Un Salvatore da salvare

L’ANNUNCIO DEL VANGELO: È NATO IL SALVATORE! È UN BAMBINO!

La notizia che noi ricaviamo dal Vangelo non è propriamente la nascita di un bambino, ma la venuta al mondo del Salvatore: così viene presentato ai pastori dall’angelo che ne dà loro l’annuncio.

Non temete:

ecco, vi annuncio una grande gioia,

che sarà di tutto il popolo:

oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore,

che è Cristo Signore.

Questo per voi il segno:

troverete un bambino avvolto in fasce,

adagiato in una mangiatoia.

(Luca 2,10-12)

Sarebbe stato più logico riferire loro la nascita di un bambino, e dare per questa notizia una serie di elementi straordinari da giustificare il richiamo a gente che non era abituata ad avere segni clamorosi. Invece nelle parole dell’evangelista, che già era stato piuttosto essenziale nel dare relazione di quel parto, scopriamo che il segno di riconoscimento per cogliere il salvatore di tutta quella gente, povera e senza futuro, stava proprio in un bambino, deposto dentro una mangiatoia. Un tal segno avrebbe dovuto scoraggiare quella gente, che forse era già abituata ad avere bambini così, se quel loro vivere era all’insegna della continua precarietà, per la quale un bambino poteva arrivare al mondo in quella stessa maniera.

Che nascesse ancora un bambino non era affatto una novità. Che trovasse posto in una capanna di fortuna, o in una stalla, non era neppure questo un caso raro. E soprattutto non poteva essere portato come un segno di riconoscimento per qualificare quel bambino come un salvatore. Anzi, il “loro” salvatore! Semmai, nato in quella circostanza, lo si doveva ritenere un bambino … da salvare, e non viceversa. La sua debole condizione non era solo quella di essere nato da poco, ma di aver trovato un alloggio di fortuna per questa sua comparsa, che non poteva risultare di buon auspicio.

Non era nato … sotto una buona stella, come si usa dire. Eppure in cielo era comparsa una stella diversa dalle solite, una più luminosa, soprattutto a partire dalla scia che lasciava nel percorso del cielo.

Qualcuno, a partire da quel segno poteva immaginare un bambino destinato a grandi cose, come spesso, nei racconti leggendari e popolari, si sente dire di personaggi, poi divenuti celebri, e soprattutto degni di un posto nella grande storia. Altri non si immaginavano affatto che in quello squallore potesse trovare una particolare segnalazione un bambino, senza nome, senza fama, senza futuro. Come si poteva definirlo “Salvatore”? Come si poteva presentarlo con questo titolo impegnativo per lui e per tutti? Come si poteva pensare di correre a vederlo, augurandosi di aver finalmente trovato un appoggio, una vera speranza per un vivere migliore? Eppure la “notizia” che trapela dal racconto evangelico non è propriamente la nascita di un bambino: neanche oggi avrebbe l’onore delle prime pagine del giornale, persino di chi, nel seguito della vita, finirà per segnalarsi, per diventare importante. Ciò su cui insiste il vangelo della nascita è piuttosto l’annuncio che viene dato ai pastori: qui abbiamo la “bella notizia”! Anche ad essere una “gioia per tutto il popolo”, spetta per primi a loro questa “buona notizia”. Anzi, gli altri sembrano del tutto indifferenti, perché nessuno si mette in strada per raggiungere quel luogo del tutto sconosciuto. Solo con le statuine i nostri presepi si sono riempiti di gente … E quelle parole, scritte lì e udite tante volte, cadono spesso nel vuoto, perché è rimasta la poesia del presepio, è rimasta la prosa di tante prediche sui poveri … sognatori di quella notte incantata, ma non è rimasto il vero senso di quell’annuncio. Sì, è nato un bambino. E sembrerebbe uno dei tanti che nascono in ogni istante. Se pur ci sono attorno segni che fanno pensare a qualcosa di straordinario, di fatto non c’è nulla di clamoroso e c’è piuttosto tanta povertà, regna tanto squallore. Il breve annuncio dell’angelo che si presenta ai pastori dovrebbe invece farci capire meglio il senso di quell’evento, che non è solo un fatto della storia, datato e collocato in uno spazio ristretto e poco conosciuto.

Così parla l’angelo: “ … è nato per voi oggi un Salvatore”.

