LA RIFORMA DELLA CHIESA ATTORNO AL 1000
Le miserie che la Chiesa presenta soprattutto ai suoi vertici compaiono spesso nella Divina Commedia, perché il suo compositore si lascia spesso andare ai suoi giudizi amari e duri, legati anche alle esperienze dolorose che ha dovuto soffrire, a partire dall’esilio fino alla morte. Nello stesso tempo però non si può pensare che tutte queste sue reprimende dipendano da qualcosa di personale; il quadro che aveva davanti agli occhi, soprattutto in quelle istituzioni che dovevano servire ad assicurare pace e giustizia, non era affatto incoraggiante. Nello stesso tempo va anche detto – e lui ne era consapevole – che non solo la Chiesa del suo tempo – come non solo la nostra – presentava lati oscuri e doveva rilevare la non corrispondenza al mandato del suo Fondatore. Ogni forte richiamo alla conversione, emergente in ogni secolo, in presenza di un degrado, spesso disgustoso, si faceva comunque strada e si imponeva come ritorno alle origini. Chi, ancora oggi, invoca una purificazione di forte impatto a tutti i livelli, lo fa, non solo denunciando il male, ma anche indicando come modello a cui riferirsi il periodo della Chiesa apostolica. E tuttavia a leggere le lettere del Nuovo Testamento, considerate ispirate e dunque appartenenti al canone della Parola di Dio, non mancavano neppure allora dei peccato gravi, dei personaggi meschini o, addirittura, arroganti, che avevano pure creato non pochi guai allo stesso Paolo, non sempre tenero nei suoi giudizi verso di loro. Le tensioni dunque non mancano neppure nella Chiesa apostolica, che si pensava di poter considerare paradigmatica: anche qui si rivelano episodi disdicevoli di personaggi arrivisti, che cercano spazio per fare denaro, per avere visibilità, per occupare posti di prestigio.
La stessa “simonia”, il peccato con cui si pensa di poter acquistare cariche di governo nella Chiesa mediante denaro, deriva dalla figura di Simon Mago (Atti 8,9-25). E comunque succedono anche episodi deplorevoli legati alla sfera sessuale, come quello denunciato da Paolo (1Corinzi 5,1-5) o come quelli che troviamo delineati nell’Apocalisse (2,6.15.18-23), dove si parla dei cosiddetti “nicolaiti”, ritenuti seguaci di Nicola, che S. Ireneo identifica con uno dei primi sette diaconi. Essi propugnavano forme di sesso libero, con cui si pensava di entrare in comunione con l’al di là. Proprio questo genere di peccati, già lì denunciati con particolare forza, riemergono nel Medioevo, soprattutto attorno al 1000, quando l’accesso alle cariche ecclesiastiche veniva praticato mediante il denaro e la stessa vita dei religiosi non impediva la lussuria e il concubinaggio, ma anche altre e più gravi forme di peccato nella sfera della sessualità. Il fenomeno, sempre strisciante, esplode in alcuni periodi, sia per la sua diffusione, sia per la gravità con cui si manifesta soprattutto a danno dei più deboli. Non mancano voci autorevoli che cercano di affrontare seriamente la questione sia con gli scritti, sia con l’opera educativa, sia con le riforme necessarie a livello istituzionale. L’obiettivo che i riformatori si prefiggono è sempre quello di tornare alla purezza originaria, quella che si ritiene sia stata la caratteristica dei primi anni della vita della Chiesa. Lo stesso Francesco d’Assisi propugna il ritorno al Vangelo, che lui vorrebbe come la regola di vita dei suoi seguaci, anche se poi deve ripiegare su una regola, secondo i dettami delle istituzioni ecclesiastiche. Prima ancora di Francesco, la Chiesa conosce il suo momento più drammatico in quell’episodio storico che è noto come la lotta per le investiture. Proprio attorno al 1000, in un momento delicato sia per la sopravvivenza del sistema imperiale introdotto da Carlo Magno, sia per la sopravvivenza della Chiesa, che vede il Papato in balia delle famiglie nobili romane, si fa strada un sistema di reazione che fa capo all’abbazia di Cluny, nella Borgogna francese, con cui il monachesimo benedettino si rinnova e finisce per imporre molte delle sue visioni di Chiesa e degli uomini di Chiesa un po’ per tutta l’Europa, grazie alla rete di monasteri che Cluny riesce a costruire. Ancora oggi rimangono tracce di questi siti cluniacensi disseminati un po’ ovunque. Il lavoro di riforma da esso propugnato tocca proprio le questioni delle investiture dei vescovi, che l’imperatore avocava a sé per meglio controllare i suoi feudi e i suoi feudatari, come pure la questione della degenerazione sessuale che stava contaminando persone dell’alto e del basso clero. Proprio da questi fenomeni diffusi e per combatterli che si farà strada la legge del celibato per chi vuole seguire la vita sacerdotale, che in tal modo prende una sempre più marcata caratterizzazione di tipo monastico-religioso. Indubbiamente il processo di riforma richiede molto tempo e una capillare presenza dei riformatori nei posti decisionali. Nel secolo XI, proprio quando Cluny si espande e si trova con abati di grande prestigio spirituale e culturale, nella Chiesa si fa strada la causa della riforma, che vede in prima fila, provenienti dai monasteri cluniacensi, uomini di grande valore intellettuale e di forte spiritualità: molti di essi occupano anche i luoghi di potere e alcuni arrivano a diventare Papa, anche ad avere poco tempo a disposizione.
