Quella fatale tendenza verso l’ignoto che c’è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell’amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime – e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati – o assai più modesti, secondo il punto di vista – e non verrebbe che l’ultimo nella scala dei sentimenti?… La colpa più grave del fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia? (da “Primavera e altri racconti”, X, p. 54-55)
SCRITTORE DI NOVELLE
Si potrebbe dire che Verga nasce come narratore e soprattutto come romanziere e che il ricorso al racconto breve sia solo un esercizio in vista del racconto più complesso e più completo. In realtà il genere della novella, che nella nostra storia letteraria è quanto mai diffuso e ricorrente, non serve a lui solo per abbozzare, per costruire delle macchiette, per sperimentare un genere, quello verista, che poi utilizza in maniera più consapevole con i lavori che sono destinati a dargli fama e soprattutto una sorta di magistero nell’ambito del suo stile e della sua scuola di pensiero. Indubbiamente i brevi racconti sono per tanti versi come degli esercizi per apprendere il suo stile e soprattutto quella padronanza dei temi e dei personaggi che egli si apprestava a costruire con i suoi romanzi.
Tenuto conto che si era fatto un programma piuttosto impegnativo con il ciclo dei vinti, che prevedeva addirittura ben cinque romanzi, si deve pensare che fosse per lui quanto mai utile questo esercizio di “bozzetti”: essi non devono solo creare un ambiente o delle atmosfere, ma anche e soprattutto dei personaggi, delle fisionomie umane “a tutto tondo”. In effetti, prima delle due opere corpose, ci sono stati questa assaggi di narrativa, che a volte vedono anche la luce in editoria e che contribuiscono a segnalare l’autore nel mercato librario. Ma soprattutto si deve riconoscere che in questi suoi assaggi egli cerca anche di far conoscere l’impostazione del suo lavoro e la ragione profonda del suo affacciarsi dentro la nuova letteratura che accompagna anche il cammino della nuova Italia. Quel fenomeno letterario che va sotto il nome di “Verismo” si forma qui, proprio con queste sperimentazioni, nelle quali l’autore traccia concretamente le linee guida di un movimento ancora agli inizi. Fa specie trovare in questi racconti una specie di prefazione che vede l’autore stesso in prima perso-na avviare il lettore dentro il racconto non tanto per creargli l’ambiente in cui poi trovarsi a suo agio, quanto piuttosto per far intendere che, al di là della storia narrata, costui deve raccogliere quel tipo di “sugo” che non è moralismo, non è approccio psicologico, ma è soprattutto scoperta di un accostamento “verista” che deve far comprendere la realtà nella sua oggettività, prima fase per poter poi meglio comprendere la persona e le persone nella loro essenzialità, anche oltre i loro sentimenti, i loro istinti, i loro eroismi o le loro incapacità e miserie.
IL MODO UMANISTICO DI NARRARE
La prima sua operetta ha come protagonista una figura femminile, segnata fortemente dalle connotazioni romantiche che la fanno essere una eroina dell’amore, anche ad essere una ragazza dell’ultimo gradino della scala sociale. Lo scrittore la evoca in una maniera singolare, come se la sua creatura uscisse, attraverso la sua fantasia, da un fuoco che arde dentro e che va continuamente smosso, perché la fiamma si attizzi sempre più. La storia che ne esce è quella di una ragazza, la quale, pur apparendo sotto la pioggia uggiosa, si va, via via, animando. La sua vicenda è amara, e tuttavia non le è negato quello che è essenziale agli esseri umani e cioè l’amore, divenuto sempre più profondo, anche in mezzo alle in-comprensioni, alle ostilità, alle cattiverie e ad un destino tragico, in cui tutte le persone care le vengono tolte. Questo amore, che nell’era romantica risultava l’ingrediente essenziale della vicenda narrata, qui si presenta nella visione “verista”, non più come solo sentimento di una psicologia che soffre e che reagisce, ma come una componente che rimane a dare ancora più forza alla figura femminile. Essa emerge per la sua umanità che non viene travolta dalla vicende, ma rimane sempre grandiosa anche in mezzo all’accanirsi del male, qui descritto con il realismo verista che lo vuole esasperato. Ma lei, la piccola e debole creatura, privata anche di tutti gli affetti e di ogni sostegno, si rivela per quell’amore che non è solo espressione di sentimenti e di emozioni. Insomma, l’amore non va esaurito nel solo moto affettivo e va riconosciuto ancora più forte e più vero, come nello smuovere il fuoco nel cammino si riattizza la fiamma: questo dettaglio è l’elemento da cui parte lo scrittore nella sua introduzione, essenziale per comprendere il suo modo di procedere con la stesura delle novelle.
Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani, o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascerei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Codesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l’effetto di mille sensazioni che farebbero in-canutire i vostri capelli e solcherebbero di rughe la vostra fronte.