È nato …

La notizia nella sua essenzialità è data dal fatto che è successo un evento del tutto naturale, da cui in genere, al momento, non ci si aspetta qualcosa di clamoroso. E tuttavia la storia andrebbe costruita soprattutto a partire dal nascere, più che non dal morire o, peggio ancora, dal far morire. Dio ha questa notizia da darci, sulla quale noi invece non puntiamo mai affatto, mai a sufficienza, perché gli eventi più clamorosi da segnalare sono quelli in cui prevale il morire.

Per voi …

Subito viene introdotto l’obiettivo vero della notizia, quello di raggiungere i destinatari per dare loro incoraggiamento e speranza. Non è ancora stato precisato chi sia nato, ma già si fa intendere che l’evento riguarda gli ascoltatori, i fruitori di questo messaggio. Ed essi non sono soltanto i pastori, di cui si parla nel racconto, ma possono diventare tutti coloro che sentono la notizia, che ascoltano questo messaggio, ben oltre il tempo in cui avviene l’episodio narrato e ben oltre lo spazio in cui esso si realizza.

Oggi …

L’evento non appartiene solo al passato. Nel momento stesso in cui viene detto, si realizza e perciò questa nascita continua ad esserci. Del resto in ogni istante nasce una nuova creatura, ed essa è sempre un motivo di speranza, anche se non compaiono segni clamorosi a dirlo.

Un Salvatore …

Questa parola, lasciata appositamente come ultima, quasi a farla desiderare, esprime il vero contenuto di quell’evento. Non è un termine astratto, come si potrebbe pensare sentendo parlare di “salvezza”, ma è una figura concreta, e soprattutto è una figura umana, quella su cui dobbiamo tutti, e sempre, puntare, diversamente da come si è sempre fatto, e si continua a fare quando si cercano strumenti o situazioni da cui possiamo avere vie di scampo, uscite di sicurezza, aperture verso una condizione di vita migliore.

Proviamo a recuperare in questo Natale ciò che è davvero essenziale al Natale stesso, e cioè la presenza di Dio nelle forme di un bambino, l’agire di Dio nel suo essere sempre a disposizione nostra, lo spirito vero del vivere umano che, in chi nasce, cerca e trova sempre la speranza, un futuro, la possibilità di un vivere migliore. Anche noi veniamo raggiunti da questa bella notizia: “E’ nato per voi un Salvatore!”. Proprio a noi si fa vedere e si fa conoscere chi può dare senso al vivere, se lo cerchiamo, se lo desideriamo, se lo accogliamo. Ed è pur sempre un bambino: è quello di allora, senza niente di clamoroso; è quello che compare anche oggi nei tanti bambini che ancora nascono, anche se il mondo ci pare segnato da tanto male, da tanta violenza, da tanti segni e realtà di morte. Al Bambino dobbiamo dare spazio; ad ogni bambino dobbiamo dare la giusta importanza, perché lì c’è davvero il futuro, lì è possibile coltivare la speranza. Mettiamo al centro del vivere attuale questo Bambino e ogni bambino come lui. Anche a non avere nessun segno che possa fa sperare in qualcosa di grandioso, lì c’è sempre la speranza, c’è la potenzialità del vivere umano.

  1. UN BAMBINO

L’evento del Natale è un bambino che nasce. E tuttavia questo per il Vangelo è solo un segno, il segno da cui partire per scoprire l’essenziale, per trovare ciò che veramente conta. Un bambino – anche questo, nato a Betlemme, che pur proviene direttamente da Dio – è quanto di più fragile, di più debole, di più piccolo che si possa concepire. E proprio per questo dovrebbe essere considerato tutto da custodire, tutto da proteggere, tutto da conservare, con la più grande attenzione e delicatezza. Il Vangelo, prima ancora di presentare il bambino, quel Bambino, si premura di far sapere che è un Salvatore. Ci richiama così l’essenziale di questa notizia, che dovremmo sempre tener presente. Soprattutto lo dobbiamo richiamare e ricordare di questi tempi, nei quali il desiderio di una salvezza non sembra stare al primo posto, fra le attese diffuse. Prevale in genere l’aspettativa di “star bene”, di poter “avere un vivere senza fastidi”, di veder sottratte tutte quelle cose che pesano, che ingombrano il cuore, che demoralizzano. E invece la salvezza è … altrove; è … Altro! Il bambino è indicato come un segno di questa salvezza; il bambino presentato nella sua povertà. Quando viene definito che è un Salvatore, viene chiamato con i suoi appellativi: Cristo! Signore! Ma poi, qualificato come un segno, viene presentato come un bambino qualsiasi, come un bambino che i pastori possono trovare, dove essi sono abituati ad avere i loro figli, cioè in una stalla. Ma è probabile che essi non abbiano mai messo i loro piccoli nella mangiatoia. Il dettaglio ha evidentemente un altro valore simbolico; quel bambino è … da mangiare. E così poi si presenterà! Ai pastori non è chiesto di cercare un personaggio eminente, uno dei palazzi, uno riconosciuto con dei segni straordinari e spettacolari. Devono solo prendere in considerazione un bambino qualsiasi.