La lista comincia con Gregorio VI (1045-1046), tedesco, divenuto papa per aver pagato il suo predecessore inducendolo ad abdicare. S. Pier Damiani probabilmente ignorando com’egli avesse ottenuto il papato, lo salutò dicendo di lui che «…finalmente la colomba era tornata all’arca con il ramo d’ulivo», e che con la sua elezione finalmente era stato inferto un duro colpo alla simonia. Dopo alcuni brevi pontificati arriva Leone IX (1049-1054), anch’egli tedesco: si deve a lui l’intervento per il celibato ecclesiastico e contro la simonia. Mentre egli moriva a Roma, a Costantinopoli si consumava la scissione con il mondo latino. Gli succedette un altro tedesco, Vittore II (1054-1057), a cui seguì ancora un papa tedesco, Stefano IX (1057-1058): con essi continua la riforma avviata dal predecessore. Il loro breve pontificato però impedisce di raggiungere risultati solidi. Segue un papa francese, Niccolò II (1058-1061), già piuttosto avanti negli anni. La sua elezione, controversa, perché voluta dai riformatori e osteggiata da altri, venne poi confermata dalla madre di Enrico IV: per sottrarre ai laici la elezione del papa, si decise di creare il corpo dei cardinali, considerati preti di Roma, che avrebbero scelto il papa mediante una regolare elezione. Gli succedette Alessandro II, Anselmo da Baggio, di origine milanese (1061-1073), che già si era distinto a Milano dalla parte della Pataria contro il vescovo filo imperiale, Guido da Velate. Gli sarà di aiuto e sostegno Ildebrando da Soana, che divenne papa Gregorio VII (1073-1085).
LA LOTTA PER LE INVESTITURE
IL CELIBATO DEI PRETI
Queste breve riassunto delle figure dei Papi di questo breve periodo dice che la riforma era sempre presente nei loro programmi, nelle loro intenzioni, ma di fatto la loro breve comparsa non consentiva di andare in profondità, se non con gli ultimi, che ebbero la possibilità di avvalersi di bravi collaboratori tutti provenienti dal sistema monastico di Cluny o da altri ordini monastici, incamminati sulla medesima via. Quella che poi i libri di storia indicano come la lotta per le investiture e che culmina con lo scontro aperto fra Gregorio VII ed Enrico IV, è indubbiamente un aspetto non indifferente di questa riforma, la quale tuttavia si muove a più ampio raggio, per offrire un migliore tenore di vita, soprattutto nell’ambito del clero. Se la lotta per le investiture riguarda i vescovi (a volte anche gli abati dei monasteri), ritenuti dal potere politico come funzionari dell’impero, la riforma della Chiesa investe anche il basso clero, spesso dominato non solo dalla cura del proprio beneficio, ma anche da una condotta non confacente con la vita sacerdotale, soprattutto nell’ambito della ses-sualità. Prevale così una linea rigorista che di fatto deriva dai monasteri soprattutto di derivazione cluniacense, già dediti alla bonifica dei terreni, a cui si aggiunge anche la bonifica delle persone contagiate dai piaceri della vita. E’ proprio in questo contesto storico che si fa strada la legge del celibato, voluta da Leone IX, con cui di fatto i preti finiscono per assumere le caratteristiche dei monaci e quindi una fisionomia di religiosi, che propriamente non rientrerebbe nella loro immagine tradizionale. La gran parte dei monaci, di stampo benedettino, non riceveva l’ordine presbiterale, ma si conservava al di fuori delle istituzioni ecclesiastiche, per quanto gli abati dei monasteri avessero al loro interno poteri ed insegne di tipo vescovile, a motivo della loro autorità riconosciuta non solo nel monastero, ma anche nel territorio adiacente che si riteneva appartenente alla giurisdizione dell’abate locale.
LA RIFORMA A MILANO
A Milano, poi, il vescovo aveva progressivamente assunto potestà anche di natura politica: Ariberto d’Intimiano (vescovo di Milano dal 1018 al 1045) ebbe a lottare con i feudatari minori e poi, con loro, contro l’imperatore Corrado II che vedeva come una minaccia il grande potere acquisito dal Vescovo. Si potrebbe dire che nasce qui, nell’equilibrio fra le varie forze presenti in città quel libero comune, che poi avrà la sua storia nel secolo successivo.
Ariberto partecipò al sinodo di Pavia del 1022, convocato dall’imperatore Enrico II e da papa Benedetto VIII per affrontare la questione della riforma del clero. In questa sede si affrontò anche la questione del clero ammogliato, che a Milano costituiva ancora la norma. Uno dei problemi era di tipo economico, visto che era legato al problema dei servi delle chiese, poi ordinati preti, che si sposavano con donne libere, generavano figli liberi che poi reclamavano un’eredità, lasciti che spesso corrispondevano ai possedimenti delle parrocchie locali: come reazione il sinodo proibì il matrimonio di tutti i chierici.
Nella Chiesa locale, poi, si fanno strada i laici, organizzati nella Pataria, contro i quali viene ingaggiata una dura lotta da parte del successore di Ariberto e cioè Guido da Velate (1045-1071). Proprio questa compagnia di laici si oppone, oltre che al vescovo, legato all’autorità imperiale, anche ai preti che si potevano sposare: questa facoltà sembrava addirittura connessa alla particolarità del rito locale, che gli affiliati alla Pataria, con il diacono Arialdo, volevano difendere recuperando tradizioni desuete. Il rito ambrosiano viene così salvato, grazie alla pataria e ai laici milanesi, quando Gregorio VII impone il rito romano ovunque.
S. PIER DAMIANI (1007-1072)
In questo contesto di riforma, che si avverte un po’ dovunque e che coin-volge diversi Paesi, diverse realtà sociali, il mondo dei laici e dei chierici, emergono figure a tutto tondo. Costoro rivelano come la riforma sia davvero sentita e come sia quanto mai necessaria. Ma soprattutto con essi abbiamo le modalità concrete con le quali perseguire una chiara e forte linea riformista, capace di lasciare un segno indelebile. Costoro non si limitano a muoversi per l’Europa portando con sé parole, scritti, e soprattutto l’esempio vivente di riforma, ma lasciano i propri contributi in modo particolare nei monasteri che frequentano, dove la formazione, indubbiamente di alto profilo, contribuisce a creare una generazione di discepoli in grado di continuare l’azione di riforma, anche quando vengono a mancare quanti hanno aperto la strada, come vediamo soprattutto sulla sede di Pietro.
Uno di questi è indubbiamente l’ascetica figura di S. Pier Damiani, che porta in sé molti tratti riformatori, da lui perseguiti un po’ ovunque. Questa figura viene ancora ricordata e non poteva passare sotto silenzio neppure nel capolavoro dantesco.