(Le novelle, Nedda, p. 25)
Non c’è ancora il richiamo agli ingredienti della sensibilità verista. Anzi, questo brano è tutto costruito secondo la scuola romantica che fa leva sulle belle immagini, sui vocaboli (anche di carattere onomatopeico) molto espressivi, e sui moti dell’animo che il quadro descritto favorisce. Ma chi ne sortisce è l’eroina della storia (pur sempre storia d’amore), descritta, e raccontata insieme, in una vicenda sempre più amara e tragica, perché la nuova visione verista deve far leva su un quadro oggettivamente misero e particolarmente amaro. Ma è proprio questo genere di quadro che aiuta la fantasia a trovare una storia, che poi non è più solo “quadro fantastico”, ma diventa sempre più quadro realistico, dal quale l’autore stesso scompare per lasciar posto alla sua eroina, sempre molto umana, pur con la sua riduzione a figura da scartare, da lasciare isolata nella sua condizione di miseria e di peccato, insieme.
Nedda, dunque, come accesso alla fase verista. Nel 1874 Verga si trova a un passaggio critico di esito imprevedibile … Il bozzetto rusticano è la punta di un iceberg, che l’autore stesso stenta ad avvistare. La paginetta di introduzione appare in questo senso indicativa dei persistenti equivoci, oltre che del disagio; serve a delimitare e a distinguere lo spazio riservato allo scrittore e quello riservato ai protagonisti del suo racconto. Lo scrittore se ne sta protetto a casa sua, nella sua poltrona, col sigaro semispento nelle labbra e gli occhi socchiusi, di fronte alla fiamma del camino, e il suo pensiero svolazza vagabondo, incontrollato. Questo è l’interno confortevole. Fuori, piove ed è un’altra storia. Quale? La storia di una raccoglitrice di olive, che conduce una vita quotidiana di fatiche, e a cui muoiono successivamente la madre, il giovane Janu a cui si è legata in un idillio ben poco bucolico, la figlioletta nata da quella relazione. A Nedda, insomma, tutto va male, e le rimane l’unica risorsa dell’accettazione cristiana del sacrificio. La prefazione segna esattamente una differenza di classe e ricongiunge lo scrittore al suo pubblico d’elite, rassicurato sull’inermità e sull’innocuità del personaggio, investito di luce fuori dalla norma.
(Campailla, p. 7)
I primi esperimenti narrativi nella direzione dei racconti brevi, risultano prevalentemente fatti da storie nelle quali sembra avere il sopravvento quanto di più romantico ci possa essere, e cioè l’amore, che vede al centro la figura femminile, quella che, anche a non essere la protagonista della storia è comunque l’elemento decisivo. La caratterizzazione prevalente, tuttavia, non è quella di figure eroiche o di personaggi delicati soprattutto per il loro corredo di buoni sentimenti e di affetti particolarmente intensi. Questo donne sono di fatto vittime, non solo perché oggetto di soprusi o figure travolte da un destino avverso in un mondo di miseria, ma soprattutto perché appaiono rinunciatarie, “vittime incoscienti e a priori rassegnate, senza neppure la consapevolezza della loro rassegnazione e della necessità della rinuncia” (Luporini, p. 50).
La partecipazione sentimentale e la considerazione moralistica rientrano infatti in un preciso costume letterario dell’epoca. L’inizio chiaramente di maniera (che fa intravedere con quali intenzioni e per quale pubblico il Verga scrivesse il bozzetto), lo scoperto e ingenuo moralismo (che non si propone tanto di documentare quanto di commuovere sottolineando gli aspetti più pietosi di una certa condizione umana) la tendenza all’idillio, il linguaggio fiorentineggiante e così aggraziato da apparire talora persino stucchevole si innestano chiaramente in quel filone tardo romantico, insieme sentimentale e sociale, in cui il Verga già si era inserito con Storia di una capinera. La polemica morale e sociale resta insomma estranea alla parte più viva e più nuova del racconto proprio perché risponde ad un’esigenza letteraria … che in Verga era ormai in via di superamento: non per nulla le pagine che ci fanno pensare al Verga maggiore non sono quelle polemiche, bensì quelle dell’idillio amoroso e ovunque lo scrittore possa compiangere liricamente la sorte di Nedda, la sua scontata e rassegnata impotenza. Nedda, infatti, non è una ragazza come le altre raccoglitrici di olive, ma è a bella posta scelta “fra le timide e le deboli”, anzi “è più povera e più piccola delle altre”; cosicché tutto il racconto, fin dalle prime battute, appare imperniato sulla scoperta compassione dell’autore per il suo personaggio … (Luporini, p. 51)
L’IMPOSTAZIONE VERISTA
DELLE NOVELLE
Negli anni ’70 Verga si dedica così a questo genere di lavoro che lo conduce poi ad operare il salto di qualità nella sua produzione: le prime sperimentazioni, tutte racchiuse nel clima tardo romantico, gli rivelano che il filone richiede qualcosa di assolutamente nuovo, anche perché è cambiato il mondo di riferimento. E tuttavia non ha ancora ben chiaro quale possa essere il ruolo dello scrittore in questo nuovo mondo. Proprio questi suoi primi abbozzi lo conducono a chiarire a se stesso le nuove possibilità espressive, sia nel linguaggio, sia nell’impostazione della materia da trattare. Quello che più chiaramente arriva a dire con il suo capolavoro, soprattutto nella prefazione al romanzo dove spiega di voler sostenere un ciclo narrativo sui vinti della società che non sono solo gli ultimi della gerarchia sociale, già lo coglie nello studiare alcuni personaggi e alcune storie. Emblematico a questo riguardo è ciò che scrive introducendo la storia di colei che viene definita l’amante di Gramigna.