Per riconoscerlo come un salvatore, devono scoprire o che lì c’è un modo di essere e di vivere che può risultare significativo, o che seguendo l’evoluzione di quel bambino si potrà scoprire in lui come deve essere e come deve vivere l’uomo. Niente comunque fa trasparire che a quel bambino si addice il titolo di Salvatore, se non che è povero. E le immagini usate sono quelle che si limitano a descrivere ciò che troviamo scritto nel vangelo. Eppure alcune forme iconografiche fanno emergere qualche componente che invita a considerare quel bambino con la qualifica che l’angelo ha messo in risalto fin dalle prime parole del suo annuncio. Così troviamo descritto quel Bambino come fonte di luce, ancora più esaltata dal quadro notturno in cui l’episodio è immerso.

Se è come trasfigurato, al punto che da lui si irradia un fulgore straordinario, allora con quel Bambino si accende la speranza, si prepara un’era nuova. Non manca poi l’audacia di vederlo adagiato con le braccia aperte a forma di croce, o addirittura di rappresentarlo deposto su una croce, dalla quale si può ricavare il “destino” di quella creatura innocente, che spesso vede pure adagiato accanto a sé una pecora, o un agnellino con le zampe legate, come se quel dono lasciato dai pastori significasse pure il sacrificio, a cui va in-contro quel bambino.

DORME BEATO … SULLA CROCE

Questo Gesù Bambino dormiente è attribuito a GUIDO RENI (1575-1642). È una scena dal forte sapore arcadico, perché questo puttino che vuol rappresentare il neonato Gesù, sembra più una figura mitica, anche per quelle forme anatomiche che lo fanno avvertire come un amorino, paffutello e roseo nell’incarnato del volto. Dorme in una posa non del tutto naturale per un bambino, e il velo bianco, che gli sta sotto, esalta ancora di più la luminosità della scena, che ha sullo sfondo un quadro naturalistico, sempre di chiara derivazione arcadica. La croce sottostante ha un evidente richiamo di carattere religioso: il bambino, che qui dorme beatamente, non è visto nella sua nascita dentro lo squallore del presepio, ma è già legato allo strumento che dovrà diventare familiare a partire dal suo sacrificio finale.

UN NATALE CHE SIA VERAMENTE D’AMORE

GIOVANNI TESTORI (1923-1993) propone una riflessione che mette al centro del Natale l’Incarnazione di Dio, che lo fa essere bambino portatore di una speranza che sembra persa da parte dell’umanità. Ogni Natale ci ricorda questa sua volontà di mettersi dentro il vivere dell’uomo. Ogni nascita ricorda quel Natale perché nell’immersione che l’uomo vive dentro la storia c’è pure l’immersione di Dio nella medesima storia. Natale è dunque festa della vita, quella di Dio e quella dell’uomo. La vita, quella di Dio e quella dell’uomo, è segnata poi dal sacrificio, che dà una particolare impronta all’esistenza. Essa è veramente umana e divina perché è segnata dal dono, dall’amore, dall’adesione che Dio ha per l’uomo e che l’uomo ha per Dio.