Questo santo, tutto fuoco, nacque a Ravenna nel 1007 da poveri genitori carichi di figli. Sua madre lo abbandonò, per fortuna momentaneamente, ancora lattante. Quando mori, l’orfano fu educato dalla sorella Rodelinda, Poi lo accolse in casa il fratello secondogenito, del quale non si conosce il nome, che lo costrinse a durissimi servizi e lo maltrattò. Il ragazzo possedeva un’intelligenza talmente viva che Damiano, arciprete di una pieve nei pressi di Ravenna, suo fratello maggiore, più benevolo, pensò di avviarlo agli studi, prima a Faenza, poi a Parma. In essi Pietro fece prodigiosi progressi. A venticinque anni si acquistò un nome nell’insegnamento, e con esso cominciò ad avere anche un certo agio economico. Divenne chierico, come era in uso per i maestri, e poi fu ordinato prete. Verso il 1035 cattivi esempi e violente tentazioni determinarono il santo a entrare segretamente nel monastero benedettino di Fonte Avellana, sul monte Catria (Pesaro). Come egli stesso raccontò, un episodio lo incoraggiò ad abbracciare la vita monastica vera e propria.
Solitamente invitava a mensa alcuni poveri. Un giorno si trovò solo con un cieco e gli offrì del pane scuro, di qualità peggiore, tenendo per sé un pane bianco. Una lisca di pesce si conficcò nella sua gola, rischiando di soffocarlo. Interpretò l’incidente come una giusta punizione per il suo egoismo e prontamente offrì al cieco il pane migliore: immediatamente la lisca scivolò in gola lasciandolo indenne.
Divenuto monaco si diede a dure penitenze fino a contrarre violenti mal di testa e insonnia. Voleva seguire l’esempio di colui che egli considerava il suo maestro, cioè S. Romualdo (951-1027), di cui poi scrisse la Vita: era un ravennate anche lui, sempre alla ricerca di una vita eremitica rigorosa che andò a sperimentare in tanti altri monasteri, con l’inquietudine di chi non è mai contento della propria ricerca di perfezione. Continuando la sua eredità spirituale Pier Damiani volle introdurre nei monasteri camaldolesi il rigore delle penitenze del santo fondatore. Non gli mancava comunque il piacere degli studi e delle letture e divenne un profondo conoscitore e divulgatore delle Scritture. La fama di esegeta che si acquistò tra i pochi confratelli lo fece richiedere come oratore dall’abbazia di Pom-posa, dal monastero di S. Vincenzo di Petra Pertusa, e da altri centri in relazione con Fonte Avellana.
Quando ritornò nel suo eremo, Piero, che aveva unito al suo nome quello del fratello, riconoscente per l’aiuto ricevuto negli studi, fu eletto priore. Il suo governo segnò per la comunità un’era di prosperità materiale e spirituale, tant’era innamorato dell’ideale della vita claustrale di cui divenne il teorico. I novizi accorsero numerosi alla sua scuola, motivo per cui gli fu possibile moltiplicare le case filiali nelle regioni limitrofe, e dare origine a una Congregazione eremitica d’ispirazione camaldolese, anche se in sé autonoma. Penetrato dello spirito di S. Agostino e di S. Benedetto, egli seguì le orme dei grandi monaci del suo secolo: S. Romualdo, fondatore dei Camaldolesi; S. Odilone e S. Ugo il Grande, abati di Cluny, e Desiderio, abate di Montecassino. Nulla sfuggiva al suo vigile occhio. Egli esigeva l’assiduità alle ore canoniche diurne e notturne, voleva che i monaci praticassero la rigorosa povertà, non uscissero dall’eremo, e non si occupassero di negozi secolari. Alla preghiera i religiosi dovevano aggiungere il lavoro, la pratica di frequenti digiuni e mortificazioni in proporzione dei propri peccati.
L’epoca in cui Pier Damiani visse fu triste per la Chiesa a causa della simonia e dell’immoralità del clero. Data la sua fama, fu ricercato come collaboratore dai Papi del suo periodo. Sotto il pontificato di Leone IX prese forme concrete l’opera del Damiani a favore del risanamento della gerarchia, che, nel suo zelo irruente, voleva casta e feconda di opere buone.
Scrisse allora i suoi due più famosi trattati, il Liber Gratissimus riguardante gli ecclesiastici ordinati gratuitamente e, secondo lui, validamente da vescovi simoniaci, e il Liber Gomorrhianus, dedicato al papa stesso, nel quale flagella spietatamente i costumi del clero corrotto. Leone IX lodò l’autore per l’aiuto che gli prestava nella lotta contro i mali del tempo, ma furono tanto vive le rimostranze che sollevò con il suo scritto che lo ritenne un po’ frutto della sua fantasia.
Stefano IX lo nominò vescovo di Ostia, per averlo più stretto collaboratore. Da questo momento Pier Damiani dichiarò guerra senza quartiere ai perturbatori della Chiesa e si adoperò con le sue lettere di fuoco e i suoi trattati perché fosse osservato il decreto di Leone IX contro i chierici simoniaci e incontinenti, che avvilivano il sacerdozio e scandalizzavano i fedeli. Sotto il pontificato di Niccolò II, nel 1059, svolse la sua prima missione a Milano per la riforma di quella chiesa, e di altre della Lombardia. Egli vi riportò la pace applicando la sua teoria della validità delle ordinanze simoniache, in contrasto con quella del cardinal Umberto di Selva Candida. Molto verosimilmente, fu dietro consiglio di Ildebrando di Soana, futuro papa Gregorio VII, e di Pier Damiani che Niccolò II emanò in quello stesso anno il celebre decreto per cui, onde assicurare in futuro l’indipendenza delle elezioni pontificie, la scelta del papa era esclusivamente affidata al collegio dei cardinali. L’ultima parola spettava ai cardinali-vescovi, mentre l’imperatore conservava soltanto il diritto di conferma e il popolo quello d’approvazione.
