Storia della Cina: Francesco Saverio e i primi gesuiti in Cina

INTRODUZIONE

L’opera storica che Matteo Ricci scrive ha come titolo: “Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina”. Per la lingua che usa e, più ancora, per il genere di contenuti che vi trovano ampio spazio, si deve pensare che essa non si preoccupi di dialogare con il mondo cinese, come avviene invece in altre opere da lui lasciate. Questo è evidentemente un lavoro che deve spiegare in Occidente e, in modo particolare, nel mondo cattolico, come sia stata condotta l’attività missionaria che il gesuita marchigiano si prefiggeva di compiere e che costituiva l’assillo fondamentale del nuovo Ordine religioso, da poco fondato e già schierato sui diversi fronti dei luoghi geografici che erano stati contattati nei viaggi avventurosi del secolo. Se in altri settori Ricci si rivela un uomo ben avviato negli studi scientifici e soprattutto preoccupato di comunicare in maniera rispettosa con il mondo cinese, qui, in un ambito più propriamente storico, tenuto conto che deve riferire alla Compagnia, secondo le richieste del fondatore, fatte ai suoi missionari in giro per il mondo, vediamo emergere una cura più attenta, da parte dello scrittore, per giustificarsi nel suo modo di operare. Egli si deve mettere sul solco dei suoi immediati predecessori, che hanno aperto la strada per la presenza, non solo degli occidentali, ma soprattutto dei missionari del vangelo in Cina. Se Ricci appare spesso dominato da un tipo di “curiosità” scientifica, che lo fa essere attento alla cultura cinese e dialogante con essa, qui si fa strada, più che lo storico, il cronista della missione, e quindi colui che deve spiegare ai superiori le linee guida della sua azione, in cui predomina l’obiettivo di proporre il vangelo e di farlo conoscere con lo spirito dei pionieri. Costoro, anni prima della sua venuta in Cina, hanno comunicato il vangelo secondo l’impostazione allora perseguita di ottenere conversioni e adesioni alla Chiesa, già squassata da scismi ed eresie, che in Europa avevano lacerato la sua unità e compattezza. Soprattutto a partire dalla intraprendenza dei Portoghesi, i Gesuiti cercavano di accompagnarsi a loro, anche perché i Lusitani avevano una buona flotta e notevoli interessi un po’ dovunque, nell’intento di creare punti di approdo, a partire dai quali potevano creare sbocchi di mercato per raccogliere materiale e smerciare. Da quando erano iniziati i viaggi sull’Atlantico con l’intenzione di raggiungere più facilmente quello che nella geografia di allora risultava l’Oriente, senza la cognizione che ci fosse un continente in mezzo, l’obiettivo rimaneva comunque Cipango (Giappone) e Catai (Cina), ma più ancora l’India sempre considerata “favolosa” per le ricchezze che si ipotizzava di trovarvi.

La via di terra risultava impedita a causa dell’Impero ottomano, sempre più decisamente spinto a dimostrare la sua superiorità militare e navale in Europa. Ed allora si cercava una via diversa, che però aveva rivelato l’esistenza di un altro continente. I Gesuiti, da poco creati per opera di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Pietro Favre, si erano messi a servizio della Chiesa Cattolica nel suo programma di recupero di credibilità, dopo la lacerazione ad opera dei luterani e di quanti ne avevano seguito le orme: costoro non si prefiggevano solo di reagire alle nuove idee con quella che veniva chiamata la Controriforma, come se bastasse semplicemente essere contro la Riforma, poi definita “protestante”, per recuperare il terreno in Europa, ma accampavano un nuovo slancio missionario, fatto di azione culturale. Prima di loro, francescani e domenicani, gli ormai consolidati Ordini religiosi medievali, avevano seguito i “conquistadores”, soprattutto spagnoli, senza tuttavia crearsi modalità particolari per la propria azione religiosa con le nuove popolazioni incontrate e accostate. I Gesuiti si rendono conto che deve essere cercato un nuovo modo di trattare con le popolazioni locali, sia nelle colonie americane, sia nel lontano Oriente. Qui in presenza di sistemi politici e culturali consolidati, era doveroso accostarsi con un approccio dialogico, che, soprattutto in Cina con l’opera di Ricci, porterà i suoi frutti. Da Roma però venivano tutte le perplessità circa il suo metodo, perché la volontà di affermare con chiarezza la dottrina, in polemica con la frammentazione luterana, richiedeva che il vangelo venisse annunciato senza accomodamenti. Il metodo usato da Ricci, che godeva del sostegno da parte del superiore locale, in considerazione della particolare situazione della Cina, vista dalla colonia portoghese di Macao, quando viene conosciuto a Roma, creerà non pochi problemi e perplessità; ma il suo ideatore nel frattempo era scomparso dalla scena. Negli anni in cui Ricci è attivo e sta cercando di penetrare in Cina, risalendola da sud verso Pechino, costui scrive le sue relazioni e cerca, presso la Curia generalizia dei Gesuiti a Roma e soprattutto presso i nuovi uffici di Curia vaticani, di giustificare l’operato suo e dei Gesuiti che sono con lui. Per lui la giustificazione migliore è quella di mostrare che sta operando sulla scia di colui che risultava il pioniere in assoluto verso la Cina e cioè Francesco Saverio, morto mentre stava proponendosi di entrarvi, nello stesso anno in cui a Macerata nasceva Matteo Ricci.