Scrive all’amico, Salvatore Farina (1846-1918), che ebbe fama al suo tempo come prolifico scrittore, per sottoporre alla sua attenzione quello che lui definisce solo un “abbozzo” di racconto. In questa sua premessa si possono enucleare i principi fondamentali che diventeranno le regole dello scrivere secondo lo stile e lo spirito “verista”.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo, e per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo; sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, del risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina dei grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno un fatto meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat creatore; ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.
(Le novelle, L’amante di Gramigna, p. 135-6)
Ci sono in maniera chiara ed esplicita i principi della “dottrina” verista: il linguaggio popolare, lo scrupolo scientifico, l’assoluta oggettività che porta lo scrittore ad eclissarsi nella sua impersonalità narrativa … Ma non va neppure disatteso quello che appare detto con molta chiarezza: il suo racconto deve risultare un chiaro “documento umano”. E se non bastasse, viene anche detto in modo esplicito che, per quanto debba essere realistico, oggettivo, scientifico il lavoro narrativo che descrive il mondo circostante, questo deve comunque portare ad uno “studio dell’uomo interiore”. Sulla base di queste precise e specifiche indicazioni, dobbiamo riconoscere che il mondo letterario di Verga rimane sempre ancorato a quel genere di Umanesimo che pone come ragion d’essere e fine del vivere la singola persona, meritevole di attenzione, e degno di costituire il cuore dell’analisi che scrittore e lettore devono fare del mondo. “Il semplice fatto umano farà pensare sempre”: osserva lo scrittore. Anche nella sua deformazione, anche nella sua istintività che lo fa immaginare come una bestia, l’essere umano deve essere recuperato sempre più dentro la fiumana della storia che tutto travolge. Anche quando egli insiste in maniera veristica e quindi, secondo i suoi stessi principi, con una analisi che privilegia il dato scientifico, la componente deterministica, quel tipo di istintività che sembra ridurre la persona allo stesso mondo animale, molti dei suoi personaggi lottano in continuazione perché si imponga quel residuo di spirito umano, che rivela la persona capace di far fronte al male, anche a doverne essere travolta. Per questo motivo si pensa che in questi suoi lavori Verga risenta del clima romantico in cui è cresciuto, in cui è stato educato; poi però prevale quella modalità narrativa che lo fa diventare il caposcuola del verismo. Indubbiamente non si può negare questa sua propensione che è evidente; e tuttavia c’è da segnalare ciò che accomuna i veri “padri nobili” della letteratura nel voler cercare l’essenziale della persona umana e quella “salvezza” che consente all’uomo e alla donna di far emergere quanto di meglio sono in grado di offrire in ogni tempo e in ogni condizione. Così anche i personaggi che si potrebbero pensare più degradati, quelli che la storia “spazza via” come elementi negativi per un vissuto non conforme alla morale, alla ideologia dominante, alla visione psicanalitica diffusa, hanno pur sempre una nota “umana” che li fa essere degni di nota.
VITA DEI CAMPI
Si possono qui considerare i protagonisti di tante novelle, scritte in epoche diverse, e messe in raccolte differenti, ma tutte legate all’ambiente contadino. La raccolta “VITA DEI CAMPI” si compone di 8 novelle: Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di santi, Pentolaccia, Il come, il quando ed il perché. Ci sono storie di gelosia, come quella famosa della Cavalleria rusticana, poi portata in musica da Pietro Mascagni, con risvolti giudiziari per l’accusa di plagio: la causa fu vinta dal Verga, che ebbe così una buona rendita. La storia poi dell’amante di Gramigna diventa il racconto della relazione amorosa con un brigante.
Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di abbarbicare. Per giunta si approssimava il tempo della messe, il fieno era già steso pei campi, le spighe chinavano il capo e dicevano di sì ai mietitori che avevano già la falce in pugno, e nonostante nessun proprietario osava affacciare il naso al disopra della siepe del suo podere, per timore di incontrarvi Gramigna che se ne stesse sdraiato fra i solchi colla carabina fra le gambe, pronto a far saltare il capo al primo che venisse a guardare nei fatti suoi. Sicché le lagnanze erano generali. Allora il prefetto si fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, e dei compagni d’armi, e disse loro due paroline di quelle che fanno drizzar le orecchie. Il giorno dopo un terremoto per ogni dove; pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo; se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, e rispondeva a schioppettate se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata; i cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra in tutte le stalle, le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, fuggiva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Il principale argomento di ogni discorso, nei crocchi, davanti agli usci del villaggio, era la sete divorante che doveva soffrire il perseguitato, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno. I fannulloni spalancavano gli occhi. Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni. La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani; dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse: — La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi.
Il povero «candela di sego» rimase sbalordito e la vecchia si mise a strapparsi i capelli come udì che sua figlia rifiutava il miglior partito del villaggio. — Io voglio bene a Gramigna, le disse la ragazza, e non voglio sposare altri che lui!
— Ah! gridava la mamma per la casa, coi capelli grigi al vento, che pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola!
— No! rispondeva Peppa coll’occhio fisso che pareva d’acciajo. — No, non è venuto qui.
— Dove l’hai visto dunque?
— Io non l’ho visto. Ne ho sentito parlare. Sentite! ma lo sento qui, che mi brucia!
In paese la cosa fece rumore, per quanto la tenessero nascosta. Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo standardo di santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovarla di notte nella cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre aveva acceso una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma che la notte lo vedeva in sogno, e alla mattina si levava colle labbra arse quasi avesse provato anch’essa tutta la sete ch’ei doveva soffrire. Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna; e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi. Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia. Finalmente sentì dire che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia. — Ha fatto due ore di fuoco! dicevano, c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli si trovava. Allora Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia, e fuggì dalla finestra. Gramigna era nei fichidindia di Palagonia, che non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli, lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata: come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie dei fichidindia, nei fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciare partire il colpo — Che vuoi? le chiese. Che vieni a far qui?
— Vengo a star con te; gli disse lei guardandolo fisso. Sei tu Gramigna?
— Sì, son io Gramigna. Se vieni a buscarti quelle venti oncie della taglia, hai sbagliato il conto.
— No, vengo a star con te! rispose lei.
— Vattene! diss’egli. Con me non puoi starci, ed io non voglio nessuno con me! Se vieni a cercar denaro hai sbagliato il conto ti dico, io non ho nulla, guarda! Sono due giorni che non ho nemmeno un pezzo di pane.
— Adesso non posso più tornare a casa, disse lei; la strada è tutta piena di soldati.
— Vattene! cosa m’importa? ciascuno per la sua pelle!
Mentre ella voltava le spalle, come un cane scacciato a pedate, Gramigna la chiamò.
— Senti, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, se vuoi stare con me bisogna rischiar la pelle.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì la fucilata si mise a sghignazzare, e disse fra sé: — Questa era per me. — Ma come la vide comparire poco dopo col fiasco al braccio, pallida e insanguinata, prima le si buttò addosso, per strapparle il fiasco, e poi quando ebbe bevuto che pareva il fiato le mancasse le chiese — L’hai scappata? Come hai fatto.
— I soldati erano sull’altra riva, e c’era una macchia folta da questa parte.
— Però t’hanno bucata la pelle. Hai del sangue nelle vesti?
— Sì.
— Dove sei ferita?
— Sulla spalla.
— Non fa nulla. Potrai camminare.
Così le permise di stare con lui. Ella lo seguiva tutta lacera, colla febbre della ferita, senza scarpe, e andava a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane, e quando tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva. Finalmente una notte in cui brillava la luna nei fichidindia, Gramigna le disse — Vengono! e la fece addossare alla rupe, in fondo al crepaccio, poi fuggì dall’altra parte. Fra le macchie si udivano spesseggiare le fucilate, e l’ombra avvampava qua e là di brevi fiamme. Ad un tratto Peppa udì un calpestio vicino a sé vide tornar Gramigna che si strascinava con una gamba rotta, e si appoggiava ai ceppi dei fichidindia per ricaricare la carabina. — È finita! gli disse lui. Ora mi prendono; — e quello che le agghiacciò il sangue più di ogni cosa fu il luccicare che ci aveva negli occhi, da sembrare un pazzo. Poi quando cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta. Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente che si accalcava per vederlo, si metteva a ridere trovandolo così piccolo, pallido e brutto, che pareva un pulcinella. Era per lui che Peppa aveva lasciato compare Fino «candela di sego!» Il povero «candela di sego» andò a nascondersi quasi toccasse a lui di vergognarsi, e Peppa la condussero fra i soldati, ammanettata, come una ladra anche lei, lei che ci aveva dell’oro quanto santa Margherita! La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita, onde pagare gli avvocati di sua figlia, e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, brutta anche lei come Gramigna, e col figlio di Gramigna in collo. Ma quando gliela diedero, alla fine del processo, recitò l’avemaria, nella casermeria nuda e già scura, in mezzo ai carabinieri; le parve che le dessero un tesoro, alla povera vecchia, che non possedeva più nulla e piangeva come una fontana dalla consolazione. Peppa invece sembrava che non ne avesse più di lagrime, e non diceva nulla, né in paese nessuno la vide più mai, nonostante che le due donne andassero a buscarsi il pane colle loro braccia. La gente diceva che Peppa aveva imparato il mestiere, nel bosco, e andava di notte a rubare. Il fatto era che stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e dovette vendere la casa.
