S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.

S. Clemente nella chiesa di Santa Sofia a Kiev

PREMESSA:

NELL’EPOCA POSTAPOSTOLICA

E LA SITUAZIONE A CORINTO

Fra gli scritti dei primi anni dopo la redazione dei testi neotestamentari (vangeli e lettere apostoliche), spiccano alcuni, che al loro primo apparire vengono catalogati come testi ispirati, e quindi parte integrante del “canone biblico”. Poi però, anche ad essere sempre ben valutati, e a farvi ricorso nelle circostanze che presentano i medesimi problemi, non dovunque sono inscritti nell’insieme dei libri biblici, e di fatto in poco tempo si troverà estromesso da essi. Uno fra i documenti meglio apprezzati e circondati da stima e onore, è la lettera scritta da Clemente, che è il quarto vescovo di Roma, e che assume un rilievo non indifferente nella Chiesa di allora, grazie a questo scritto. Si tratta di una missiva per i cristiani di Corinto, dove continuavano le divisioni già documentate nella prima lettera di S. Paolo ai cristiani di quella città. Siamo comunque a 40 anni circa dal testo paolino; e quindi le persone a cui Clemente si rivolge sono altre; ma il problema persiste, segno di una comunità segnata da questo male, ben radicato. L’apostolo, fin dalle prime battute della sua lettera tocca l’argomento, rilevando la presenza di “partiti”, cioè di gruppi che facevano riferimento all’appartenenza a qualche figura carismatica. Non sembra che ci siano forme di eresie, e quindi di dottrine varie e contrapposte; prevale invece quel tipo di personalismo che non favorisce affatto la familiarità e la fraternità.

1Corinzi, 1,10-12

Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo.

Se anni dopo – siamo alla fine del I secolo – il medesimo clima affiora, vuol dire che un simile malessere è radicato: non basta più la lettera di Paolo, che pur si dovrebbe ritenere un intervento autorevole e da considerarsi indiscutibile; occorre che la figura di spicco in quel periodo prenda posizione, aggiornando la lettura della questione.

Paolo ormai è morto da anni: egli scrive la lettera verso il 58, e scompare dalla scena nel 67, all’epoca delle persecuzioni di Nerone. Corinto era una delle comunità in cui aveva dato il meglio di sé, anche in un periodo particolarmente delicato della sua esistenza. Era arrivato qui, attorno al 49 da Atene, dopo il flop del discorso tenuto all’Areopago, e si era ripreso con l’intervento salutare della coppia, Aquila e Priscilla, che aveva voluto con sé alla ripresa dei suoi viaggi. Poi, però, aveva inviato i suoi ispettori, gli  (= episcopoi, cioè gli ispettori), con l’incarico di sorvegliare l’andamento della comunità. E, non bastando quello che avevano fatto i collaboratori, aveva inviato due lettere, dalle quali era nata una certa corrispondenza. Nella prima, oltre al tema della divisione nella comunità, legata ai personalismi, Paolo affronta diverse questioni, in relazione al fatto che la comunità rivelava in tanti ambiti divergenze che potevano dare adito a spaccature. Anche la questione dell’Eucaristia, per la quale l’apostolo dà il suo primo racconto di ciò che era successo nell’ultima cena, veniva affrontata, perché di fatto non avveniva secondo le ragioni espresse dal Maestro al momento della sua istituzione. L’apostolo rileva che il ritrovo eucaristico aveva perso le sue motivazioni profonde, perché avveniva in un contesto litigioso, o comunque ben poco fraterno, se cia-scuno faceva quel che voleva. In questo modo la comunione, significata dal pane che si mangiava insieme, non era più garantita e prevaleva l’indegnità a presentarsi alla tavola comune.

1Corinzi 11,17-22

Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Come mai vi erano queste divisioni e queste venivano ritenute parti-colarmente gravi sia con Paolo, sia con Clemente? Si potrebbe dire che qui c’è una sorta di “difetto di fabbrica”: Corinto è “un porto di mare”, anche piuttosto importante e frequentato, e la gente che vi soggiornava appariva piuttosto raccogliticcia, provenendo un po’ da ogni dove e risultava in tal modo instabile.