IL CRISTIANESIMO IN CINA

A dire il vero, Francesco Saverio non è affatto il primo ad entrare in Cina, essendo ben noti altri missionari venuti per via di terra a portarvi il verbo cristiano. E tuttavia Matteo Ricci nel suo testo non fa alcuna menzione di ciò che noi sappiamo da altre fonti storiche. A sua giustificazione si può dire che egli non voleva fare la storia della missione in Cina, quanto piuttosto spiegare gli inizi dell’attività dei Gesuiti. Questo suo modo di impostare la questione rivela con chiarezza che quanto scrive è la sua relazione ai Superiori di Roma e nello stesso tempo è la volontà evidente di sostenere che il suo modo di operare è in continuità con colui che nell’Ordine, non è solo il fondatore, ma anche il primo missionario e quindi colui che ha aperto le nuove vie per questa azione, che si vorrebbe differisse da ciò che facevano altri Ordini nella Chiesa. Indubbiamente in Cina erano già stati degli Europei, provenienti per via di terra e in genere mossi da motivi di ordine economico. A costoro si accompagnano anche dei religiosi, i quali si presentano con lettere credenziali del Papa; ma il loro intervento non lascia segni duraturi e soprattutto un sistema istituzionale locale. Si possono riassumere gli sporadici interventi dei primi missionari riportando la nota della curatrice del testo di Matteo Ricci. All’apertura del Libro Secondo, laddove si parla delle prime mosse della Compagnia di Gesù, come se prima non ci fossero stati nulla e nessuno, risulta necessario nel rispetto della verità storica segnalare i tentativi precedenti.

Ricci qui, nel narrare le vicende della penetrazione cattolica in Cina, non tiene conto della missione dei francescani databile fra il XIII e il XIV secolo; l’evoluzione dell’impresa francescana si può ricostruire attraverso alcune tappe principali nel 1246, durante l’impero mongolo, il frate Giovanni da Pian del Carpine giunse a Qara-Qorum per consegnare una bolla del papa Innocenzo IV al Gran Qan Guyuk; nel 1253 fu la volta del frate fiammingo Guglielmo de Ruysbroeck, che giunse a Qara-Qorum in missione per conto del papa o forse del re di Francia Luigi IX, e rimase presso il Gran Qan Mongka per due anni. Molto più rilevante l’esperienza missionaria del francescano Giovanni da Montecorvino, nominato nel 1281 Legato Apostolico in Cina da Nicolò IV. Egli fu il primo sacerdote cattolico ad arrivare in Cina, dove giunse a Pechino nel 1292 ed edificò due chiese. Nel 1307 il papa Clemente V lo nominò arcivescovo di Qanbalic. La missione di Montecorvino prosperò ed egli edificò un monastero per ventidue monaci; rimase in Cina fino alla morte avvenuta nel 1328, dopo aver fronteggiato l’ostilità dei cristiani nestoriani.

Nello stesso periodo, dal 1324 al 1330, avvenne l’avventurosa esperienza di viaggio attraverso tutta la Cina del francescano Odorico da Pordenone. Infine, dal 1342 al 1346, ci fu il soggiorno cinese del francescano Giovanni da Marignolli, per una missione voluta da Benedetto XII, probabilmente in risposta ad una delegazione di 16 membri inviata nel 1338 dall’imperatore Toghan Temur, conosciuto dai cinesi come Shundi, ad Avignone per recare omaggio al papa. Dal 1368, dopo la conquista del potere da parte della dinastia Ming, la Cina rimase chiusa alle missioni cattoliche fino all’arrivo, nel 1582, dei Gesuiti Valignano e Ruggieri. (Ricci, p. 109)

In questa essenziale cronistoria dei primi approcci da parte di religiosi si vede il tentativo di costruire relazioni fra le parti, ma di fatto non si arriva mai a concludere con qualcosa di duraturo. Nello stesso tempo c’è da segnalare la presenza di “nestoriani”, cioè di cristiani che riconoscono la separazione della natura umana e divina in Gesù, per cui Maria sarebbe madre di Cristo, ma non di Dio. Costoro sono comunque spariti nello stesso momento in cui si perdono pure i segni della presenza dei cattolici in Cina. La ripresa dei rapporti si ha con i Gesuiti. E qui Matteo Ricci ha buon gioco per affermare che tutto dipende dai superiori che gli hanno aperta la strada per dare consistenza alla presenza di cristiani nel Paese.

L’ENTRATA DEI “NOSTRI”

Così si esprime Ricci nel primo capitolo del secondo libro della sua storia. Tenuto conto che al termine del primo libro egli parla diffusamente delle diverse sette religiose che prosperano nel Paese e che danno origine a forme di idolatria, il quadro che si ha della religione in Cina non è affatto lusinghiero e comporta per la Chiesa stessa non poche difficoltà nella sua predicazione e nella sua azione. Ricci insiste su un quadro molto negativo e lo si avverte nell’estrema durezza con cui giudica la situazione.

Contra questo Mostro dell’Idolatria sinica, di che parlassimo nel fine dell’altro libro, più fiero con i suoi tre capi che quello del Hidra Lirnea, che tanti migliaia de anni pacificamente tiranizzava e mandava sotterra nell’abisso dell’Inferno tanti milioni di anime, si mosse la nostra Compagnia di Giesù, conforme al suo instituto, a far guerra da parti sì lontane, passando tanti regni e tanti mari per liberare le misere anime della perdizione eterna. E fidati nella Divina misericordia e promessa non hebbero paura de’ pericoli né delle difficoltà che si opponevano alla entrata di un Regno cotanto serrato a’ forastieri, e pieno di tanta moltitudine di gente per difendere i loro errori, poiché al segno et alle armi della Santa Croce nessuna forza mondana né infernale può resistere. (Ricci, p. 109)