Da dove viene quel senso di dolcezza infinita, quasi di casa, di capanna, di grembo, che avvertiamo in noi quando ci poniamo a meditare su cosa significhi il Natale, una volta che lo si spogli d’ogni sua decorazione e lo si riconduca al vertice e all’abisso della sua umile e fulgida verità? E da dove ci giunge la percezione che accompagna tale dolcezza; la percezione per cui avvertiamo che solo nel Natale possiamo afferrare e conoscere quell’attimo decisivo della nostra esistenza, l’attimo iniziale, l’attimo cioè della nostra nascita, che altrimenti resterebbe chiuso, per sempre, nella mutezza dell’ombra e delle tenebre? Per rispondere a queste domande, è necessario porsene in precedenza un’altra: cos’è stato, cos’è e cosa sarà il Natale nella storia dura e travagliata dell’uomo e dell’universo. È stato, è e sarà, per sempre, il punto in cui Dio ha deciso d’incarnarsi, d’assumere per amore di noi, sue creature, la nostra stessa carne, le nostre stesse braccia, i nostri stessi limiti e, dunque, la nostra stessa vita e la nostra stessa morte. Se l’essere di Dio è immenso; se è immenso che Dio ci abbia creati, ancor più immensa (proprio nell’ordine dell’immensita dell’amore) è che Egli abbia da sempre pensato e voluto farsi uomo, farsi, cioè, uno di noi; poiché con quel pensiero e con quella volontà ha ricongiunto il nostro limite alla sua infinitezza; ci ha restituita la possibilità d’esistere nella speranza; ha portato, insomma, ciò che è la nostra storia dentro la circolarità senza misure e senza tempo che è la forma precipua di Lui: una forma perfetta, abbacinata e abbacinante. Il Natale è la realizzazione di questo pensiero e di questa volontà; pensiero e volontà che sono stati, sono e saranno unicamente e totalmente d’amore. Nella capanna dove Cristo è nato, la storia dell’uomo ha così congiunto il prima (che fu d’attesa) al poi (che è stato e sarà di compimento). Il Natale è, dunque, la nascita assoluta; ma in quell’assolutezza esso riflette ed assume, illumina e redime, benedice e consacra, tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che de-cide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. Infatti, è proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi e che ha permesso e permette a noi di ripetere, seppure miserevolmente, nella nascita d’ogni uomo, l’atto d’amore infinito di quell’incarnazione. Tuttavia, a leggere nel profondo, il Natale non è soltanto l’immagine suprema e reale dell’apparire d’ogni uomo, ma anche quella del formarsi e, dunque, dell’apparire d’ogni gesto che l’uomo compie quando operi nella volontà di Dio e, dunque, nella volontà della vita. In questo senso tutti i nostri giorni, e, in ogni giorno, tutti i nostri minuti possono verificarsi nel senso misterioso, umile e fedele del Natale, possono essere tutti altrettanti Natali, poiché sono tutti un incremento alla vita; sono tutti fieno portato dalle nostre povere braccia alla capanna di Betlemme, che è la prima, vera capanna; e, insieme, la prima, vera casa del mondo; la sua prima famiglia; il suo primo centro; il suo primo grembo. Per questo mi par giusto dire che la festa e l’inno del Natale sono una festa e un inno, dolcissimi e fermissimi, alla vita; a tutta la vita; anche se su quella festa e su quell’inno vediamo già scendere l’ombra d’una crocefissione e il sangue d’un assassinio. Ma l’amore del Dio incarnato, l’amore del Cristo, piccolo e tremante, di Betlemme sono infinitamente più grandi di quell’ombra e di quell’assassinio. Così, dentro la paglia in cui Maria lo depone, v’è già la morte di suo Figlio, ma v’è già anche la sua resurrezione. Proprio come morte e resurrezione, fine e principio, esistono in ognuno di noi e in ognuno dei nostri atti appena li volessimo iscrivere nella volontà e nella misericordia divine; iscriverli con umiltà ma, insieme, con coscienza lucida e filiale. Ecco spiegato quel senso di dolcezza di cui parlavo all’inizio. Nulla, infatti, come l’amore genera, chiede e moltiplica la dolcezza. E quale amore più grande del Dio che accetta il misero respiro dell’uomo, lo vuole, lo predilige, lo privilegia di sé, se lo fa suo e se lo porta fin sopra i legni della Croce, fin dentro le fibre e lo strazio dell’agonia? Che poi, affinchè il Natale potesse avvenire, Dio abbia deciso d’aver bisogno di un “sì” pronunciato da un essere come noi, del “sì” pronunciato da Ma-ria, ci garantisce ancor più teneramente del cerchio strettissimo, della strettissima collaborazione cui, per incarnarsi, Dio ha voluto chiamare l’uomo. Così è proprio ripetendo il “sì” per cui Maria è diventata sua e nostra Madre, quel “sì” che pronuncia ogni donna che accetti di generare, ripetendolo ogni giorno e in ogni minuto di ogni giorno, che l’Incarnazione e, con essa, il Natale si verificherà di continuo; che la vita rinascerà senza posa; e che la storia che tante vite, intrecciandosi, compiranno sarà tutta e intera nel senso della giustizia di Cristo, nel senso della sua lucentezza, della sua santità, della sua intelligenza, della sua bellezza, del suo amore e della sua pace.