— Vedete! le diceva «candela di sego» che pure le voleva sempre bene. — Vi schiaccierei la testa fra due sassi pel male che avete fatto a voi e agli altri.
— È vero! rispondeva Peppa, lo so! Questa è stata la volontà di Dio.
Dopo che fu venduta la casa e quei pochi arnesi che le restavano se ne andò via dal paese, di notte come era venuta, senza voltarsi indietro a guardare il tetto sotto cui aveva dormito tanto tempo, e se ne andò a fare la volontà di Dio in città, col suo ragazzo, vicino al carcere dove era rinchiuso Gramigna. Ella non vedeva altro che le gelosie tetre, sulla gran facciata muta, e le sentinelle la scacciavano se si fermava a cercare cogli occhi dove potesse esser lui. Finalmente le dissero che egli non ci era più da un pezzo, che l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Ella non disse nulla. Non si mosse più di là, perché non sapeva dove andare, e non l’aspettava più nessuno. Vivacchiava facendo dei servizii ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso, e pei carabinieri poi che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, e gli avevano rotto la gamba a fucilate, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza. La festa, quando li vedeva col pennacchio, e gli spallini lucenti, rigidi ed impettiti nell’uniforme di gala, se li mangiava cogli occhi, ed era sempre per la caserma spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo dei carabinieri.» Soltanto allorché li vedeva caricare le armi a notte fatta, e partire a due a due, coi calzoni rimboccati, il revolver sullo stomaco, o quando montavano a cavallo, sotto il lampione che faceva luccicare la carabina, e udiva perdersi nelle tenebre lo scalpito dei cavalli, e il tintinnìo della sciabola, diventava pallida ogni volta, e mentre chiudeva la porta della stalla rabbrividiva; e quando il suo marmocchio giocherellava cogli altri monelli nella spianata davanti al carcere, correndo fra le gambe dei soldati, e i monelli gli dicevano «il figlio di Gramigna, il figlio di Gramigna!» ella si metteva in collera, e li inseguiva a sassate.
(Le novelle, L’amante di Gramigna, p. 136-9)
In questa novella, come in altre della raccolta, prevale il tema dell’amore, che fa sempre pensare ad una forte influenza romantica. Ma la visione dell’amore non è secondo i canoni dei romanzi di primo Ottocento. Qui c’è proprio un mondo contadino, “rusticano”, come sarà ancora nelle novelle della raccolta successiva, con una lettura dell’amore che ha forti connotazioni istintuali. La figura femminile che dà il nome a questa novella, tutta centrata sull’amante di Gramigna e non propriamente sul brigante, si rivela come una donna che lascia prospettive di vita più rasserenanti, più comode, più agiate, per lasciarsi andare ad un amore che, secondo le parole del racconto, le procura una forte arsura. È dunque un amore passionale, che si carica senza il bisogno di poter vedere e conoscere l’uomo amato, perché di lì si faccia strada l’amore. Per quanto possa essere “selvaggio” e istintuale, questo amore dà risalto a queste figure che possono trovare una loro individualità e un loro senso dell’amore genuino e non calcolato sulla base degli interessi, che lo fa essere una sincera espressione del cuore umano. E tuttavia nella critica prevale il fatto che qui siamo in presenza di un percorso ancora tutto da costruire e da consolidare perché si possa giungere al verismo più maturo.
Anche una novella come L’amante di Gramigna è tutta incentrata sul mito giovanile del Verga romantico, sull’amore inteso come dedizione assoluta e suprema. È interessante a questo proposito notare … lo sviluppo della storia nel racconto e paragonarlo con la cronaca di quanto realmente avvenne così come è narrata dal Capuana, secondo il quale la Peppa, quando seppe che Gramigna aveva avuto una gamba spezzata da una fucilata, “s’era sentita liberare da quell’incubo ed era presto rifiorita”. La mistificazione del documento umano che il Verga opera ci sembra quanto mai significativa come riprova del persistere dell’ideale romantico dell’amore in questa novella: ideale che invece sparirà del tutto nelle Rusticane anche se col rischio di quel “depauperamento umano” ingiustamente dal Marzot notato per Vita dei Campi. Non solo nell’Amante di Gramigna, ma anche in Cavalleria rusticana è evidente un’impostazione del racconto che può ricordare ancora i romanzi giovanili. Dei quali c’è sempre la medesima lezione …: chi rompe le leggi, chi osa mettersi contro le regole della realtà è destinato alla sconfitta … Ma tuta la simpatia dello scrittore va ancora al trasgressore, alla sua carica vitale, al suo reagire … alla sua capacità di insidiare, proprio con queste armi, le leggi della società. (Luporini, p. 63-4)
Quello che appare nella prima raccolta di novelle è un Verga molto realistico che già sta abbozzando il suo nuovo stile e la sua nuova impostazione nel considerare il mondo attorno a sé.