Quindi era facile che anche tra i fedeli della nuova religione potessero annidarsi tipi poco raccomandabili. Del resto la lettera di Paolo segnala un peccato grave da giustificare il suo intervento piuttosto duro: uno vive “more uxorio” con la moglie di suo padre, relazione sgradita e biasimevole anche per chi non è cristiano e inaccettabile per chi lo è, e avverte la cosa come uno scandalo vergognoso.

1Corinzi 5,1-5

Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!  Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù,  questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore.

Siamo dunque in presenza di una comunità dove le divisioni non succedono solo sulla base di questioni dottrinali, come sempre più spesso avviene alla fine del I secolo, e quindi negli anni del pontificato di Clemente. C’è piuttosto quel genere di contenzioso che mette gli uni contro gli altri, nel desiderio di prevalere e nella prospettiva di esercitare appropriazioni indebite, soprattutto nei rapporti personali: questi erano sempre più deteriorati perché prevalevano interessi privati, e di conseguenza esplodevano le forme possessive a danno di altri. Se una simile concezione di vita serpeggia anche fra i cristiani, allora la dottrina stessa è in pericolo, perché si viene meno all’essenziale del Vangelo, che raccomanda apertura agli altri, senso di fraternità, dono vicendevole … Di solito, nell’analisi dei problemi presenti fra i cristiani in questo periodo, si tende ad insistere sul proliferare di dottrine eretiche, legate a deviazioni dalla proposta evangelica che appare molto esigente. Già nei testi neotestamentari dilagano le raccomandazioni a non lasciarsi ingannare da dottrine inconsistenti e fuorvianti, che un po’ dovunque si formano e si diffondono. Questo capita già negli anni in cui sono ancora viventi e operanti gli apostoli: a loro ci si rivolge per avere la garanzia che la Chiesa nel suo insieme non defletta dal Maestro e si mantenga fedele a lui. Quando però essi scompaiono, e in particolare non ci sono più né Pietro né Paolo, uccisi nella bufera neroniana, occorre trovare un ceto dirigente in grado di figurare credibile e autorevole con tutti, anche nelle comunità più dissite.

Nei suoi viaggi Paolo aveva legato a sé le diverse comunità create o incontrate, e, sia mediante lettere, sia mediante gli ispettori da lui inviati, come Timoteo e Tito, aveva tenuto sotto controllo gruppi diversi. Alla fine del I secolo, ultimo fra gli apostoli, rimaneva Giovanni, piuttosto avanti negli anni, secondo tradizioni diffuse sul suo conto. Già a lui ci si era rivolti in mezzo alla stessa persecuzione in cui è implicato Clemente, perché sostenesse le comunità frastornate da una situazione pesante; e lui aveva risposto con l’Apocalisse, una visione del cammino della Chiesa in mezzo ai mostri che la vogliono insidiare, per cui è necessario “togliere la coltre di male” e vedere sotto il disegno di Dio sempre “in fieri”. Il passaggio all’età successiva, post-apostolica, richiedeva la presenza di personaggi autorevoli e tali da risultare accetti anche oltre il proprio territorio. Il caso di Clemente emerge in un simile contesto: egli non è prestigioso solo perché si presenta come vescovo di Roma, e quindi successore di Pietro, ma perché, intervenendo con la sua lettera nei confronti di una comunità instabile e litigiosa, si rivela un punto di riferimento, accettato unanimemente, anche fuori della sua Chiesa. Con lui non abbiamo ancora il “Papa” come lo intendiamo oggi, ma qualcosa del genere sta emergendo: del resto, anche oltre Corinto, questa lettera viene conosciuta e apprezzata. Troviamo per la prima volta che il vescovo di Roma viene consultato e ricercato come riferimento per garantire l’unità alla Chiesa stessa. Così il suo messaggio viene accettato, condiviso e seguito. Ovviamen-te è un testo meritevole, e tale da dar lustro allo scrivente. Nello stesso tempo si inizia a riconoscere che il Papa può essere fatto intervenire per diverse questioni, e così avverrà sempre più già nel II secolo. Non sempre la consultazione del Papa porta alla soluzione del problema messo sul tappeto e alla formulazione di una linea condivisa. Fra Papa Aniceto (155-166) e il vescovo di Smirne, Policarpo (69-155), viene discussa la data della Pasqua, ma non si raggiunge l’intesa; e tuttavia è Policarpo a consultare il Papa. Così l’intervento di Clemente fa riconoscere che in presenza di questioni dibattute e controverse, il referente da consultare è ormai sempre più chiaramente il vescovo di Roma. E Clemente assume un ruolo significativo.