Il quadro è indubbiamente molto fosco e contrasta con l’atteggiamento che di solito si rileva in Ricci, portato a dialogare con i saggi della Cina. Ma qui dobbiamo tenere conto che il suo scritto deve raggiungere gli Europei e soprattutto deve far comprendere che da parte dei Gesuiti la missione è condotta, come anche in altre parti del mondo, per comunicare la vera religione e quindi con intenti che dovremmo definire da proselitismo. Va rilevato inoltre che Ricci è ben consapevole del pregiudizio da parte dei Cinesi nei confronti di tutto ciò che arriva dal mondo europeo e delle diffidenza verso ciò che è estraneo alla loro storia e alla loro cultura. Un simile atteggiamento sarà costante, qui come in altre parti dell’Asia e comporterà nei secoli successivi anche diverse persecuzioni con l’intento di estirpare, insieme con la presenza europea, ogni traccia di religioni estranee al mondo orientale. In Ricci aumenta la convinzione che proprio su questo terreno è necessario che la battaglia sia condotta per far trionfare la Croce di Cristo. Insomma, l’atteggiamento si fa battagliero, anche in conformità agli schemi indicati nella Controriforma cattolica. Ricci rivela che la sua formazione, soprattutto religiosa, è avvenuta in questo contesto e così si deve esprimere. Non può comunque esimersi dal dire che l’idea di entrare in contatto con la Cina apparteneva alla mente fer-vida di Francesco Saverio, il quale, però, non riuscì a realizzare il suo pro-getto, essendo morto su un’isola del territorio cinese, ma senza che abbia mai potuto mettere piede sulla parte continentale. E tuttavia deve ricono-scere a lui questo intento “battagliero”, anche perché costui è tra i fonda-tori dell’ordine gesuitico e insieme è pure il primo missionario in assoluto della Congregazione.

S. FRANCESCO SAVERIO

La figura di San Francesco Saverio è nota dentro e fuori la Chiesa come il pioniere della nuova evangelizzazione, messa in campo in occasione dei viaggi, di scoperta e di conquista insieme, nei nuovi territori raggiunti in America e in Oriente. Più che la ricerca di un metodo nuovo, che va invece riconosciuto a Ricci, per lui si deve parlare del fervore che appare nei suoi scritti inviati al confratello Ignazio.

Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares de Javier (questo è il suo nome spagnolo) era nato il 7 aprile 1506 in una famiglia nobile di Javier (in Navarra). I beni della famiglia erano stati confiscati dal re aragonese Ferdinando il Cattolico, dopo la vittoria sugli autonomisti navarrini, che erano filo-francesi. Per sfuggire alla sconfitta e alla miseria, si rifugiò in Francia e andò a studiare teologia alla Sorbona dove, dopo il primo triennio, divenne maestro. Nel suo stesso collegio di Santa Barbara arrivò il basco Ignazio di Loyola (1491-1556), il quale, oltre ad essere uno dei suoi più grandi amici (furono proclamati santi insieme), ne riconobbe immediatamente il temperamento combattivo ed ardente e decise di conquistarlo alla propria causa. Nello stesso collegio parigino studiava anche il savoiardo Pierre Favre (1506-1546).  Francesco, Pietro e Ignazio diedero origine ad una vita religiosa in comune, che sarebbe poi diventata la Compagnia di Gesù. Il 15 agosto 1534 nella chiesa di Saint Pierre de Montmartre emisero i voti di povertà, castità e obbedienza con l’aggiunta di muovere verso la Terra Santa per combattere l’Islam e portarvi la fede cristiana. Si ritrovarono a Venezia nell’intento di partire verso la Palestina, ma, non riuscendo a farlo, decisero di mettersi a disposizione del Papa, che allora era Paolo III. A Roma Francesco Saverio fu ordinato sacerdote nel 1537. I tre fondatori, poi, decisero di aggiungere ai tre voti tradizionali un quarto voto che diventa distintivo dei Gesuiti, e cioè l’obbedienza al papa. Nel 1540 il re del Portogallo, Giovanni III, chiese al Papa di poter avere a sua disposizione dei missionari da mandare nei luoghi occupati dai Portoghesi nelle Indie orientali. Francesco Saverio fu indicato da Ignazio e costui partì nel marzo 1541 da Lisbona con un viaggio che durò più di un anno. Arrivò a Goa, colonia portoghese in India, nel maggio dell’anno successivo. Nel 1545 partì per la penisola della Malacca, in Malaysia dove incontrò alcuni giapponesi che gli proposero di muoversi verso il Giappone. Vi arrivò nell’agosto del 1549, e qui si rese conto della necessità di provare anche un approccio con la Cina. Ma all’arrivo sull’isola di Sancian il 3 dicembre 1552 morì di febbri malariche. Il suo corpo fu portato a Goa, dove è ancora oggi sepolto nella chiesa del Bom Jesus. La sua opera missionaria soprattutto in Cina fu proseguita da Alessandro Valignano e Matteo Ricci. (Wikipedia)

Da lui comincia quella serie di relazioni che permettono ai missionari di essere sempre in comunicazione con la Casa Madre di Roma. Francesco Saverio scrive parecchie lettere all’amico Ignazio di Loyola allo scopo di fargli conoscere il lavoro che sta conducendo tra le popolazioni da lui accostate. Ne vien fuori un animo ardente che vive con fervore la sua missione, dovunque si trovi.

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Da una lettera ad Ignazio di Francesco Saverio

Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient’altro se non che sono cristiani. Non c’è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l’Ave e i Comandamenti della legge divina. Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l’hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali – come si dice – non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano dire né l’Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il Regno dei cieli. Perciò non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l’Ave Maria. Mi sono accorto che sono intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani. Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d’Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè! quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all’inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti! In verità moltissimi di costoro, turbati a questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore:“Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”. Mandami dove vuoi, magari anche in India.

Da una relazione scritta ad Ignazio di Francesco Saverio

Del Giapan, o vero Giapon, scriverò quello che per l’esperienza insino adesso habbiamo conosciuto. Primieramente la gente che habbiamo con-versata, è la migliore che insin adesso si sia scoperta, et fra gli infedeli mi pare non si troveria altra migliore; generalmente sono di buona conversatione; è gente buona et non malitiosa; et stimano mirabilmente l’honore più che nissun’altra cosa; communemente sono poveri, et la povertà tanto fra li nobili, quanto fra gli altri non si reputa a vergogna.