La scoperta della nuova materia sembra presentarsi qui come “insurrezione lirica dei primitivi” (L. Russo), come fulminea affermazione di personaggi estranei alle artificiali complicazioni della vita civile, dominati da passioni elementari e originarie. Questo mondo, rimasto tanto a lungo fuori della storia, appare regolato da una “fatale necessità”, da meccanismi ineluttabili che impongono rapporti fatti di cose, di crude esigenze materiali; la vita della campagna siciliana si rivela attraverso i suoi ritmi sempre uguali, la costrizione della miseria e del lavoro più ingrato, l’ostilità della natura, la violenza reciproca fra gli uomini, motivata da immutabili gerarchie sociali, dall’egoismo individuale, da tradizioni e da precise regole di comportamento. Sotto una solarità accecante e minacciosa l’universo sembra qui tradursi tutto nella ripetizione di gesti eterni, e le passioni vi balenano improvvisamente come fatti naturali, al di fuori delle tortuosità della coscienza e della psicologia, scontrandosi tra loro con guizzante, improvvisa drammaticità.
(Ferroni, p. 422)
NOVELLE RUSTICANE
Per arrivare alla maturità anche nell’ambito del racconto breve occorre giungere alla raccolta definita “Novelle Rusticane”. Queste presentano nella edizione definitiva 12 storie, ambientate nella “sua” Sicilia, quando all’avvento del nuovo Regno, ci si poteva immaginare che la realtà sociale potesse trovare finalmente la sua “redenzione”. Ma così non fu. Qui le vicende appaiono altamente drammatiche, perché in questo caso i vinti sono più che mai consumati e senza speranza. Qui prevale la componente sociale, politica ed economica: le novelle si prestano a questo genere di lettura, che le fa essere riflesso vivo della profonda provincia siciliana, toccata dalla miseria e nel contempo abbandonata a se stessa dopo l’epopea della liberazione che in realtà viene vissuta come azione di conquista. Sullo sfondo di questo fallimento storico l’autore è ormai deciso a percorrere la via del Verismo più duro e più esasperato, indicando nei suoi personaggi coloro che sono vittime di una selezione naturale ad opera di chi risulta più forte. Eppure anche queste fisionomie umane, che hanno messo in campo velleità istintuali proprie di chi reagisce in modo selvaggio, meritano attenzione e comprensione. Emblematico a questo riguardo è lo stesso modo di raccontare che ha l’autore nella novella che vede sull’orizzonte la tragedia di Bronte (agosto 1860): i contadini siciliani, insorti per la conquista della terra a loro promessa – è sempre la roba a diventare la protagonista delle storie! – vengono brutalmente repressi dai garibaldini che pure avevano portato la vagheggiata libertà. Non per nulla questa novella ha come titolo: “Libertà”. Ne è sufficiente l’avvio, per verificare come lo scrittore si sia lasciato andare a qualcosa di truculento …
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!». Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
— A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! — Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. — A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! — A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! — A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! — A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! — Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. — Perché? perché mi ammazzate? — Anche tu! al diavolo! — Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. — Abbasso i cappelli! Viva la libertà! — Te’! tu pure! — Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. — Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! — La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. — Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse — lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia — don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del so-marello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. — Paolo! Paolo! — Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
(Le novelle, Libertà, p. 208-9)
In Libertà il pessimismo materialistico non ammette altre soluzioni o contropartite: la evidenza drammatica nasce da un’assoluta disperazione, mentre la partecipazione dell’autore è adesione ad un’azione puramente anarchica e distruttiva. Se nel Verga, a differenza che nel Manzoni, mai compaiono tentazioni populistiche e molto meno forti sono quelle ideologiche, se il suo senso d’estraniamento dalla storia e il suo stesso pessimismo gli impediscono il sogno democratico di integrare il popolo nel corpo della nazione; il chiuso sarcasmo di tante pagine delle Rusticane, l’impotente rovello, la scontentezza, proprio perché non potevano trovare sbocco in concreti programmi o in soluzioni graduali e riformistiche, traboccano in un sussulto di ribellione, in rabbia finalmente liberatasi nell’azione, nella cieca distruzione di un ordine implacabile che pesa da secoli. Certo l’orrore per la strage è senza reticenze ed espresso con una immediatezza mai raggiunta dal Manzoni, ma esso impedisce nella prima parte della novella un senso di alta e cupa indignazione, quell’adesione alla raffica distruttrice e rivoluzionaria, puramente e assolutamente negativa, che poi lo scrittore, dopo le prime due pagine, decisamente rinnegherà col rilevare l’inutilità della rivolta e col sottolineare freddamente la brutale ferocia.