2. UN BAMBINO … PER VOI

La notizia è data in un annuncio, perché quel bambino non arriva atteso e desiderato neanche dai suoi. Eppure egli arriva per tutti – e lo è davvero –. Nel vangelo risulta cercato e conosciuto solo dai pastori della zona di Betlemme, quelli raggiunti dall’angelo, che dà loro la notizia. Nei presepi, costruiti da noi, c’è spesso una folla di tanti personaggi, anche quelli più improbabili, rappresentanti di una umanità varia che vuole esserci, che viene segnalata con la sua attitudine e lasciare un dono, a dare qualcosa per quel “povero” bambino, richiamando così l’aspetto più bello del Natale. Nelle nostre case vogliamo esserci un po’ tutti davanti a quell’immagine per ritrovare il senso della famiglia e per sentirci richiamati alle cose semplici e genuine. Comunque Gesù, proprio nella sua immagine di bambino che ha bisogno di tutto e ha ben poco da dare, se non la sua tenerezza e la sua amabilità, è colui che si espone, e già dimostra in questa circostanza qual è l’impostazione del suo vivere. Egli “e-siste”, cioè sta sempre fuori della sua persona, perché esce da Dio per essere tutto per ogni uomo. Già questo suo modo di essere, lo fa diventare … il Salvatore! E lo sarà sempre in questo modo, perché così lo dobbiamo vedere nel periodo della sua missione, nelle ore della sua passione, nel “mistero” della sua presenza dentro l’Eucaristia, dentro il corso degli eventi umani …

FONTE DI LUCE E DI VITA

Fra le tante immagini di Natitività, in cui Gesù Bambino è la fonte di luce che si irradia sui presenti, c’è anche quella di GUIDO RENI. Qui la folla di pastori e di gente accorsa a vedere il lieto evento viene investita dalla luce di Gesù. Essa appare ancora più splendida di quella che proviene dall’alto, dove tra le nuvole e sul declivio del monte tutto scuro, sembrano piovere i puttini come se volessero far giungere il loro canto descritto sulla striscia di tela dispiegata, mentre altri vogliono come far giungere aromi di fiori che si spandono fuori dalla nube squarciata. E dalla nuvola che, aperta, lascia trasparire un cielo dorato, si affacciano due angeli, uno dei quali fa uso dell’incensiere. Ma la luminosità a cui guardano tutti, coinvolgendo anche gli spettatori, è quella che promana dal piccolo deposto nella mangiatoia. I poveri pastori, anche ad apparire rozzi nei loro vestiti, assumono pose di particolare delicatezza, come se fossero ben compresi da quella particolare situazione che li fa diventare estatici, ammirati, oranti, piegati a riconoscere la grandezza e la bellezza di quella creatura venuta da poco alla luce, per essere luce vera che illumina chi giace nelle tenebre. 

Davanti agli occhi degli spettatori che sono all’esterno del quadro e che forse sono attoniti come quelli dipinti in esso, spicca l’agnello legato per le zampe e depositato sotto la culla del bambino, a ricordare che egli è destinato a diventare l’Agnello di Dio, sacrificato per tutti e capace di attirare proprio per questo motivo. Per il momento l’agnello non attira affatto lo sguardo, perché tutta la scena presenta linee descrittive che fanno concentrare l’attenzione su quel “punto di luce”. Ma, comunque, davanti agli occhi degli spettatori, che siamo noi, sta proprio quel tenero agnello che richiama il bambino posto immediatamente sopra. Così viene già indicata la prospettiva con la quale vedere quell’evento e quella figura di bambino luminoso.

DOPOTUTTO, LA VITA E’ BELLA

CLAUDIO MAGRIS (82 anni), anche quando risale alla sua infanzia per ritrovare il Natale d’un tempo, non cerca propriamente ciò che potrebbe diventare dolciastro e melenso, se intriso di buoni sentimenti e non del vero senso della festa. Egli la ritiene piuttosto il momento fondante dell’esistenza che può dare luce anche a chi sta vivendo nelle tenebre del dolore e dell’ingiustizia. Essa deve dire a tutti che la vita, pur con le sue sofferenze e i suoi disagi, merita di essere vissuta, perché è pur sempre bella.