È gente molto cortese fra loro et stimanosi, confidando molto nelle armi; portano sempre spade e pugnali, tanto li nobili quanto la gente bassa, cominciando dalli 14 anni; non patisce questa gente ingiuria alcuna, né parola di dispregio, come la gente ignobile: porta gran reverentia alli nobili. Così tutti li gentilhuomini reputano gran laude servire al signore della terra, et essergli molto soggetti. È gente temperata nel mangiare, benché nel bere alquanto larga: fanno il vino de riso, perché non ci è altro in quelle bande. Giurano poco; et il giuramento loro è per il sole: gran parte della gente sa leggere et scrivere, il che è gran mezzo per brevemente apparare le orationi et cose di Dio.

Matteo Ricci conosce il Saverio solo per ciò che si racconta di lui nella sua Congregazione. È probabile che lo spirito missionario si sia acceso in lui proprio dalla conoscenza delle relazioni appassionate scritte dall’uomo destinato poi a divenire santo e soprattutto patrono delle missioni. Ne dà una chiara immagine nel capitolo in cui deve parlare delle origini della presenza cristiana in Cina: essa corrisponde esattamente a ciò che veniva comunicato ai giovani aspiranti religiosi che vivevano a Roma.

Il Primo che diede principio a questa guerra e cominciò a battere il muro fu il nostro B. P. Francesco Xaver, il quale avendo fundate tutte le Christianità dell’India e di Malucco, fu ultimamente a fundare la (spagnolismo spesso ricorrente nell’opera di Ricci al posto di “quella”) del Giappone con la felicità che dallo suo spirito Apostolico si sperava; e mentre faceva questo offitio in quei regni gli fu mosso un dubio dai loro savij: se la santa fede che predicava era sì buona e conforme alla ragione, per qual causa il Regno della Cina, che è tenuto per il più savio de tutti i regni orientali, non l’aveva anco pigliata. E sapendo bene il B. Padre che tutte le leggi e riti dei Giapponi hebbero origine dalla Cina, venne in pensiero che, se potesse prima convertire la Cina, non solo si farebbe bene ad un regno sì grande e nobile, ma in un medesimo tratto facilmente anco restarebbe convertito il Giappone. Per questa causa, raccomandando le cose di là ad altri compagni che quivi aveva (nell’intraprendere l’impresa della Cina, Francesco Saverio lasciò in Giappone a continuare la sua missione padre Cosma de Torres e fratello Gio-vanni Fernandes), se ne ritornò all’India, dove con grande prestezza hebbe dal Viceré di essa una ambasciata che se mandasse al Re della Cina da parte del Re di Portogallo (nel 1552 Francesco Saverio ottenne di far parte di una delegazione portoghese, guidata dal mercante Diego Pereira, presso l’imperatore della Cina, con l’appoggio del viceré delle Indie Don Alfonso de Norona e del vescovo di Goa Dom Giovanni de Albuquerque), con la quale occasione egli potesse entrare dentro di questo regno e cominciare in esso la promulgazione del santo evangelio. (Ricci, p. 110)

Sulla base di ciò che qui troviamo scritto sembra che Ricci suggerisca la motivazione per la quale il Saverio si decide a tentare di entrare in Cina: l’avrebbero convinto i suoi collaboratori, facendo notare che presso i Cinesi c’è la sapienza essenziale come terreno ben preparato all’evangelizzazione. Viene da pensare che sulla base della personale esperienza lo stesso Ricci riconoscesse presente in Cina il terreno adatto per seminare la Parola. E proprio dalla filosofia di vita dominante in Cina bisognava pas-sare per facilitare l’ingresso della predicazione evangelica. Eppure in pre-cedenza Ricci aveva detto con estrema chiarezza che l’idolatria radicata in quel Paese avesse i medesimi connotati della mitica Idra di Lerna, il mostro dalle molteplici teste e dal veleno mortale diffuso un po’ ovunque. Vien da supporre che egli sostenga questo per giustificare una presenza qualificata di missionari, che trovano nel Saverio il loro iniziatore, ma anche colui che ha aperto la strada, sulla quale si doveva insistere per raccogliere i frutti sperati, anche se questi, al momento dell’ingresso di Ricci, sembravano tardare a crescere e a far sperare in un successo sicuro.

Se il Saverio aveva meditato su questo progetto e non era riuscito a perseguirlo, non si poteva disattendere all’opera solo abbozzata e bisognava raccogliere l’eredità. Ecco perché Ricci dà grande importanza a questo suo disegno e nello stesso tempo lascia intendere che quanto sta facendo non è altro che la prosecuzione di un progetto, a cui la Congregazione dei Gesuiti rimane sempre legata. Così insiste Ricci nel raccontare il particolare ardore missionario che spingeva il Saverio a predisporre azioni mirate per dare buon esito alla sua impresa.

E lasciando adesso i contrasti che il Demonio pose a questa opra in Malacca (Ricci accenna solo fugacemente agli avvenimenti che impedirono lo svolgimento dell’ambasciata portoghese presso l’imperatore a cui avrebbe dovuto partecipare Francesco Saverio. Trigault, nella sua versione latina dell’opera di Ricci, a questo punto della narrazione inserisce un racconto dettagliato dei fatti attribuendo la responsabilità del fallimento del progetto all’ostinata opposizione del Capitano di Malacca Don Alvaro de Ataide), al fine arrivò pure in compagnia de’ Portoghesi che venivano a mercanteggiare con i Mercanti della Cina, in un’Isola alla parte più australe di tutto il regno, che si chiama Sancioam, dove tentando per molte vie di entrare alla metropoli della Provincia di Quantone, che i Portoghesi chiamano Cantan, se bene non potesse ottenere altro che essere menato di notte nascostamente e lasciato solo nella riviera del fiume che passa al piè del muro della città, né anco questo osorno fare i Cinesi né per prieghi né per promesse di molta somma di danari, avendo paura di esser casticati atrocemente dagli magistrati di quella Città. Ma conciosia cosa che i peccati di questo regno non meritassero sì grande Apostolo per dar principio alla loro conversione, e fusse già arrivata l’hora del B. Padre irsene al Cielo e riceverne il merito de’ suoi travagli e sante opere, tutti i consegli della sua entrata gli riuscirno in vano; sebene crediamo pure che, se egli non poté ottenere da Iddio per sé questa entrata, la ottenne nel Cielo per i suoi Compagni che, contra ogni speranza humana, vi entrarno trenta anni doppo. In questo luogo dunche, e trattando questo negocio, moritte l’anno 1552, e da qui riportato il suo corpo incorrotto a Goa, facendo per suo mezzo Iddio tanti miracoli e nel viaggio et in Goa, come nella sua vita pienamente si narra. (Ricci, p. 110-111)