(Luporini, p. 127)
IL DARWINISMO SOCIALE
Un po’ in tutte le novelle di questo ciclo riflettono quel forte pessimismo che domina in Verga nella sua età matura, quando arriva ai capolavori e lì esaurisce la sua vena narrativa, mai tentata poi, perché mai riusciva a risvegliarsi rispetto a quanto qui aveva prodotto. Il nuovo mondo che sembrava progredire dialetticamente e soprattutto scientificamente, era comunque l’espressione di una lotta drammatica nella quale solo il più forte era destinato a prevalere. Allo scrittore non restava che guardare con simpatia chi risultava vinto, chi cercava titanicamente di resistere e non era comunque in grado di sopravvivere. Perciò è anche inutile la lotta sociale predicata e attuata dai gruppi nascenti del socialismo, così come non si poteva neppure redimere il mondo della borghesia affarista che cercava di stare al passo con i tempi in una Europa sempre più smaniosa di produrre e di creare benessere. In fondo, Verga è di fatto un fatalista, secondo gli schemi della “sua” Sicilia, che in modo gattopardesco restava com’era pur nei cambiamenti sociali e politici. La macchina travolgente che Darwin aveva escogitato nei suoi studi naturalistici, risultava all’opera anche dentro la società, che è proprio caratterizzata dai vinti, da coloro che sono travolti e spazzati via, perché più deboli.
Ad essi non può che rimanere la “pietas” dello scrittore, il quale, delineandoli nelle sue storie, dà loro spazio e valore, senza che possano diventare esempi virtuosi. Non ha una visione di contrapposizione sociale secondo gli schemi del marxismo, perché nella serie di vinti ci sono tipi che appartengono a tutte le categorie sociali, destinate comunque a cadere, perché nel sistema messo in campo, chi è più debole è destinato ad essere spazzato via e travolto, a qualunque strato sociale appartenga. Questo visione deriva dalla teoria evoluzionistica di Charles Darwin (1809-1892), applicata nel campo sociale. E’ ben nota la teoria del biologo e antropologo inglese che vuole leggere dentro il cammino della natura una lotta continua per la sopravvivenza: possono vincere, temporaneamente, coloro che si adattano alla situazione e soprattutto sanno trasmettere i loro caratteri a quanti seguono. Naturalmente la selezione è “naturale”. Indubbiamente la visione appare affascinante e, nel clima positivista, la più adatta a comprendere quanto si verificava in quegli anni del secondo Ottocento, quando si preparava e si realizzava un periodo di progresso mai visto prima nella storia umana. Ma questa cavalcata impetuosa aveva in sé anche tutti gli elementi negativi che porteranno sull’orlo del baratro. Lo stesso scrittore dovette assistere alla caduta di quel mondo che era stato suo e che non lo era più dopo la Grande Guerra …
La conferenza del De Sanctis sul “Darvinismo in arte” limita la partecipazione del critico napoletano al nuovo movimento e ne dichiara la irriducibile antinomia. Poiché il darvinismo raccoglieva i risultati della filosofia positivistica e tutto riportava alla esperienza e alla constatazione, togliendo forza alla invenzione ed alla fantasia. Il De Sanctis reclamava l’arte al sistema che lo abbracciava; i critici darviniani invece vedevano la forza nel sistema; puri meccanici, nulla concedendo al sentimento e alla razionalità. Nella loro concezione c’era, implicita una filosofia; ma una filosofia che finiva col divorare se stessa, tutto rimettendo alla macchina che il pensiero aveva escogitata, come quella che ormai deteneva una sua forza e la capacità di tutto spiegare senza più rivolgersi né al pensiero né al sentimento. Il darvinismo aveva ravvivata e diversamente innervata la teoria dello “svolgimento”, del progresso fatale, perché naturale, della specie; e cioè della civiltà, che ne accompagnava il moto lento ma irresistibile. Il razionalismo astratto del Settecento non era riuscito a nulla provare, allontanandosi così dalla storia come dalla natura. Invece la nuova scienza si proponeva di tutto spiegare e ordinatamente esporre, moto per moto, anello per anello, in modo che tutto riuscisse coordinato e dimostrativo.