Forse dunque l’unica cosa che potrebbe fare ognuno, anche chi ha le re-sponsabilità più alte nella vita religiosa e civile, sarebbe parlare di ciò che ha vissuto, del mistero dell’abete folto e scuro e delle stelle di vetro o di carta fra i suoi rami, delle avventurose figure del presepe; io potrei raccontare di due globi di vetro di Norimberga, che agli inizi del secolo i miei nonni mettevano sull’albero per i figli e che ora io metto sul nostro, o potrei raccontare di come cercavo e cerco ancora di mettere nella grotta del Presepe sotto l’albero proprio tutto e tutti, pastori, pecore e cammelli, ma anche orsi ed elefanti, muli di cartapesta rotti e scalcagnati, senza una gamba o magari senza testa, perfino foche. Non solo tre Magi ma cinque o sei, possibilmente con una maggioranza mora, perché un Presepe, per essere veramente tale, deve ospitare il mondo, visto che è il mondo intero che dev’essere redento e che si accalca davanti ad esso per non restare fuori al freddo. Qualche anno fa si aggirava, sotto i rami, rispettoso e curioso, rosicchiando qua e là le figure, anche Buffetto, il mio porcellino d’india. E potrei raccontare di un mio zio che lavorava giorni e giorni per preparare un albero con cascate di neve e un presepe semovente, applicandosi alle spalle due ali di cartone, affinchè vedessi oltre i vetri opachi della porta una vaga sagoma d’angelo; in questo caso, dovrei anche narrare della sua tragica morte, perché il Natale non è una vacua fiaba rosa, bensì una storia che si rivolge pure alla notte, anche quando la illumina. Da tante di queste storie di ognuno emergerebbe forse il senso del Natale, che non è una sciropposa memoria d’infanzia, ma un momento fondante dell’esistenza, della sua poesia e del suo riscatto. Solo così si può diffondere la sua luce in un modo non offensivo per chi affonda nelle tenebre del dolore o dell’ingiustizia; raccontare la grazia di un momento di pace che si è ricevuto non è un’offesa per chi non l’ha mai avuta e probabilmente non l’avrà, mentre dire in tono rassicurante che dopo tutto, la vita è bella e che la pace, con un po’ di buona volontà, verrà per tutti è un’intollerabile ingiuria verso chi soffre pene senza nome.

3. UN BAMBINO … IN DONO

La coreografia dei doni che accompagna il Natale, soprattutto con riferimento ai bambini, che vengono allietati mediante l’aspettativa di un regalo che li faccia contenti, ha la sua motivazione profonda nel fatto che lo stesso Bambino Gesù è avvertito come il dono più grande e più bello che ci venga fatto in questa circostanza. Dio mette a disposizione la vita umana a suo Figlio e mette a disposizione dell’uomo la vita divina di suo Figlio. Gesù, dunque, è il dono per eccellenza, e in questo suo dono, quello che lui è e quello che lui dà di sé, noi possiamo riconoscere la “nostra salvezza”, cioè la possibilità per il nostro vivere di avere un senso. Dobbiamo imparare ad accogliere il dono, qualunque esso sia; soprattutto quando si tratta di una persona, e in modo ancor più singolare quando si tratta di un bambino. L’accoglienza del dono ci deve poi aiutare a comunicare da parte nostra il dono, facendo soprattutto dono di noi stessi, con il medesimo animo del bambino che si lascia sempre sorprendere dal dono, ed è pure capace di condividerlo con altri. L’acco-glienza si deve manifestare con l’apertura del cuore, delle braccia, dello spirito, di tutto noi stessi, analogamente al modo con cui è rappresentato, a volte, il Bambino, che per apparire come dono proveniente dall’alto deve risultare con l’immagine delle braccia aperte, quelle che fanno immaginare lui già disteso per l’offerta sacrificale della propria vita. Ancora una volta qui c’è la segnalazione del “Salvatore”, colui cioè che dà all’esistenza umana il suo vero fine. Proprio così è da vedere il Bambino. E nello stesso tempo que-sta sua fisionomia è … da salvare!

DONO DA ABBRACCIARE

Spesso il Centro Aletti di P. MARKO IVAN RUPNIK descrive nel presepe natalizio il Bambino Gesù nella posa di chi tiene le braccia allargate, mentre è deposto sulla paglia della mangiatoia. E non è raro vederlo anche con una sorta di stola sacerdotale attorno al collo, come se in quel rivestimento lo si volesse considerare già nella sua offerta sacrificale che lo rende sacerdote e vittima insieme. In una delle prime espressioni del genere, quella che sta a Lenno, sul lago di Como, il bambino Gesù appare sulla parete di fondo dell’area presbiterale, in perfetta corrispondenza dell’altare centrale, dove si compie ogni giorno il sacrificio della Messa. È creata così la corrispondenza tra il mistero natalizio e quello pasquale, mai disgiunti, se si tiene conto che la celebrazione del Natale è sempre fatta con la celebrazione eucaristica: lì si riconosce l’annuncio evangelico che offre nel bambino il Salvatore promesso. Così va visto e così va riconosciuto!