CLEMENTE

Stupisce il fatto che, in presenza di un testo sicuro sotto il profilo storico e di notevole importanza per il contenuto, non siano allo stesso modo sicure le notizie circa il personaggio, sul quale si possono fare alcune congetture e trovare testi di contenuto leggendario. Un personaggio di nome Clemente è citato da Paolo nella lettera ai Filippesi, ma non è possibile che si possa risalire a lui.

Filippesi 4,1-3

Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

C’è chi sostiene che da parte di Pietro gli siano state imposte le mani per divenire vescovo. Se così è, si deve pensare che fosse di Roma, o comunque che abitasse lì. Sulla base di questa supposizione qualcuno lo identifica con un personaggio influente di nome Clemente, che appartiene alla gens Flavia, dominatrice della scena sul finire del I secolo. Il capostipite della famiglia “Flavia” in quel periodo è Vespasiano (69-79), divenuto imperatore, dopo aver fatto la sua carriera come un funzionario scrupo-loso e come un generale rigoroso, capace di imporsi nell’anno dell’anar-chia totale, successiva alla morte di Nerone (68). Già i due figli che gli succedono rivelano la presenza di squilibri: Tito (79-81) non ebbe modo di farli esplodere perché morì presto; Domiziano (81-96) invece, dopo anni di un governo dispotico, fu tolto di mezzo in una congiura. Proprio costui avrebbe eliminato il rivale, appartenente alla medesima famiglia e che portava il nome di Clemente. Si è pure ipotizzato che coincidesse con il Papa, avendo lo stesso nome. Ma di fatto non è così. Del resto Papa Clemente forse è morto in esilio, e la segnalazione di un culto diffuso in Crimea e in Ucraina, avvalora questa tesi. Per questo motivo, essendo lon-tano da Roma, e impossibilitato ad esercitare la sua carica, si ritiene che abbia dato le dimissioni e sia morto lontano dall’Urbe, senza finire martire. Qui interessa il testo della lettera la cui paternità è certa.

PRIMA LETTERA AI CORINZI

DI CLEMENTE

Anche ad essere di un autore originario di Roma, che comunque non si cita con il suo nome, la lettera è redatta in lingua greca, anche perché è riservata ad una comunità di quel mondo. Chi scrive ricorre al “noi”, anche perché rappresenta l’insieme della Chiesa che risiede a Roma, e si rivolge analogamente ad una Chiesa sorella che risiede a Corinto. Vi si respira un autentico senso di fraternità, nonostante l’intervento sia stato richiesto per dirimere le divisioni presenti. Per i riferimenti al martirio di Pietro e di Paolo e di altri esponenti della Chiesa e per il clima persecutorio che ancora aleggia a Roma si deve pensare che questa lettera sia proprio degli ultimi anni del secolo, e riflette il medesimo clima di persecuzione che si avverte nell’Apocalisse di Giovanni, che potrebbe essere coeva. La persecuzione a cui si fa riferimento è quella prodotta da Domiziano, già indotto in modo maniacale a colpire diverse credenze religiose, mentre lui si avviava al riconoscimento di sé come “Dominus et Deus”.