Non era ancora riconosciuto santo, ma da parte di un confratello, che in quel periodo dimostrava di esserne l’erede e di proseguirne il progetto con migliori risultati, usciva, a pochi anni di distanza, un elogio non indifferente e anche la segnalazione di miracoli attribuiti alla sua intercessione.

Ricci voleva in tal modo presentarsi come l’erede, e nello stesso tempo segnalare che il suo progetto, decisamente fra i migliori della sua notevole opera missionaria, trovava finalmente la sua piena realizzazione. Così la sua testimonianza cercava con questo encomio del futuro santo una sorta di canonizzazione dell’impresa che ora apparteneva totalmente alla strategia di Ricci. Costui si rendeva conto che anche ad aver raggiunto dei buoni risultati, certi metodi attuati potevano suscitare per-plessità e opposizione, come del resto avvenne.

I SUPERIORI DI RICCI IN CINA

Se vuole riuscire nell’impresa, che appare molti ardua, anche per i tentativi sempre naufragati, e soprattutto se vuole che il suo metodo possa essere attuato e riconosciuto come valido, ha bisogno dell’appoggio dei suoi superiori. In effetti tra lui e il Saverio ci sono figure che il gesuita di Macerata intende segnalare come coloro che lo hanno introdotto in questa sua azione missionaria e lo hanno sempre decisamente sostenuto. Ci sono stati in precedenza imprese isolate di Congregazioni antiche, ma queste, anche forse per una certa debolezza organizzativa e per mancanza di appoggi adeguati a Roma, non hanno sortito l’effetto sperato.

Doppo lui vennero altri valenti huomini e servi di Iddio a procurare questa entrata, specialmente della Religione di S. Francesco e S. Domenico (Ricci, probabilmente, si riferisce agli infruttuosi tentativi da parte dei francescani di entrare in Cina nel 1579, nel 1582 e nel 1583; per quanto riguarda gli agostiniani è attestato un tentativo fallito avvenuto nel 1575. Tutte queste missioni riuscirono appena a raggiungere Macao e poi Guangzhou, senza ottenere il permesso di soggiorno nel paese. Alcuni, in modo fortuito riuscirono a raggiungere alcune città dell’interno da cui vennero subito rispediti indietro), altri per via delle Indie orientali, altri per quella delle occidentali, di Nova Spagna (Messico) e delle Filippine. Ma quelli che pigliorno più a petto quest’opra, come ereditaria del B. Francesco, forno i Padri della Compagnia, che con molto zelo vennero con i mercanti portoghesi e con molta perseverantia stettero sempre alla porta della Cina in una Residenza che quivi fecero (la residenza della Compagnia di Gesù, cui Ricci si riferisce, veniva fondata a Macao nel 1565 dai padri Francisco Perez e Manuel Pereira).

(Ricci, p. 111)

Ben diversi sono invece gli sforzi messi in campo dai Gesuiti: essi da una parte stanno sicuri nella loro residenza portoghese di Macao e nello stesso tempo cercano contatti che permetteranno successivamente di avere accesso fino alla capitale. Ricci esalta la sagacia dei suoi superiori che hanno saputo mettere in campo una strategia vincente.

Quello che la ritornò ad avivar più e risuscitarla, essendo già mezza desperata per gli varij impedimenti che ritrovorno ogni giorno più porsi nel mezzo, fu il P. Alessandro Valignano (1539-1606), il quale era Visitatore, mandato dal Nostro P. Generale, di tutte queste parti orientali. Et avendo già visitata quella parte dell’India, che gli Europei chiamano di qua del Gange, et avendo da passare principalmente al Giappone, fu forzato aspettare la partita della nave che va al Giappone, più di dieci Mesi nella residenza di Macao. Onde pigliando varie informazioni delle Cose di dentro della Cina, venne a intendere bene la nobiltà e grandezza di questo Regno governato con tanta pace e prudentia, venne a persuadersi che una gente tanto accorta e data allo studio non lasciaria di dare entrata nel suo regno ad alcuni Padri di buona vita e che sapessero la loro lingua e lettera, et alfine riceverebbono la nostra santa legge che, non solo non è contraria, ma agiuta molto al buon governo della Repubblica, che loro pretendono, e fa tanto bene all’anime nell’altra vita aprindogli il camino e la porta al paradiso. Per questa causa diterminò di applicare alcuni padri che stessero in Maccao imparando le lettere e la lingua della Cina, accioché, avendo qualche porta per entrare, stessero ben apparecchiati a questo. E così, se bene contra il parere di alcuni Padri vecchi et isperimentati nella Cina, che avevano questa impresa per impossibile, non avendo il Padre Valignano seco persona atta permettere a questa opra, scrisse al P. Vincentio Rodrigo Provinciale dell’India, che almeno mandasse a quella Residentia un Padre di buone parti per questo effetto; et egli, perseguendo il suo viaggio verso Giappone, lasciò scritto quanto aveva da fare per conseguire il fine che si pretendeva. Il Provinciale elesse a questa impresa il P. Michel Ruggerio, che era venuto all’India di Roma l’anno 1578, e già stava travagliando nella Cristianità della Costa di Pescaria (Ricci si riferisce alla costa del Malabar dove Ruggieri risiedette per otto mesi, prima di essere destinato a Macao), nell’anno seguente di 1579, nel mese di Giuglio, arrivò il P. Ruggeri a Macao. (Ricci, p. 111-112)