Proprio il Bambino, con le braccia aperte, già disposto, dunque, alla croce con l’intervento affettuoso di Maria, è l’immagine attuale del Natale: Gesù è adagiato per terra e quasi invitato dalla madre ad aprire le braccia nel gesto che dovrà diventare a lui, e a noi, familiare. La fasciatura dell’infante poi lascia trasparire quella che al momento della morte diventerà la ferita del cuore aperto, da cui escono sangue e acqua. È il segno inconfondibile della donazione totale, per cui il sangue, fonte di vita, viene versato perché la vita sua diventi abbondante in noi. Lo stesso sangue gli è come travasato attraverso il velo rosso che la madre tiene in mano e porge alla sua manina, quasi a volerlo assumere e poi versare. Qui sembra attingere con la mano sinistra a questa vita che la madre gli dona, e con la mano destra, che tende verso il basso, la vuole comunicare a chi, sotto, sta ad accogliere quel flusso di sangue. È un flusso di vita, che sembra provenire dalla testa rigata di rosso e dalle spalle, perché colui che è la Vita e che ha la vita, possa divenire vita e salvezza per quanti vogliono attingerla da lui in abbondanza. La stessa prospettiva che l’artista ha voluto offrire di questa immagine natalizia, dice come Gesù si sia totalmente annientato, abbassato fino a terra, perché chi lo guarda in questa sua posizione, possa elevarlo a sé, per elevarsi con lui a Dio nel sacrificio, nel dono della vita …

LA DOTTRINA DEL REGNO DEI CIELI

Lo scrittore tedesco, divenuto cittadino svizzero, HERMANN HESSE (1877-1962), è vissuto in un ambiente familiare molto religioso, caratterizzato da un pietismo molto rigido. Non sono mancati per lui problemi di natura psichica, superati grazie anche alla sua attività letteraria e artistica. Non gli è mai venuto meno l’afflato religioso, che tuttavia vorrebbe coltivare ben oltre certe forme devozionali. Nelle sue considerazioni circa il Natale coglie un diffuso sentimentalismo, che non sa comunque costruire un vero senso religioso e il giusto atteggiamento circa l’esistenza. Poi di tutto questo si dà la colpa all’ambiente, mentre in realtà ciò è dovuto al nostro degrado interiore. Dobbiamo imparare piuttosto a vivere meglio facendo uscire da noi una vera spiritualità, quella che fa pretendere molto di più da noi stessi. Qui si può costruire la vera felicità, quella che deriva dal sacrificio di noi stessi …

La “persona colta” di oggi si comporta verso la dottrina di Gesù così; per tutto l’anno non ci pensa e non vive secondo i suoi principi, salvo a cedere la sera di Natale ad un vago e mesto ricordo infantile ed a fare una piccola indigestione di sentimenti miti, di una religiosità a poco prezzo; allo stesso modo che una o due volte l’anno, magari all’esecuzione della Passione secondo Matteo, s’inchina a quel mondo da lungo tempo abbandonato, è vero, ma sempre ancora inquietante e operante in segreto. Sì, è una cosa ammessa, ognuno lo sa e sa anche che è triste. La colpa è dello sviluppo politico ed economico, si dice, la colpa è dello stato, la colpa è del militarismo; e così via. Perché la colpa deve pur essere di qualcosa. Nessun popolo ha “voluto la guerra”, come nessun popolo ha “voluto” la giornata di quattordici ore, la crisi degli alloggi e la mortalità infantile. Prima di festeggiare di nuovo il Natale e di saziare in noi l’eterno, ciò che unicamente è importante, con un surrogato bugiardo di sentimento, dovremmo piuttosto renderci ben conto di questo miserevole stato di cose, anche se ciò dovesse condurre alla disperazione. La colpa della nostra miseria, della nullità e della crudele desolazione della nostra esistenza, la colpa della guerra, della fame e di tutto il male e la tristezza del mondo non è di un’idea o di un principio; è nostra, solo nostra. E solo per mezzo nostro, attraverso il nostro riconoscimento e col nostro volere, tutto questo può mutare. Accendete l’albero di Natale ai vostri bambini! Fate loro cantare gli inni natalizi! Ma non ingannate voi stessi, non continuate a contentarvi del povero, sentimentale, logoro sentimento col quale celebrare tutte le vostre feste! Pretendete qualcosa di più da voi stessi! Perché anche l’amore e la gioia, quel misterioso fenomeno che chiamiamo “felicità”, non si trova in questo o in quel posto, ma solo “dentro di noi”.