Pur amando svisceratamente la Chiesa, il Damiani non vedeva l’ora di deporre la carica che gli era stata affidata contro voglia, per ritirarsi nella solitudine del chiostro. Non tutti i suoi passi furono approvati dai sostenitori della riforma. Egli difatti pensava che convenisse mantenere ad ogni costo l’armonia tra il papato e l’impero germanico, mentre era risaputo che le maggiori difficoltà per la desiderata e improrogabile riforma provenivano proprio dall’impero e dal laicato. Alessandro II acconsenti che Pier Damiani si ritirasse nel chiostro. A Fonte Avellana il santo si rinchiuse in un’angusta cella per darsi al digiuno quotidiano, alle intense discipline, alla meditazione e al canto dei salmi. Da ogni parte giungevano all’eremo persone desiderose dei suoi consigli. All’occorrenza seppe accettare e portare a termine con zelo le missioni che gli furono affidate dal sommo pontefice. Nel 1063 andò a Cluny per difendere, contro le pretese del ve-scovo di Mâcon, l’esenzione dell’abate S. Ugo, direttamente dipendente dal papa, e a Firenze per un’indagine sul vescovo Pietro, accusato dai monaci vallombrosani di simonia, e da lui assolto per mancanza di prove.
Nel 1069 fu inviato a Magonza per distogliere Enrico IV dal divorzio con Berta di Torino, e nel 1071 a Montecassino per la consacrazione della chiesa. Mentre ritornava a Roma per dar conto della sua legislazione, a Faenza fu colto da febbre e morì il 22 febbraio 1072 nel monastero di Santa Maria fuori Porta. Sul suo sepolcro fece porre questo epitaffio:
Io fui nel mondo quel che tu sei ora; tu sarai quel che io ora sono:
non prestar fede alle cose che vedi destinate a perire;
sono segni frivoli che precedono la verità,
sono brevi momenti cui segue l’eternità.
Vivi pensando alla morte perché tu possa vivere in eterno.
Tutto ciò che è presente, passa; resta invece quel che si avvicina.
Come ha ben provveduto chi ti ha lasciato, o mondo malvagio,
chi è morto prima col corpo alla carne che non con la carne al mondo!
Preferisci le cose celesti alle terrene, le eterne alle caduche.
L’anima libera torni al suo principio;
lo spirito salga in alto e torni a quella fonte da cui è scaturito,
disprezzi sotto di sé ciò che lo costringe in basso.
Ricordati di me, te ne prego; guarda pietoso le ceneri di Pietro;
con preghiere e gemiti dì: “Signore, perdonalo”.
Fu subito universalmente venerato come santo. Le sue ossa sono custo-dite nel duomo di Faenza.
IL LIBER GOMORRHIANUS
L’opera di riforma di S. Pier Damiani tocca vari aspetti, ma di fatto egli punta in modo particolare sui due peccati più diffusi e contro i quali vuol combattere senza sosta e senza esclusione di colpi. I mali indicati sono quelli che si ritrovano fin dall’inizio del Cristianesimo e che pure all’inizio del secondo Millennio devono essere ostacolati con molta fermezza e senza giri di parole. Sono i mali della simonia e della lussuria, esercitata con ogni forma di degenerazione nel mondo della sessualità, soprattutto in riferimento alla sodomia e alle perversioni che ne derivano. La sua opera più nota è il Liber Gomorrhianus: già nel titolo traspare la citazione di Gomorra, che con Sodoma sono le città bibliche distrutte al tempo di Abramo e di Lot, da una eruzione di tipo vulcanico (Genesi 19). Nel giudizio biblico la catastrofe diventa il castigo divino nei confronti di un mondo degenerato, dentro il quale non c’è spazio neanche per un numero ristretto di giusti o di persone corrette nel loro comportamento. Abramo vorrebbe intercedere per la loro presenza, ma il castigo esplode.
Nel testo che il santo scrive nel 1049 e che dedica a papa Leone IX, l’autore denuncia molti dei mali che appartengono alla sfera sessuale: soprattutto insiste sulle relazioni omosessuali, sulla masturbazione, che, secondo lui, prepara il terreno all’omosessualità, del coito interrotto e della sodomia. Accusa in modo particolare i sacerdoti che si abbandonano a rapporti “efebici”, che evidentemente sono da considerarsi, per questo, fenomeni di pedofilia. Ha parole molto forti per i preti che vivono in concubinato e che contraggono matrimonio: ormai in quel tempo la legge del celibato era già stata introdotta. Per quanto i sacramenti amministrati da sacerdoti con questi peccati siano comunque validi, non per questo il prete si deve confessare con il suo partner di peccato. Poi se la prende con i vescovi che non intervengono: secondo lui devono essere rimossi!
E in effetti la richiesta avanzata al papa è particolarmente dura: se inizialmente il testo fu accolto molto favorevolmente, poi però, forse anche in presenza di alcune critiche, il papa si mostrava restio ad intervenire, perché, secondo lui, occorreva valutare se ci fosse la recidiva. Pier Damiani ne fu molto contrariato e fece seguire una lettera ancora più dura nei toni e nei contenuti.
Nei confronti dei laici, sull’argomento, rimane sempre duro nel giudizio, ma nel contempo prevede che ad essi si debba comminare una giusta penitenza perché emendino. Non così con i preti per i quali non esiste, secondo lui, penitenza adeguata per farli rientrare nell’esercizio del loro ministero. Non devono più essere riammessi!