La Chiesa di Dio che è a Roma alla Chiesa di Dio che è a Corinto, agli eletti santificati nella volontà di Dio per nostro Signore Gesù Cristo. Siano abbondanti in voi la grazia e la pace di Dio onnipotente mediante Gesù Cristo. Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l’una dietro l’altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all’empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso. Chi, fermandosi da voi, non ebbe a riconoscere la vostra fede salda e adorna di ogni virtù? Ad ammirare la vostra pietà cosciente ed amabile in Cristo? Ad esaltare la vostra generosa pratica dell’ospitalità? A felicitarsi della vostra scienza perfetta e sicura? Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona, e camminavate secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri anziani. Esortavate i giovani a pensare cose moderate e degne. Raccomandavate alle donne di compiere tutto con coscienza piena, dignitosa e pura, amando sinceramente, come conviene, i loro mariti; insegnavate a ben accudire alla casa, attenendosi alla norma della sottomissione e ad essere assai prudenti. Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Con-tenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi. Così una pace profonda e splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e una effusione piena di Spirito Santo era avvenuta su tutti. Colmi di volontà santa nel sano desiderio e con pietà fiduciosa, tendevate le mani verso Dio onnipotente, supplicandolo di essere misericordioso se in qualche cosa, senza volerlo, avevate peccato. Giorno e notte per tutta la vostra comunità vi adoperavate a salvare con pietà e coscienza il numero dei suoi eletti. Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza rancori. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile. Vi affliggevate per le disgrazie del prossimo e ritenevate le sue mancanze come vostre. Senza pentirvi mai di ogni buona azione, eravate pronti ad ogni opera di bene. Ornati di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i comandamenti e i precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro cuore. Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e prigionia.

Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. Per questo si sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la quale anche “la morte venne nel mondo”. (I-III)

Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. (V)

Già nell’avvio di questa lunga lettera è posta la questione che giustifica un simile intervento: c’è la divisione rovinosa e si suggerisce di seguire l’esempio di coloro che hanno superato il male attraverso il martirio. Poi l’autore, con una serie di citazioni bibliche e di esempi desunti dalla Scrittura, insiste sulla necessità di salvaguardare l’unità, mediante l’umiltà, lo spirito di servizio: proprio le persone dedite al sacrificio sono coloro che devono essere considerate degne di imitazione. Tra i capi c’è sempre il rischio di trovare chi cerca il proprio interesse: di qui la necessità di una scelta giusta e di una formazione adeguata.

I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero.

Sarebbe per noi colpa non lieve se esonerassimo dall’episcopato quelli che hanno portato le offerte in maniera ineccepibile e santa. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse allontanati dal posto loro stabilito. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore. (XLIV)

Qui è affrontato il tema della successione apostolica, che risulta essere l’argomento principale di questa lettera, scritta nell’intento di verificare questo passaggio ormai in atto un po’ dovunque nella Chiesa. Probabilmente anche l’autore, che è a capo della Chiesa madre di Roma, ha riscontrato non pochi problemi circa questo passaggio, se si deve dare peso alla notizia che abbiamo circa la sua consacrazione a vescovo di Roma come successore di Pietro, senza che poi, alla morte di costui, gli subentrasse nel ministero. Tra lui e l’apostolo, di fatto, ci sono di mezzo altre figure che sono prevalse e che lui non avrebbe ostacolato nel diventare vescovi di Roma per conservare la pace nella Chiesa. Questo è comunque il segnale che ci possono essere state, se non delle divisioni, almeno dei contrasti in relazione a chi poteva essere considerato più degno della successione o come l’erede designato dallo stesso Pietro. In effetti i passaggi fra una autorità e l’altra sono sempre delicati, un po’ ovunque; e anche nella Chiesa si richiede che vengano individuati criteri piuttosto chiari per garantire una successione condivisa da tutti. Le parole qui usate ri-flettono comunque una situazione che non si è rivelata facile, soprattutto se alcune persone – come potrebbe essere per lo stesso Clemente – sono state ostacolate, nonostante avessero i requisiti richiesti. E questo vale anche a Corinto: forse è questa la ragione più importante perché il vescovo di Roma intervenga nelle tensioni in atto. Di qui l’accorato appello all’u-nità sulla base dell’appartenenza all’unico Dio e all’unico Cristo. Già dai primi tempi della Chiesa, dunque, le contese si fanno sentire e i richiami all’unità non si contano.

Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore.