LETTERA AL BAMBINO SALVATORE

Carissimo Gesù,

tu vuoi ancora venire in questo mondo, dove già la prima volta sei venuto senza essere accolto, dove hai trovato tanti con i soliti pregiudizi e le molte critiche, dove hai patito il rifiuto e la condanna senza appello. Che cosa ti spinge, Gesù, a tornare? Che cosa ti fa credere che tu possa finalmente avere quell’accoglienza che ti è dovuta? Che cosa pensi di ottenere con questa tua insistenza a voler trovare casa da noi? Non c’è altra ragione, se non il tuo amore. E’ il tuo grande amore per ognuna di queste creature, comprese quelle che ti sono indifferenti o addirittura ostili. E sono proprio le nostre difficoltà a farti desiderare questa continua presenza: noi ricordiamo sempre la tua nascita “nella pienezza dei tempi”, ma sappiamo che non te ne sei mai andato del tutto e che anche attraverso queste celebrazioni ci fai sentire la tua presenza. Certo, come allora, non spariscono per miracolo i guai da noi, anche quando qualcuno beneficia dei tuoi miracoli. Ma tu non vuoi propriamente fare queste cose che non ci aiuteranno mai a crescere, a farci forti, a diventare più esperti della vita. Già nel tuo Natale di allora ci fai capire come dobbiamo essere e come dobbiamo far fronte ai problemi dentro il male. Tu, come Signore e Creatore del mondo, potevi avere tutto a tua disposizione; ed invece non avevi proprio niente, neppure una casa, neppure una culla, neppure l’essenziale per vivere. Tu, come figlio dell’uomo e fratello del genere umano, potevi avere attorno a te tanta gente; ed invece solo pochi, e in possesso di poco, si sono fatti avanti per offrirti il poco che avevano con sé. Ma tu, anche in quel momento hai dato loro la soddisfazione di stare al loro fianco: così si sono rinnovati al punto da tornare al lavoro usato con più soddisfazione e capaci di far fronte ai tanti problemi che la vita riserva. A te invece, non è mancato il pericolo di scomparire dentro una strage, l’ennesima, che sempre accompagna il già tormentato cammino della storia. E ne hanno fatto le spese altri bambini, che noi diciamo innocenti, come succede ancora oggi a chi si affaccia alla vita e attorno ha solo miseria, violenza, guerra, insidie a non finire. Lì, Gesù, vorremmo vedere un intervento forte, chiaro, inequivocabile, in favore di chi non merita affatto quello che gli succede intorno. Vorremmo vederlo anche oggi, per i tanti bambini che hanno solo la disgrazia di nascere nel posto sbagliato, nel momento meno opportuno, ed hanno solo voglia di vivere, voglia di mettersi in gioco, voglia di fare la propria parte per rendere più umano questo mondo. E ci sei anche tu, per questo! Ci sei e ci stai, anche a dover passare situazioni non facili e pericoli non da poco. Anzi; proprio dove il male è più forte lì c’è proprio bisogno di te e tu ci sei con quello spirito che non abbiamo ancora capito, non abbiamo ancora raccolto, non abbia-mo ancora seguito come il solo mezzo con cui far fronte al male.

Ecco, qui ci fai vedere che, abbracciando l’agnello, portato in dono dai pastori, tuoi amici, tu vuoi diventare il vero e solo Agnello, pronto al sacrificio, perché solo con esso si può avere un’esistenza che diventa bella e meritevole di essere vissuta. Grazie ancora una volta per questa tua lezione di vita. Non l’abbiamo ancora appresa; non l’abbiamo ancora assunta, non l’abbiamo ancora riconosciuta come la vera vita che ci fa essere come te. E allora vieni ancora, Gesù! Vieni ancora in questa disposizione! Vieni ancora, come sei venuto allora, anche a non essere ben accolto! Noi, comunque, abbiamo bisogno di te!