Ciò che per Pier Damiani era giocoforza fare in presenza di simili scelleratezze, per il papa e forse anche per quelli che gli stavano vicino e lo consigliavano, quella rigidità appariva eccessiva. Se il peccato va fustigato, il peccatore va invece trattato con più umanità, perché possa recedere dal suo male. È doverosa la punizione, ma non per questo occorre arrivare agli estremi a cui giunge lo scrittore, il quale si augurava che il suo testo fosse fatto proprio dal papa e con la sua approvazione avesse la doverosa diffusione. Non è improbabile che proprio questa presa di distanza abbia portato i due ad avere in seguito delle divergenze. Anche con Alessandro II il suo libro non ebbe buona fortuna. Per quanto il papa di origine milanese avesse già dimostrato la sua durezza nei confronti dei peccati e dei peccatori stigmatizzati nel Liber, poi però, avendolo tra mano, lo tenne per sé e non lo restituì all’autore, volendo in tal modo impedirne la diffusione. Ecco la parte introduttiva in cui l’autore traccia il tema che poi svilupperà nel corso dell’opera:
I-II
Pietro, il più umile servo fra i monaci, al Beatissimo Papa Leone l’omaggio del dovuto rispetto. Poiché sappiamo, dalla bocca stessa della Verità, che la Sede Apostolica è la madre di tutte le Chiese, è giusto che, se in qualche luogo è emerso qualche dubbio riguardante la cura delle anime, si ricorra ad essa come ad una maestra e, come, in un certo senso, alla fonte della sapienza celeste. Così da quell’unica sorgente della disciplina ecclesiastica uscirà la luce che, abbattute le tenebre del dubbio, illuminerà tutto il corpo della Chiesa del limpido splendore della Verità.
Invece, nelle nostre regioni, cresce un vizio assai scellerato e obbrobrioso. Se la mano della severa punizione non lo affronterà al più presto, certamente la spada del furore divino infierirà terribilmente minacciando la sventura di molti. Ah! Mi vergogno a dirlo! Mi vergogno ad annunciare una cosa tanto vergognosa alle sante orecchie, ma se il medico inorridisce per il fetore delle piaghe, chi userà il cauterio? Se colui che sta medicando, si nausea, chi guarirà le anime malate? La sozzura sodomitica si insinua come un cancro nell’ordine ecclesiastico, anzi, come una bestia assetata di sangue infierisce nell’ovile di Cristo con libera audacia, tanto che sarebbe molto meglio essere stati schiacciati sotto il giogo della milizia secolare piuttosto che essere assoggettati, tanto liberamente, alla ferrea legge della tirannide diabolica sotto la copertura della religione. Come dice la Verità: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino e fosse gettato negli abissi del mare». E se la potenza della sede apostolica non interviene al più presto, senza alcun dubbio la sfrenata dissolutezza, benché desideri essere repressa, non sarà capace di fermare l’impeto del suo corso.
Quattro tipi di questo comportamento vergognoso possono essere distinti nello sforzo di svelarvi tutto il problema in modo ordinato.
Alcuni si macchiano da soli, altri si contaminano a vicenda toccandosi con le mani i membri virili, altri fornicano fra le cosce e, infine, altri [fornicano] di dietro. Fra questi c’è una progressione graduale tale che l’ultimo è ritenuto più grave rispetto ai precedenti. Perciò viene imposta, a quelli che peccano con altri, una penitenza maggiore rispetto a quella prevista per chi si macchia da solo con il contatto del seme emesso, e quelli che si contaminano da dietro sono giudicati più severamente di quelli che si uniscono fra le cosce. Quindi, l’abile macchinazione del diavolo ha escogitato questi gradi di dissolutezza in modo che, quanto più in alto l’anima infelice prosegue fra questi, tanto più in basso è gettata nella profonda fossa dell’inferno.
Il tono si fa sempre più forte e il discorrere dell’argomento si fa incalzante man mano che procede nell’argomento e deve in quel dilagare del male la complicità ed anche la “sollicitatio ad turpia” …
XVII
Questo vizio allontana dalla comunità ecclesiastica e relega a pregare con i pazzi e con quelli che lavorano per il demonio; separa l’anima da Dio per unirla ai demoni. Questa nocivissima regina dei Sodomiti crea seguaci delle sue leggi tiranniche, luridi per gli uomini e odiosi per Dio. Ordina di intrecciare guerre scellerate contro Dio e al militante di portare il peso di un’anima pessima. Allontana dalla comunione degli angeli e imprigiona l’anima infelice sotto il giogo del proprio dominio grazie al suo potere.
Spoglia i suoi militari delle armi virtuose e li espone ai dardi dei vizi perché ne siano trafitti. Umilia nella chiesa, condanna nella legge. Deturpa in segreto e disonora in pubblico. Rosicchia la coscienza come un verme, brucia la carne come il fuoco. Brama che il desiderio si sazi e, al contrario, teme che non si faccia vedere, che non esca in pubblico, che non si divulghi fra gli uomini. Colui che prova paura al pensiero di essere lui stesso partecipe di questa rovina, non dovrebbe temere questo vizio? Di certo però non si preoccupa se quello con cui pecca diventa il giudice della scelleratezza nella confessione. Infatti, non solo non esita a confessare che ha peccato, ma lo confessa a quello con cui ha peccato: così succede che, come uno di loro non può morire nel peccato senza che l’altro non stia morendo, così quello che risorge offre l’occasione all’altro per risorgere. Arde la misera carne per il furore della libidine, trema la mente sciocca a causa del rancore del sospetto, nel petto del misero uomo già si solleva il caos infernale. Quanti sono quelli punti dagli aculei dei pensieri immondi, altrettanti sono quelli tormentati dai supplizi delle pene. Sono davvero infelici le anime dopo che questo velenosissimo serpente le ha morse.
Questo tema della riforma era certamente presente a coloro che vi si erano dedicati con tutte le loro energie. Ma probabilmente anche per il modo con cui l’aveva affrontato Pier Damiani, la questione non ebbe tutta l’attenzione che si sarebbe dovuto dedicare. E di fatto per i riformatori dell’epoca la questione più incalzante era quella della “simonia”, soprattutto nel suo risvolto politico: gli uomini di Chiesa risultavano troppo dominati dall’autorità politica e troppo occupati nelle questioni politiche. E tutto questo andava a detrimento della “libertas Ecclesiae”: il culmine giunse con il pontificato di Gregorio VII, ma ormai Pier Damiani era già scomparso dalla scena. Il problema della sessualità, come l’aveva affrontato lui in un trattato che risulta essere il primo sull’argomento, aveva indubbiamente risvolti vergognosi, e forse, senza voler affatto minimizzare, si aveva comunque vergogna ad affrontarlo: si rischiava di sollevare un pandemonio non facilmente controllabile nei suoi effetti negativi. Emerge già qui la tattica, poco felice, usata spesso dall’autorità della Chiesa in presenza di qualcosa che è davvero nauseante, ma soprattutto causa di sofferenze, a cui non si è dato il giusto peso. Il solo a volerne trattare era proprio lui; ma di fatto questo gli alienò anche le simpatie. Per la sua immagine di asceta e di maestro di spiritualità era comunque già un santo, anche se la dichiarazione da parte della Chiesa avvenne molto più tardi. E comunque lui e la sua opera più famosa non ebbero tutta quella attenzione che si sarebbero meritati.