Tradotto nel campo dei problemi sociali, politici, morali, religiosi e letterari, il principio delle scienze naturali valeva come una improvvisa illuminazione e trasformazione: di giudizi, di credenze, di sensibilità psicologica e critica. Il classicismo tramontava come scuola di principi fissi, di un gusto avallato dall’esempio e dal peso di tanti secoli illustri: l’arte era riportata al presente momento storico, al senso del relativo, e perciò tutti i generi letterari dovevano essere aggiornati o eran destinati a cadere, come specie ridotte a vacue spoglie: la lirica, il poema, il romanzo, la novella, il dramma, in tanto erano moderni in quanto riuscivano a farsi interpreti, presso il pubblico, delle stesse sollecitazioni e degli stessi propositi da cui erano presi gli scienziati, i sociologi, i naturalisti, gli psicologi.
(Giulio Marzot, p.717-8)
È indubbiamente una visione tragica, pessimistica, fortemente negativa, che non lascia spazio ad alcuna possibilità di redenzione: tutti i personaggi delle sue storie, per quanto creature della sua fantasia e, come tali, molto umani, sono destinati ad essere portati via senza alcuna forma di riscatto sociale, anche quando tentano con tutte le forze di uscire dalla propria condizione miserevole. Lo stesso scrittore finisce per condividere la sorte dei suoi personaggi, perché dopo la fase produttiva si determinerà un lungo periodo in cui la vena narrativa si esaurisce, anche perché fuori di questo suo modo di intendere la vita non riesce a trovare nuove e insperate risorse. Sulla base di questa visione del mondo e dell’uomo verrebbe da concludere che l’apporto del Verga è quanto mai negativo e senza speranza. Certo, ha una visione fatalista della vita, una visione che dovremmo considerare di fatto in contrasto con il clima che egli dovrebbe respirare nel suo tempo e soprattutto nella Milano di fine Ottocento, dove di fatto opera. Di lì vede certamente un cammino, decisamente orientato a costruire un radioso progresso, anche a partire dai nuovi ritrovati scientifici e soprattutto alle tante applicazioni tecniche. E tuttavia anche la Milano di fine Ottocento conosce le tensioni di natura sociale, perché sotto la spinta del progresso arrembante molti finivano in una sorta di tritacarne della storia. Sì, l’umanità può sembrare avviata ad una progresso senza sosta, senza limiti, ma l’umanità è pur sempre composta da singoli e spesso da persone deboli che richiedono attenzione, rispetto, valorizzazione. Verga, anche quando deve riconoscere che costoro sono dei vinti e tali rimarranno per sempre, vuole dedicare attenzione a loro, perché non si perda mai l’attenzione e la cura nei confronti di coloro che sono pur sempre componenti essenziali di quella umanità, che non è mai cosa astratta e vaga, ma è proprio composta da singoli, pur sempre di valore anche nel loro destino amaro.
CONCLUSIONE
Proprio il suo essere legato completamente alla società che aveva davanti agli occhi, rendono più assoluta la disperazione e più drastica la negazione. Ovunque si volgesse, a contadini o a borghesi, egli non vedeva che questa realtà in cui viveva e nella cui atmosfera tutti siamo avvolti: quella dell’interesse, dell’egoismo, dell’alienazione. Quelli erano e sono i caratteri peculiari della sua e della nostra epoca: questi ha inteso fino in fondo rappresentare e alla fine implicitamente condannare attraverso la sua cattiveria rappresentativa, attraverso lo scatto di una disperazione che in tanto è più tragica e completa proprio in quanto altro mondo da questo rovesciato e alienato egli non poteva e non sapeva immaginare. (Luporini, p. 218-9)
A 100 anni di distanza dal suo prendere congedo da questo mondo, Verga lascia una lezione che merita sempre grande considerazione, perché, anche ad apparire rassegnata, per nulla capace di impegnare in un lavoro di risveglio, di riscatto, di recupero, essa ci dice che non ci si può ridurre a schemi ideologici, sociologici, scientifici per dare uno spessore più umano al vivere. Le creature viventi, anche quelle intrise di debolezze e di miserie, sono concretamente figure di riferimento per guardare alla vita con uno spirito più umanistico. Più che valori astratti, più che concetti di natura filosofica, abbiamo ancora bisogno di far riferimento a persone concrete, che senza essere eroi o esempi sublimi, sono pur sempre compagni di viaggio in un vivere che deve sempre meglio qualificarsi e ciò deve avvenire grazie alla solidarietà che deve contraddistinguere la famiglia umana nei suoi componenti. Tutti, compresi quelli che noi potremmo giudicare erronei o erranti.
BIBLIOGRAFIA
1. Giovanni Verga, TUTTE LE NOVELLE
(a cura di Sergio Campailla), Newton Compton, 2021
2. Romano Luperini, PESSIMISMO E VERISMO IN GIOVANNI VERGA,
UTET, 2009
3. Giulio Ferroni, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, Vol. III,
Elemond, 1991
4. AA.VV., QUESTIONI E CORRENTI di STORIA LETTERARIA,
(Giulio Marzot, IL VERISMO, pp. 711-760), Marzorati, 1984