Sono questi due personaggi, che incoraggiano Ricci ad assumere il compito di tentare il tutto per tutto nell’impresa di penetrare in Cina, volendo realizzare il sogno di Francesco Saverio, da tutti venerato, se non altro per essere stato uno dei fondatori dei Gesuiti. Costui rimarrà l’ideatore del progetto, anche senza aver mai fatto il passo decisivo in questa dire-zione, essendo morto con questo suo disegno nel cuore. Ricci si prefigge così di attuarlo con la netta convinzione che questo disegno dovesse essere perseguito, proprio perché veniva ritenuto come essenziale dal Saverio, il quale già veniva idealizzato. Occorreva però studiare bene l’impresa anche in presenza di tentativi precedenti andati a vuoto. Proprio per questo occorreva consolidare la base di Macao, che i Portoghesi avevano visto riconoscere dalle autorità cinesi locali. In quegli anni però, il Portogallo veniva di fatto unito alla Spagna nella persona di Filippo II, il quale già consolidava il suo dominio coloniale in quella vasta area geografica dell’Asia sud orientale. I Gesuiti, che nei loro viaggi dall’Europa si appoggiavano ai Portoghesi, avevano deciso di costituire la loro base di partenza per la “conquista” della Cina, proprio a Macao

ANTICA MAPPA DI MACAO

È Maccao una città de’ Portoghesi nella sponda del mare della Provincia di Quantone, in un braccio di terra che fa una penisola di due o tre miglia in circuito; percioché i Portoghesi, subito che scoprirono la grandezza e la ricchezza di questo regno, sempre procurorno con ogni diligentia aver comercio con esso. Ma i Cinesi sempre hanno paura de’ forastieri, specialmente quando veggono essere animosi e guerrieri, come facilmente vedevano essere i Portoghesi dalla gente armata e dalle navi, che erano le magiori che mai loro viddero. E quello che gli spaventò più furno le artigliarie grosse, mai viste né udite nella Cina; accendendo questo fuogo molti saraceni Macomettani che stanno nella città di Quanton, che subito dissero ai Cinesi esser questa gente de’ Franchi (“Franchi” è il termine con cui, a partire dall’epoca delle crociate, si definiscono in Medio Oriente gli europei.), come i Maccomettani chiamano i Christiani di Europa …

(Ricci, p. 112-113)

È interessante cercare di conoscere la strategia dei Gesuiti costruita a Macao per attuare la penetrazione della Cina, certamente nell’intento di portarvi la religione cattolica, ma nel contempo anche per studiare la modalità migliore nell’accostare questo Paese che appariva piuttosto refrattario alla penetrazione europea. Non va dimenticato che anche nella vicina area geografica non erano di poco conto le resistenze dei diversi potentati locali, che vedevano una minaccia della presenza degli Europei: lo stesso Ricci qui rivela che da parte dei Cinesi c’era la paura determinata dallo spirito guerriero e dall’apparato militare messo in campo dai Portoghesi stessi. Se i Gesuiti sentono il bisogno di appoggiarsi ai Lusitani, sia perché chiamati da essi ad accompagnarli nella penetrazione coloniale, sia perché erano favoriti nei viaggi; dall’altra però essi avvertono la necessità di tentate metodi diversi rispetto a quelli dei mercanti, soprattutto quando vedono che altri religiosi, già da tempo consolidati in questa missione, fallivano nel loro intento.

L’eterogena popolazione di Macao era lusofona e cristiana, a eccezione dei cinesi che provenivano dai vicini villaggi del Guandong e dal Fujian meridionale, facilmente raggiungibile via mare, anche se qualcuno aveva imparato la lingua e il culto portoghesi nel corso dei contatti avuti con i forestieri. Presenti fin dai primi anni, i gesuiti si imbarcavano come cappellani a bordo dei vascelli portoghesi, fornendo assistenza spirituale e imponendo regole di comportamento civile a rudi marinai e suscettibili fidalgos (aristocratici). La missione gesuitica era sponsorizzata da facoltosi mercanti come testimonia lo stretto rapporto tra Francesco Saverio e i fratelli Diogo e Guilherme Pereira, e più tardi quello fra Melchior Nunes Barreto e Fernao Mendes Pinto.

Mediando dispute, placando conflitti e in generale operando per la pace, i gesuiti si assicuravano la tolleranza degli avidi, beoni e violenti avventurieri portoghesi. Rappresentativo del loro ruolo, in questo piccolo insediamento con una sola via principale, è il fatto che i gesuiti avessero stabilito la loro residenza sulla collina centrale, vicino al sito dove sarebbe stata costruita la fortezza, nel punto più alto della città. Intorno al 1582, oltre ai gesuiti, molte altre istituzioni ecclesiastiche contribuirono a dare a questa frontiera commerciale selvaggia e fiorente una parvenza di civiltà. (…)  (Po-Chia, p. 72-73)

Macao appariva come un minuscolo fazzoletto di terra. Prima dell’arrivo di Ricci, la piccola comunità di gesuiti di Macao contava cinque componenti … Tutti, tranne Ruggieri, erano portoghesi. È facile immaginare la gioia di Ruggieri nell’incontrare i colleghi italiani, specialmente Ricci, che aveva espressamente richiesto come compagno per la missione in Cina in una lettera a Valignano, scritta alla fine del 1580. Dopo i tre difficili anni trascorsi a Macao, Ruggieri poté dare libero sfogo alle sue frustrazioni in italiano con i suoi compatrioti: passava ore ogni giorno a studiare il cinese, una lingua difficilissima, così diversa da qualsiasi grammatica europea, con un’infinità di caratteri, la confusione dovuta ai toni, e due sistemi diversi per scrivere e per parlare. Ciò nonostante, Ruggieri insisteva nel prepararsi a entrare in Cina, ma, per quanto difficile potesse essere, lo studio del cinese era in realtà la parte più facile.  (Po-Chia, p. 74)