S. PIER DAMIANI
NELLA DIVINA COMMEDIA
Fa specie che ne parli Dante e lo richiami nella sua “Commedia”. Non va però dimenticato che il poeta, nella fase finale della stesura del Poema, si trovava proprio a Ravenna, dove il personaggio, da lui evocato, era nato ed era, ovviamente noto, anche ad essere morto e poi seppellito a Faenza, che ancora oggi lo considera il suo patrono. Ma al poeta il personaggio serviva anche a trattare della questione della riforma della Chiesa, che aveva affrontato partendo dagli ordini mendicanti. Al loro tempo essi erano nati proprio con questo intendimento e con il loro richiamo esplicito a rivivere secondo il vangelo. Ma la riforma non può avvenire solo nelle nuove leve e nei nuovi movimenti di spiritualità. Essa deve coinvolgere anche istituzioni già consolidate, tenuto conto che già esse secoli prima si erano pure rinnovate. In modo particolare il grande mondo dei benedettini aveva conosciuto nuove modalità. Ordini di nuovo conio si erano fatti strada attorno al 1000. Anche a richiamarsi alla tradizione benedettina, erano sorte nuove famiglie: cluniacensi, camaldolesi, certosini, cistercensi, premostratensi, vallambrosani … La rinascita della società, dopo la paura della fine del mondo, richiedeva la presenza di nuove istituzioni, che si proponevano, con la bonifica dei terreni, anche la conversione dei cuori. Antesignani in questo sono proprio i Camaldolesi, che hanno come loro figura di riferimento S. Pier Damiani, per quanto siano stati fondati da S. Romualdo.
Dante colloca S. Pier Damiani nel cielo di Saturno, insieme con gli spiriti contemplativi, e di lui parla dandoci i tratti biografici, ma più ancora la sua amara considerazione sugli uomini di Chiesa che ancora degenerano.
A parlare dei camaldolesi con le loro luci iniziali e le ombre attuali, il poeta sceglie Pier Damiano, e non il loro fondatore S. Romualdo, che nomina appena (Paradiso XXII,49). Quando scriveva questi canti, Dante era a Ravenna, o stava per andarvi, e la città dove Piero era nato, era piena di ricordi di Piero, anche negli edifici: S. Maria in Porto si credeva (e si credé a lungo, sino a Boccaccio – Petrarca) fondata da lui; lì si riteneva fosse la sua tomba. Romualdo, pur nato anche lui a Ravenna, aveva scelto per la vita eremitica sua e dei suoi una montagna del Casentino; le sue memorie non dovevano essere vive nella sua città natale: scrivendo il De vita solitaria il Petrarca lo aveva ignorato; e solo in un secondo momento aveva riparato all’omissione. Ma questo non basta a spiegare la preferenza data da Dante a Piero. Occorre pensare che questi non era stato solo un santo eremita come Romualdo; era stato anche un energico riformatore della Chiesa mondanizzata dei suoi tempi, insieme col grande Ildebrando (poi papa Gregorio VII) e in contrasto con lui, su una posizione vicina a quella che occupò poi Dante: egli pensava, contrariamente a Ildebrando, intransigente nel volere il Papato assolutamente distaccato dall’Impero, anche a esso superiore, che il contributo di questo alla riforma della Chiesa fosse auspicabile. Inoltre, Piero ebbe parte cospicua nell’azione riformatrice e nella battaglia anche pratica, come abate, vescovo, cardinale, diplomatico, contro il clero corrotto e contro scismatici ed eretici. Impersonava dunque assai bene l’ideale dantesco d’una mistica che scendeva sull’arena. Ma il poeta assai probabilmente ignorava i particolari dell’attività apostolica e della politica religiosa di Piero, e infatti non ne parla, mentre invece – pur accennando all’orazione e al digiuno (Paradiso XXII, 89) coi quali S. Benedetto si rese degno della grazia di Dio che gli permise il suo apostolato – imposta essenzialmente su questo la biografia poetica di lui (Paradiso XXII,37-45) Per Piero, parla solo del cardinalato … è ragionevole pensare che Dante ebbe conoscenza, diretta o indiretta, di alcuni suoi scritti, almeno di quelli nei quali denuncia, con asprezza che si riflette in quella dell’invettiva che Dante gli fa pronunciare a fine canto, la mondanità e i vizi del clero e la sua avarizia. (Bosco – Reggio p. 347-8)
Anche se appare come il fustigatore dei vizi della Chiesa, soprattutto nel mondo dei religiosi, la priorità non viene data alla lussuria, come dovrebbe far pensare il Liber: a Dante interessa il male della Chiesa nei suoi risvolti in politica, non in quelli che coinvolgono la sfera sessuale.
Lo introduce così …
Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.
