtù. Così nacque la nozione d’onore e ogni alleanza issò la propria bandiera. Torturavano gli animali e gli animali scapparono nelle foreste, lontani da loro, e ne divennero nemici. cominciarono le lotte per le separazioni, l’autonomia, l’individualità, per il mio e per il tuo. Parlavano già lingue differenti. Così conobbero il dolore e amarono la sofferenza, avevano sete di sofferenza e dissero che la Verità non poteva essere raggiunta che attraverso la sofferenza. Fu allora che apparve la scienza. Quando divennero malvagi cominciarono a parlare di fraternità, di umanità, e capirono queste idee. Quando divennero criminali si inventarono la giustizia e si imposero tutta una serie di codici per conservarla, e per conservare i codici essi installarono la ghigliottina. Non si ricordavano che a fatica di ciò che avevano perduto, e addirittura non volevano nemmeno credere che un giorno lontano essi erano stati innocenti e felici. Ridevano persino della possibilità di questa loro passata felicità, e la chiamavano “un sogno”. (Il sogno …, p. 308-9)
Pavel Evdokimov (scrittore e filosofo russo, vissuto fra il 1901 e il 1970, esule in Francia dopo la rivoluzione bolscevica, e autore di una tesi di laurea “Dostoevskij e il problema del male”, conoscitore della dottrina e della spiritualità ortodossa e come tale invitato al Concilio Vaticano II) ha notato come vi sia in Dostoevskij una dialettica costituita da categorie religiose: da una parte la “rivoluzione” – la caduta e il peccato – e dall’altra la “contro-rivoluzione”, caratterizzata non da una rivincita o da una restaurazione, ma da un’espiazione creatrice.
E questa espiazione creatrice è, propriamente, la risposta che ci viene offerta nella Mite come nel Sogno di un uomo ridicolo; quest’ultimo racconto, particolarmente, sorta di “prologo al problema del male”, domanda tragica dell’uomo per il quale “tutto è indifferente”. Per quest’uomo giunto sull’orlo del baratro in cui l’ha condotto il proprio solipsismo, al culmine della disperazione si presenta una bambina che lo implora; è così che nel suo animo si insinua in modo irresistibile un “dolore strano, e finanche inverosimile”. Di fronte al male egli attraversa un momento di profondo stupore e questa sofferenza è tanto più atroce e insopportabile quanto più assurda, al punto che il pensiero della sofferenza della bambina distrugge in un momento l’indifferenza dell’uomo e lo salva. In questo dolore affiora la voce interiore di una coscienza che afferma esservi un significato nell’esperienza della sofferenza ed esige di scoprirlo. A questo punto l’uomo si addormenta e sogna che il suicidio si sia compiuto. Ma anche in quell’al di là dove la realtà ci viene presentata con caratteristiche anteriori e trascendenti il nostro mondo decaduto, l’uomo non è in grado di gustare definitivamente la felicità: “C’è la sofferenza su questa nuova terra? Sulla nostra terra noi non possiamo veramente amare senza la sofferenza … Io voglio, io bramo, qui, adesso, baciare, inondandomi di lacrime, quella terra che ho lasciato, e non voglio, non accetto la vita su nessun’altra! …”. Nel sogno, l’uomo ridicolo è condannato, ponendosi al di qua del bene e del male, a cogliere l’essenza dei due termini nella loro contrapposizione, a constatare l’impossibilità di ritornare “nell’età dell’oro” senza aver prima percorso fino in fondo il tragitto del suo destino terreno. Un percorso tragico, certamente, in cui però si cela tutto il senso drammatico della libertà e dignità umana. Per questa ragione, una volta risvegliatosi, egli scopre che nella terra vi è la visione profetica della felicità possibile anche sulla terra attraverso l’esercizio consapevole delle virtù. (…) L’importante lezione dei “racconti fantastici”, La mite e Il sogno di un uomo ridicolo, è davvero racchiusa in quest’antica verità sempre dimenticata: la misericordia e l’amore quali uniche vie d’uscita per l’uomo e l’umanità, e il male sconfitto perché perdonato e vinto da questa espiazione creatrice. Non si fraintenda il concetto di felicità perfetta evocato da Dostoevskij con un vago sentimentalismo filantropico. Vi è ben di più e si tratta precisamente, nell’ottica dell’autore, dell’amore insegnato da Gesù Cristo e da ristabilire sulla terra sin da ora in un rinnovato rapporto con Dio. (Zoccatelli, p. 247-8)