Disse, infatti: “Guai a quell’uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che pervertire uno del miei eletti”. Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo. Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all’inizio della sua evangelizzazione? Sotto l’ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo (Apollo) stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna. E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si è ribellata ai presbiteri. E tale voce non solo è giunta a noi, ma anche a chi è diverso da noi. Per la vostra sconsideratezza si è portato biasimo al nome del Signore e si è costituito un pericolo per voi stessi. (XLVI-XLVII)

Sempre più accorato si fa l’appello all’unità, riconoscendo comunque che sono pochi i fomentatori del dissenso. Ciò che sconcerta è comunque il fatto che essi trovino consensi anche fra gente che rimane salda nella dottrina, per quanto segua personaggi non degni della carica che rivestono o che vogliono rivestire. Quindi non siamo in presenza di una divisione sulla base della dottrina, quanto piuttosto sulle forme di arrivismo che trovano spazio anche nella Chiesa, causando in essa la tensione e soprattutto una immagine poco credibile. Di qui l’intervento di Clemente che fa appello alla lettera di Paolo, nella quale si evidenzia il medesimo problema e il medesimo disagio. Si deve riconoscere in queste parole che la soluzione ai problemi va ricercata nei testi divenuti autorevoli degli apostoli e quindi nell’appello alla Scrittura. Il peccato di Corinto è sostanzialmente la ribellione ai “presbiteri”, che fa pensare ad uno scisma in corso, non tanto per questioni dottrinali, quanto piuttosto per il riconoscimento o meno dell’autorità nella Chiesa.

Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della vostra lingua. E’ meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza.

Così parla la sapienza maestra di virtù: “Ecco, io emetterò per voi una parola del mio spirito e insegnerò a voi il mio discorso. Poiché chiamai e non ascoltaste, prolungai i discorsi e non foste attenti, ma frustraste i miei consigli e disobbediste ai miei richiami. Anch’io riderò della vostra rovina, e mi rallegrerò se arriverà lo sterminio su di voi e se improvviso giungerà il tumulto e sovrasterà la catastrofe simile al turbine e quando avverranno l’angoscia e l’oppressione. Accadrà che voi m’invocherete e non vi ascolterò; i cattivi mi cercheranno e non mi troveranno. Odiarono la sapienza, non vollero saperne del timore del Signore, né vollero ascoltare i miei consigli e disprezzarono le mie esortazioni. Per questo mangeranno i frutti della loro condotta e si sazieranno della loro empietà. Saranno uccisi per aver commesso ingiustizie contro i fanciulli e il giudizio distruggerà gli empi. Chi mi ascolta riposerà fiducioso sulla speranza e vivrà tranquillo lontano da ogni male”. (LVII)

Qui il tono si fa duro e assume il linguaggio ben noto nei testi scritturistici da parte dei profeti che si appellano al Mosè del Deuteronomio, preoccupato lui pure che al suo venir meno sia garantita nel popolo ebraico, sempre diviso, un’autorità indiscussa e indiscutibile; proprio per questo Mosè ricorre al giovane Giosuè, che appare dominato dai suoi trascorsi militari e che dunque interviene con mano pesante. Qui non si arriva a tanto e tuttavia l’autore si fa sentire con una certa forza, perché il male presente appare come una cancrena da togliere con il bisturi.

LA PREGHIERA

Segue una lunga preghiera, che viene introdotta come se l’autore venisse ispirato da ciò che sta dicendo in maniera accorata, perché solo da Dio è possibile scongiurare questo male nella Chiesa. È uno dei primi testi di preghiera, che troviamo al di fuori delle fonti bibliche …

Noi saremo innocenti di questo peccato e chiederemo, con preghiera assidua e supplica, che il creatore dell’universo conservi intatto il numero dei suoi eletti che si conta in tutto il mondo per mezzo dell’amatissimo suo figlio Gesù Cristo Signore nostro, col quale ci chiamò dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso, a sperare nel tuo nome, principio di ogni creatura: Tu apristi gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te, il solo altissimo nell’altissimo dei cieli, il santo che riposi tra i santi, che umilii la violenza dei superbi, che sciogli i disegni dei popoli, che esalti gli umili e abbassi i superbi.