«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano. (Paradiso XXI, 103-123)
La figura ascetica del santo viene introdotta a partire dal suo eremo di Fonte Avellana, che qui viene proposta come fucina di santi. Così era un tempo. Così non lo è più, al momento in cui Dante ne parla. E già questo fa capire il ruolo che S. Pier Damiani assume nel Paradiso dantesco. Egli è soprattutto il fustigatore della degenerazione della Chiesa. Ma per questo deve indossare il cappello cardinalizio che lo fa essere un’autorità in grado di intervenire con particolare forza ed efficacia. In realtà non c’era ancora il cosiddetto galero cardinalizio; tuttavia è ovvio che qui si parla
della dignità che vi è annessa, dove però è sempre possibile “travasare” di male in peggio, se si scelgono le persone sbagliate … Eppure la Chiesa aveva avuto i suoi inizi, grazie a Pietro (Cefas) e a Paolo (il gran vasello o “vas electionis”), senza questa rincorsa ad avere denaro e potere, visto che i due vengono descritti “magri e scalzi” e soprattutto pronti a qualsiasi forma di ospitalità. Ma poi le cose cambiano e il quadro è desolante …
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!». (Paradiso XXI, 124-135)
In contrapposizione a questo quadro di nobile povertà, tipica degli inizi del cristianesimo, sta invece il quadro desolante dei “tempi moderni” dove i “moderni pastori” non vanno a piedi, ma hanno chi li “rincalzi”, cioè coloro che li conducono sulle portantine, perché non abbiano a camminare a piedi. E ce ne vogliono tanti, da una parte e dall’altra di quel genere di carrozze sorrette da uomini: sono talmente pesanti, talmente ingrassati che ci vogliono anche i “caudatari” (i “reggicoda”), quelli che sollevano i vestiti, o fors’anche chi li porta. In questa descrizione c’è un crescendo di sarcasmo verso questo genere di personaggi, che deve creare disgusto e insieme un riso sardonico di totale condanna. E la terzina successiva calca ulteriormente la mano. L’immagine dei prelati sulle cavalcature è quella di un uomo ricoperto di un manto che poi scende anche sul cavallo, così che i due sono uniti sotto un unico rivestimento: sembrano in tal modo due bestie. E per Dante lo sono davvero …
Fino a tal punto si spinge il poeta nel parlare di ecclesiastici, e lo fa dire ad un santo, ad uno che in modo più degno rivestiva quella carica e che nel suo esempio ascetico rimproverava quanti non davano affatto bella prova di sé, ed offrivano una figura davvero disgustosa, come quella che si ricava dall’immagine rappresentata lì. E dopo un giudizio così impie-toso non poteva che arrivare lo sfogo finale: come è possibile sopportare una situazione del genere. Ma Dio è paziente! Ciò non significa che non ne debba venire un castigo esemplare, anche se qui non viene minacciato. La dura invettiva – e tale risulta anche quando domina il sarcasmo – si addice proprio a S. Pier Damiani, che certamente è stato tra i riformatori del suo tempo, quello più acceso, quello più duro e intransigente, anche a non limitarsi al solo peccato che “impingua”, creando figure di prelati tesi a ingrossare il loro potere e la loro borsa, oltre che il loro corpo. S. Pier Damiani non ha certo mancato su questo terreno di dire la sua, e sempre con accenti che non lasciano spazio ad alcun compromesso. Tuttavia, anche ad essere ammirato e consultato, anche a trovare posti di prestigio con la nomina a vescovo e a cardinale, senza comunque trascurare la sua vocazione monastica, le sue invettive non vengono raccolte neppure da coloro che lo sentono partecipe di questo lavoro di pulizia nella Chiesa, perché, arrivati a posti di comando e in continua tensione con il potere politico, non si poteva affatto spingere la polemica fino alla rottura. Di fatto con Gregorio VII, l’amico Ildebrando, con cui non sempre le decisioni da prendere collimavano, si arrivò allo scontro con il potere politico, ma lui già non c’era più. Ovviamente Dante considera la riforma della Chiesa soprattutto sul versante dell’affrancamento dal potere politico per un ruolo di potestas super partes, che la Chiesa avrebbe potuto e dovuto ricoprire laddove le potestà politiche erano divise e avevano dato origine a scontri sanguinosi, come era nel caso della Firenze trecentesca. Nessun cenno invece a quella piaga legata all’omosessualità, nelle sue espressioni più indecorose, ma anche più infamanti, come se questo fosse non rilevante. In realtà un simile problema non rientrava nella ricerca che Dante perseguiva circa la missione della Chiesa dentro la società del suo tempo. Questo fenomeno, che doveva essere ben noto al poeta, non ha trovato spazio nelle sue considerazioni. E tuttavia, anche senza entrare nel merito delle degenerazioni nella sfera della sessualità, l’immagine dei pastori della Chiesa del suo tempo, definiti “moderni” con un certo disprezzo, è più che sufficiente perché appaiano disgustosi, riprovevoli.
L’invettiva contro i “moderni pastori” che chiude il discorso di Piero e il canto XXI, e nella quale, anche nel tessuto del canto, l’ascesi si converte in apostolato (come poi in S. Benedetto), si distingue dalle altre consimili invettive per una caratteristica peculiare: il sarcasmo prende la forma della caricatura. In sostanza, Piero vuole esprimere il suo sdegno contro l’opulenza dei prelati, ma la concentra caricaturalmente sulla loro grassezza. A contrasto, l’astinenza sua e dei primi camaldolesi, quelli che “dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo” nell’antico rigore della regola (Paradiso XXII, 50-51), e il riferimento agli apostoli Pietro e Paolo, “magri e scalzi”, che prendevano “il cibo da qualunque ostello” … (Bosco – Reggio, p. 348)
Altro, dunque, non c’è. Non compare quello per cui andava famoso S. Pier Damiani. Non compare quel genere di peccato che pur risultava radicato nella Chiesa e faceva tanto male.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Fa ancora male. Una simile indecenza non ha lasciato né i “sacri palazzi”, né altri ambienti occupati da religiosi, che si sono resi colpevoli non solo di lussuria, ma anche di quelle forme di violenza, particolarmente odiose, soprattutto quando ci sono di mezzo bambini, ragazzi, adolescenti, circuìti partendo dalla loro giovane età, dalla loro inesperienza, dalla loro genuinità e ingenuità. Il fenomeno, oggi esploso, ma neppur da circoscrivere agli ultimi tempi, richiede una attenta anamnesi, perché poi si possa fare una più seria diagnosi. Qui è il caso di sottolineare che essa appartiene alla forme di corruttela presenti lungo il corso della storia della Chiesa, così come appartengono a questo mondo. Dispiace non poco che il fenomeno abbia una tale diffusione nella Chiesa stessa, segno di insufficiente attenzione al fenomeno, soprattutto nell’ambito educativo che riguarda i luoghi della formazione del clero e del mondo religioso. Certamente non giova né passare sotto silenzio, né caricare ulteriormente un fenomeno tanto delicato da richiedere una educazione più attenta e più seria circa tutta la sfera che riguarda la sessualità, perché si cerchi la costruzione di personalità più robuste e più equilibrate insieme, sull’argomento. Tutto ciò che appartiene a questa sfera viene vissuto bene non solo perché se ne ha una giusta informazione, ma perché a partire anche da questa realtà si aiuta il giovane a conoscere meglio se stesso, le sue forze, le sue risorse, e soprattutto come esse vadano poi messe in campo nelle diverse relazioni che ogni persona incontra e costruisce.