CONCLUSIONE
Il percorso seguito per cercare di comprendere il pensiero di Dostoevskij non consente di esaurire la conoscenza dello scrittore e della sua opera, soprattutto per i riflessi che ne sono seguiti nel corso di un secolo, quello definito “breve” e segnato dalle ideologie, divenute dominanti e poi scomparse lasciando sul campo parecchie vittime. Lo scrittore russo risulta essere indubbiamente un profeta, non solo perché vede i negativi influssi di certe ideologie per il suo Paese, ma anche perché avverte che la salvezza è possibile, è data come grazia, viene dalla sofferenza innocente, è davvero universale e impegna ad avere una visione universale. Se già 100 anni fa Berdjaev proponeva lo scrittore come guida e come maestro per sperare contro ogni speranza anche in mezzo alla guerra civile e agli anni tetri e oscuri del trionfo comunista, ancora oggi a 200 anni dal suo ingresso nel mondo possiamo prenderlo in considerazione per ciò che egli dice circa la missione della Russia e con essa dell’Europa. Le parole di Berdjaev sono state scritte nel 1923 e tuttavia mantengono ancora la loro validità e la loro attualità, perché Dostoevskij venga ancora considerato un autore meritevole di essere riletto e considerato utile per un’analisi più profonda del cammino che dobbiamo perseguire …
Ma se Dostoevskij non può essere maestro di disciplina spirituale e di una via spirituale della vita, se il suo mondo, come il nostro psicologismo, deve essere superato in noi, egli rimane sotto questo aspetto un maestro: perché ci insegna a scoprire attraverso Cristo la luce nelle tenebre, a scoprire l’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo più abietto, insegna l’amore per l’uomo, unito al rispetto per la sua libertà. Dostoevskij ci conduce attraverso le tenebre, ma non alle tenebre appartiene la sua ultima parola. L’opera di Dostoevskij meno d’ogni altra cosa lascia l’impressione di un pessimismo cupo e senza via d’uscita. Le tenebre stesse sono luminose in lui. La luce di Cristo vince il mondo, illumina ogni tenebra. Il cristianesimo stesso di Dostoevskij non è un cristianesimo tetro, bensì è il cristianesimo candido di Giovanni. Proprio Dostoevskij dà molto al cristianesimo del futuro, fa molto per il trionfo dell’eterno Evangelo, della religione della libertà e dell’amore. (…) L’opera di Dostoevskij è in sommo grado feconda per la rinascita cristiana. Ha un valore profetico e rivela immense possibilità spirituali. (…)
Oggi (siamo nel 1923!) l’Europa occidentale, che segue ormai il ritmo di un processo catastrofico, i cui risultati non appaiono ancora, si rivolge a Dostoevskij ed è più capace di comprenderlo. Per volontà del destino l’Europa occidentale esce da uno stato di soddisfazione borghese, in cui si lusingava evidentemente, fino alla catastrofe della guerra mondiale (la prima!), di rimanere in eterno. La società europea per lungo tempo si è trattenuta alla periferia dell’essere appagandosi di una esistenza esteriore. Ma anche qui, nella sistemata Europa “borghese”, si rivela un suolo vulcanico. Fatalmente si scoprono nei popoli d’Europa profondità spirituali. Dappertutto dovrà affermarsi un moto dalla superficie in profondità, se pure preceduto da moti in superficie, esteriori, come guerre e rivoluzioni. Ecco che nelle catastrofi e nei rivolgimenti, non più sordi ai richiami dello spirito profondo, i popoli dell’Europa occidentale con maggior comprensione si accosteranno a quel genio russo e universale, che ha scoperto la profondità spirituale dell’uomo e che ha preveduto la fatale catastrofe del mondo. (Berdjaev, p. 177-9)
BIBLIOGRAFIA
- Nikolaj Berdjaev, LA CONCEZIONE DI DOSTOEVSKIJ – Einaudi, 2002 (il saggio è stato scritto nel 1923)
2. Maria Candida Ghidini, DOSTOEVSKIJ – Salerno Editrice, 2007
3. Fedor Dostoevskij, IL GIOCATORE – LE NOTTI BIANCHE, LA MITE, IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO – Newton Compton, 2015