Tu che arricchisci e impove-risci, che uccidi e dai la vita, il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne, che scruti gli abissi, che osservi le opere umane, che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati, creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra, e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo, l’amatissimo tuo figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato. Ti preghiamo, Signore, sii il nostro soccorso e sostegno. Salva i nostri che sono in tribolazione, rialza i caduti, mostrati ai bisognosi, guarisci gli infermi, riconduci quelli che dal tuo popolo si sono allontanati, sazia gli affamati, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, consola i vili. Conoscano tutte le genti che tu sei l’unico Dio e che Gesù Cristo è tuo figlio e “noi tuo popolo e pecore del tuo pascolo”. Con le tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo. Tu, Signore, creasti la terra. Tu, fedele in tutte le generazioni, giusto nei tuoi giudizi, mirabile nella forza e nella magnificenza, saggio nel creare, intelligente nello stabilire le cose create, buono nelle cose visibili, benevolo verso quelli che confidano in te, misericordioso e compassionevole, perdona le nostre iniquità e ingiustizie, le cadute e le negligenze. Non contare ogni peccato dei tuoi servi e delle tue serve ma purificaci nella purificazione della tua verità e dirigi i nostri passi per camminare nella santità del cuore e fare ciò che è buono e gradito al cospetto tuo e dei nostri capi. Sì, o Signore, fa’ splendere il tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la tua mano potente e scamparci da ogni peccato col tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l’onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da te. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen. (LIX-LXI)

Qualcuno arriva a considerare la preghiera come una specie di anafora (o preghiera eucaristica), nella quale ha il suo peso anche il riferimento alle autorità civili. Per esse i cristiani sono chiamati a pregare, anche quando queste si rivelano ostili. Sulla base di ciò che troviamo raccomandato anche nelle lettere di Paolo, in cui i cristiani sono invitati a supplicare Dio per chi governa, chiunque egli sia, si deve ritenere quanto mai necessaria la preghiera come appello a Dio, perché la funzione e l’esercizio del governo siano vissuti a favore del bene comune, che è innanzitutto la salvaguardia dell’unità e della fraternità. Così la questione che sembra circoscritta alla Chiesa e in particolare a quella locale, con il richiamo all’autorità civile si estende a comprendere un po’ tutti, per la custodia del mondo, la sua pace e la sua tranquillità. È davvero un bell’esempio dello stile di preghiera solenne che i capi ecclesiastici di quel tempo esprimevano nelle riunioni per il culto. Ritenere che sia una preghiera di tipo eucaristico non sembra avere riscontro nella realtà, perché manca ogni riferimento all’eucaristia, perché non si trovano le parole della consacrazione, perché non si trovano le espressioni proprie e inconfondibili delle anafore, laddove si invoca la presenza dello Spirito e si fa riferimento al sacrificio di Cristo. Tuttavia nelle preghiere eucaristiche ancora in uso si trovano invocazioni per l’unità della Chiesa, per la fraternità fra gli uomini, per il richiamo al servizio dell’unità da parte di autorità ecclesiastiche e civili. Si tratta dunque di un testo considerato di valore un po’ sempre. La lettera si conclude con le esortazioni finali che richiamano i temi fondamentali della lettera e con l’invio di una delegazione che permetta di conservare i rapporti con la comunità secondo lo stile dell’apostolo Paolo, nella speranza che si possano avere i frutti sperati.

Fratelli, vi abbiamo scritto abbastanza sulle cose che convengono alla nostra religione e sono utili a una vita virtuosa per quelli che vogliono osservare la pietà e la giustizia. Abbiamo toccato tutti i punti che riguardano la fede, la penitenza, la vera carità, la continenza, la saggezza e la pazienza.