Sembrava tutto tempo sprecato, perché nel passare del tempo, la missione appariva sempre sull’orizzonte senza che venisse mai avviata. Bisogna riconoscere però che il lavoro di Ruggieri per acquisire la lingua cinese e più ancora la cultura locale, sarà poi molto propizio per la futura penetrazione in Cina e nel contempo questo genere di lavoro, condiviso da Ricci, servirà a quest’ultimo per avviare al meglio la sua attività: se lo scopo rimaneva pur sempre la predicazione del vangelo e la “plantatio Ecclesiae”, questo non si poteva ottenere senza riuscire a dissipare la diffidenza del mondo cinese, soprattutto di quello dei mandarini locali. È il convincimento dello stesso Ruggieri e diventerà l’assoluta priorità dell’agire di Ricci per riuscire nell’impresa, che era fallita con le altre congregazioni religiose. Va segnalata comunque la perfetta intesa fra i due gesuiti, Ruggieri di origine napoletana e Ricci proveniente da Macerata. Il primo attendeva proprio la venuta dell’amico, convinto che il P. Valignano non avesse niente in contrario sulla questione. Lo segnala lo stesso Ricci che racconta di essere stato chiamato dal Superiore locale.

Cominciava già questo negotio a tenere qualche speranza, ma teneva doi grandi impedimenti: l’uno che i padri di Maccao erano puochi et i negocij de’ Portoghesi erano molti; e così era necessario che il P. Roggiero si mettesse in essi con grande danno del suo negocio proprio che era lo studio della Cina; l’altro l’esser solo applicato a questa impresa, e non potere continuare quello che lasciava fatto in Maccao nel tempo che stava in Quantone con i Portoghesi, che era alle volte mezzo anno, oltre questo negocio di lettere e lingue impararsi meglio da molti insieme che da uno solo. Del che avisato nel Giappone il P. Valignano, mandò a chiamare dall’India il P. Matteo Ricci (è questo il primo luogo del testo dove compare il nome di Matteo Ricci. Come si vede l’autore parla di sé in terza persona; questo probabilmente per conferire al testo il tono più elevato di una cronaca storica, anziché di un diario), che era venuto di Roma l’istesso tempo che il P. Ruggiero, e stava in Goa finendo i suoi studij, acciocché si desse anco a questo studio e stesse in Maccao (Ricci, convocato da Valignano su suggerimento di Ruggieri, arrivò a Macao il 7 agosto 1582) aspettando per qualche buona occasione di entrare dentro la Cina et aiudando alle opere che P. Rogerio aveva cominciate; e scrisse dando ordine che i Padri dedicati alla Cina non fossero occupati in altra cosa.

(Ricci, p. 116)

Naturalmente non appena Matteo Ricci scompare “dalla scena di questo mondo” e, sulla base di ciò che ha vissuto e prodotto egli diventa una specie di mito per coloro che sono chiamati a continuare l’opera seguendo le sue orme, questi primi contatti con il mondo cinese vengono particolarmente enfatizzati, come se si trattasse di una impresa davvero epica: nella biografia scritta da Giulio Aleni 20 anni dopo la morte del maceratese i primi anni di missione di quest’ultimo appaiono in una luce leggendaria e vengono presentati con un colorito epico …

Nell’anno 1577 dopo l’Incarnazione del Signore del Cielo, attraversati diversi paesi, Maestro Ricci raggiunse il famoso regno Marittimo del Portogallo e si presentò al re che lo ospitò generosamente

Quindi navigò venendo verso l’Oriente, sopportò onde infuriate e sabbie tempestose, nazioni di ladri e cannibali, senza danni e senza ferite.

L’anno seguente sbarcò in India (letteralmente Piccolo Occidente) per manifestare tutto ciò che aveva studiato (con questa espressione Aleni probabilmente intende l’inizio dell’opera di propagazione della fede da parte di Ricci).

Nell’anno successivo all’anno xinxi dell’imperatore Wanli (1582) arrivò nel Guangdong, nella contea do Xiangshan, a Macao.

Il governatore generale e vice-ministro della guerra, l’onorevole Chen Wenfeng, ri-chiese per iscritto al vescovo del Grande Occidente e al governatore (di Macao) di discutere gli affari di Macao. Il vescovo chiese al Maestro Michele Ruggieri … di andare in sua vece. Costui, adempiuto l’incarico, ritornò (l’episodio accadde nel maggio 1582, e fu il quarto viaggio nel continente di Michele Ruggieri. In realtà da tempo Ruggieri cercava in tutti modi di ottenere il permesso di risiedere in Cina, e nel dicembre dello stesso anno ritornò a Zhaoqing per la quinta volta insieme a Francesco Pasio. Aleni enfatizza il significato dell’iniziativa del viceré forse per mostrare che l’entrata e la permanenza dei Gesuiti in Cina sarebbe stata non solo avallata, ma persino richiesta dalle autorità cinesi).