Anche chi è chiamato a vivere il celibato o la consacrazione religiosa mediante il voto di castità, non può pensare che il problema della sessualità non lo riguardi, non l’abbia mai ad incontrare e a vivere, non debba neppure pensarci. La personalità di ciascuno si costruisce anche con l’esercizio della sessualità, che non si ha solo con l’uso (e a volte l’abuso) dei propri organi genitali: la sessualità non è circoscritta ad essi. La stessa spiritualità non può neppure prescinderne, anche quando la castità ci chiede l’astensione dai rapporti carnali: essendo espressione libera, essa richiede una vera padronanza di sé, senza timori e senza ambiguità. E comunque la sessualità è indubbiamente quella “cosa molto buona” di cui si parla nella creazione secondo la Genesi: come tale va proposta, va spiegata, va colta in tutta la sua ricchezza, va vissuta. Un’educazione che si riduce agli obblighi o ai divieti, senza la decantazione della coscienza, non potrà incoraggiare un vivere più armonioso e sereno. Certamente non si può pensare che il male possa essere arginato o superato con la concessione ai preti di potersi sposare. Ci vuole un’educazione più solida.
Figlio del suo tempo, Pier Damiani ha affrontato la questione cogliendo in esso soprattutto i pericoli e le disfunzioni, evidentemente per una visione che metteva in risalto sul fronte della sessualità gli aspetti peccaminosi, che pur ci sono. Egli poi, nella sua opera, ha voluto marcare ancora di più forme degenerate, su cui ha soffermato l’attenzione anche mettendo in luce quanto di più negativo di fatto si faceva in quel campo. Riteneva così di aver trovato il modo di denunciare il male, radicato in tanti luoghi, che evidentemente lui ben conosceva; ma oltre la denuncia, è opportuno anche una cosiddetta “pars construens”, che qui manca e che anche oggi è opportuno considerare e mettere in campo. Di fronte al male che rischia di deflagrare, se non è già di fatto esploso, occorre, certo, la denuncia, e con essa l’intervento censorio che punisce. Se per ogni reato, anche il più grave, la punizione da prevedere deve essere medicinale, in vista della riabilitazione di chi ha fatto il male, anche qui si deve pensare a qualcosa del genere, non senza un percorso che potrebbe andare anche all’infinito, nel senso che non se ne può determinare a priori la fine. Se è deprecabile il tacere e più ancora il nascondere, non è neppure auspicabile quella forma di pubblico ludibrio che non garantisce nessuno, come pure non è corretto neppure qui che la pena possa avere una componente vendicativa e giustiziera, mai espressione di vera giustizia. S. Pier Damiani, mettendo in luce questi mali, soprattutto i loro autori, ha avuto il coraggio di una denuncia, che non c’era mai stata prima di allora con quella chiarezza, e probabilmente non ci fu neppure dopo, e neppure si riscontra oggi. Con il suo stile veemente, però, e con la pretesa di una condanna, senza un adeguato percorso di ricerca sul male commesso, egli si è alienato la stessa cerchia dei suoi amici e collaboratori, i quali dimostravano di apprezzare il fatto della riforma, quanto mai necessaria, ma non da perseguire fino a quel segno, fino a quegli estremi e con quei modi, che ancora oggi si ravvisano nel testo da lui lasciato. Proprio per la solitudine in cui è stato lasciato su questo argomento e per la scarsa diffusione in quel tempo del suo libro, evidentemente quel tema non ha avuto sufficiente spazio; e certamente lo si deve all’impostazione che S. Pier Damiani ha dato al tema. Ci può essere il medesimo rischio anche oggi, se non si ha il coraggio di una denuncia, che non si limiti solo a mettere in piazza i fenomeni e a volerne una punizione, che ha il sapore dell’annientamento della persona che ha gravemente sbagliato e che necessita di un salutare cammino di pentimento e di pena connessa. Così il Liber, denuncia del peccato di un tempo, può servire anche oggi, ben comprendendo i suoi limiti, legati ad una certo contesto storico e culturale, perché si abbia a perseguire una strada, ancora tutta da delineare, per colpire secondo giustizia ciò che è stato fatto, e soprattutto per far sì che non solo il fenomeno sia arginato e possibilmente eliminato, ma che soprattutto tutte le persone, le vittime in primis, e anche chi ha fatto il male, possano uscirne nelle migliori condizioni. Comunque S. Pier Damiani, pur con i suoi limiti, pone una questione molto delicata da considerare, e quanto meno si deve ammirare il coraggio che ha avuto di sollevare un problema serio, grave, delicato, ma soprattutto tanto rovinoso per le persone e per la stessa Chiesa. Essa non può rinchiudersi e porre sotto silenzio i casi obbrobriosi che rovinano la sua immagine, ma più ancora la sua missione; deve piuttosto avere il coraggio di quella riforma, sempre necessaria, perché essa è sempre composta da peccatori.
BIBLIOGRAFIA
1.
Dante Alighieri, LA DIVINA COMMEDIA – PARADISO
(a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio) Le Monnier, 1979
2.
S. Pier Damiani, LIBER GOMORRHIANUS,
(a cura di Gianandrea de Antonellis) Fiducia, 2015