Nell’anno seguente Maestro Ricci, per la prima volta, entrò assieme a Maestro Ruggieri, a Duanzhou (nella prefettura di Zhaoqing) dove il nuovo governatore generale, l’onorevole Guo e il prefetto onorevole Wang li accolsero con molta gioia. E lì costruirono una casa per abitarvi.  Aleni p. 28-29)

IL METODO MISSIONARIO

Fin qui non ci si poteva spingere fuori di Macao, ormai colonia riconosciuta del Portogallo, anche se in quegli anni la corona lusitana era in possesso del re di Spagna. Ma la venuta di Ricci consente di aprirsi al resto della Cina: la conoscenza della lingua da parte di P. Ruggieri, ma più ancora il metodo usato da Ricci permette non solo di avere qualche conversione e qualche battesimo – ben poca cosa se si pensa all’impegno profuso – ma di accostare anche il mondo dei mandarini e dei letterati, che poteva far sperare in un accesso più ampio e più sicuro. Ricci stesso scrive al Preposito Generale dei Gesuiti, P. Claudio Acquaviva, a Roma, informandolo dei primi risultati e mettendo in chiaro che il primo intento rimane il medesimo di Francesco Saverio scritto ad Ignazio di Loyola, e cioè quello di far conoscere con il Pater noster e l’Ave Maria i primi rudimenti del catechismo, senza però disdegnare altri generi di approcci con coloro che apparivano esperti di filosofia e di scienza. E lì potevano essere utili gli strumenti richiesti al padre, per segnalare in Cina le pari condizioni che gli Europei potevano vantare con la Cina, sempre sospettosa verso gli stranieri e sempre orgogliosa del proprio sapere. La lettera è del 20 ottobre 1585.

non habbiamo sin adesso più di dodici cristiani, li più di loro huomini di penitentia, che digiunano al modo della Cina, che è non mangiare né carne né pesce.

Uno tra gli altri, che sono alcuni anni che continua questo digiuno, venne il giorno dello Spirito Santo (Pentecoste, il 9 giugno 1585) con tutti i suoi libri e con il suo idolo a dar tutto in nostra mano per porli nel fuogo, confessando di andare errato, e continuò tanti giorni di imparare il Pater noster, Ave Maria, e altre cose necessarie, e venire a mezza Messa che il giorno della Commemorazione di s. Paolo lo battezzassimo, e per questo si chiama Paolo. L’altro battesimo si fece di alcuni il giorno della Assuntione di Nostra Signore. Il principale di loro era un vecchio di sessanta anni con uno figliuolo che tiene moglie e figliuoli. Il buon vecchio che si chiama Nicolao, perseverò ancora molti giorni, et il primo giorno che venne per discoprire il suo desiderio già sapeva il Pater noster e Ave Maria, et era mediocremente visto nel Catechismo, che gli avevano prestato. V.P. si rallegreria molto di vederlo lacrimare quando gli parliamo delle cose di Iddio, e tutti questi con alcuni catecumeni la domenica, al fare del giorno e prima, apparire alla nostra porta per la Messa, con stare alcuni un miglio e più lontani et anco dall’altra parte del fiume, che è tre o quattro volte più largo del Tevere. (…) Molte sono le persone che vengono a domandare questo Catechismo e vengono a sapere delle cose della nostra fede. Tra li altri venne un giorno un zumpino (comandante generale) novo, che è il capitano generale di tutti i soldati di questa provincia, e ci fece molta cortesia, ponendosi a sedere con nosco, il che non fa se non con persone molto eminenti … Un altro fu un pucensi (Commissario dell’amministrazione provinciale) di questa provincia, che non ha maggiore governatore che lui, che per una lettera ci mandò a domandare la dottrina di Ponente, che anticamente venne alla Cina, di poi adesso estava corrota, trattandoci molto cortesemente; al quale mandassimo un Catechismo, con scrivergli che la dottrina stessa del Salvatore del mondo non stava ancora voltata in lingua cinese; che tra tanto pigliasse il Catechismo, dove si dichiaravano molte cose et il Pater noster e Ave Maria, che poi voltaremmo il resto e mandariamo a Sua Signoria. (…) (Ricci – Lettere p. 98-100)

Io per la gratia del Signor stessi sano sempre e già parlo senza interprete con tutti e scrivo e leggo mediocremente i suoi libri. Accioché V.P. si consoli desideravo mandarli una descrizione di tutta la Cina, ma non ho anco potuto sapere di certo Pachino quanto sta alto verso il settentrione che è il luogo più principale dove sta il re; per questo ho molto buon apparecchio delle tavole loro nei suoi libri, scritte molto diligentemente, ma senza gradi. L’anno passatoi mandai un Mappamondo, che feci in lettera cina, che il governatore mi fece stampare benché tiene alcuni errori, ma per loro è la più vera cosa che tenghino, in questa materia.  (Ricci – Lettere p. 103)

CONCLUSIONE

Ancora oggi il mondo cinese appare al mondo occidentale un po’ misterioso e soprattutto diffidente verso chi lo accosta con intenti non sempre e non correttamente rispettosi della sua cultura millenaria. Se ciò vale in modo speciale per chi ha scopi di natura religiosa con una visione di vita che non viene affatto mutuata dalla antica sapienza locale o che non sia proposta in dialogo con la tradizione cinese, ancora di più si accentua la diffidenza quando il mondo occidentale si presenta con sistemi che la Cina fatica a condividere. Per queste particolari ragioni, tenuto conto che il solo occidentale riconosciuto e rispettato in Cina risulta essere proprio Matteo Ricci, dovremmo meglio conoscere il suo modo di accostarsi al popolo cinese, anche quando lui pure resta condizionato dagli obiettivi che mirava a raggiungere nel suo lasciare alle spalle il mondo occidentale, per farsi in tutto cinese: non perde mai di vista lo scopo missionario che lo muove secondo lo spirito della Incarnazione, come risulta nel Vangelo per Cristo che si fa uomo. Il medesimo spirito viene assunto dal gesuita: così lui ci insegna il modo più giusto per dialogare con la Cina.

BIBLIOGRAFIA

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DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

E CHRISTIANITA’ NELLA CINA

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LA VITA DI MATTEO RICCI Scritta da Giulio Aleni (1630)

Fondazione Internazionale P. Matteo Ricci – Macerfata

Fondazione Civiltà Bresciana – Brescia – 2010

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UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA – Matteo Ricci, 1552-1610

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LETTERE

Quodlibet (Macerata) 2001

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