Vi abbiamo ricordato che nella giustizia, nella verità e nella magnanimità bisogna piacere santamente a Dio onnipotente, amando la concordia, dimenticando le offese, nell’amore e nella pace con una benevolenza continua, come i nostri padri, di cui abbiamo già parlato, si resero graditi con l’umiltà verso il Padre, Dio e creatore, e tutti gli uomini. E questo abbiamo ricordato con piacere, perché eravamo certi di scrivere a fedeli eccellenti che hanno approfondito le parole dell’insegnamento di Dio. E’ giusto che noi con tali e tanti esempi sottostiamo, prendendo il posto dell’obbedienza. Desistiamo dalla vana sedizione per raggiungere senza biasimo lo scopo propostoci nella verità. Ci darete esultanza di gioia se, divenuti obbedienti a ciò che vi abbiamo scritto mediante lo Spirito Santo, smorzerete la collera ingiusta della vostra gelosia, secondo l’esortazione fatta in questa lettera alla pace e alla concordia. Vi abbiamo inviato uomini fedeli e saggi, vissuti in mezzo a noi con modi corretti dalla gioventù alla vecchiaia, che saranno testimoni tra noi e voi. Abbiamo fatto questo perché sappiate che ogni nostro pensiero è stato ed è che ritroviate presto la pace. Dio che tutto vede ed è padrone degli spiriti e signore di ogni carne, che ha scelto il Signore Gesù Cristo e noi mediante Lui ad essere suo popolo, conceda ad ogni anima che implora il suo mirabile e santo nome, fede, timore, pace, pazienza e magnanimità, continenza, purezza e prudenza. E sia gradita al Suo nome per mezzo del sommo sacerdote e nostro protettore Gesù Cristo, per il quale sia a lui la gloria, grandezza, potenza e onore, ora e nei secoli dei secoli. Amen. Rimandateci presto nella pace e nella gioia i messaggeri da noi inviati, Claudio, Efebo e Valerio Bitone con Fortunato perché ci annunzino quanto prima la pace e la concordia invocate e desiderate, e presto noi ci rallegriamo della vostra serenità. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi e con tutti quelli ovunque chiamati da Dio per mezzo Suo e a Lui sia gloria, onore, potenza e maestà e regno eterno, dai secoli nei secoli dei secoli. Amen. (LXII-LXV)

La lettera appare conclusa con la segnalazione dell’invio della delegazione; ma poi viene riaperta, perché l’autore si premura di sollecitare il rinvio della delegazione, dalla quale ci si aspettano risultati positivi e quindi la notizia del ritorno all’unità, dopo aver estirpato le divisioni e soprattutto le cause che l’hanno creata. Ciò significa che è possibile comminare degli anatemi, mediante i quali chi fomenta lo scisma, possa essere, secondo il significato della parola “anatema”, tagliato via dalla comunità per farvi ritornare la concordia. Il richiamo è fatto con S. Paolo, che aveva parlato così con i Corinzi di 40 anni prima. Clemente appare nella finale meno duro, volendo fare appello alla coscienza dei Corinzi.

SECONDA LETTERA DI CLEMENTE

Questa lettera viene attribuita a Clemente, ma già nei primi tempi della Chiesa non era considerata sua, e veniva ritenuta posteriore di circa 50 anni. È S. Girolamo a dire che “si riporta una seconda sua lettera, che fin dai tempi antichi non viene riconosciuta sua”. Di fatto è un testo della metà del II secolo: la lettera, anche se appare nei toni come un’omelia, viene attribuita a lui, perché nei codici appare associata alla prima lettera. È di fatto un sermone su vari argomenti e con diverse citazioni evangeliche dedotte da Matteo e Luca, che hanno fatto pensare ad un testo in cui i due evangelisti vengono come armonizzati per dare origine a un nuovo vangelo. I temi trattati riguardano principalmente l’autocontrollo, il pentimento e il giudizio.

Fratelli, questo è il concetto che dobbiamo farci di Gesù Cristo: considerarlo quale Dio, quale giudice dei vivi e dei morti; e non dobbiamo tenere in poco conto la nostra salvezza. Se noi abbiamo un meschino concetto di Lui, è meschino anche l’oggetto della nostra speranza. Chi ascolta queste cose e le reputa piccole, pecca; e noi pure pecchiamo, se ignoriamo donde fummo chiamati e da chi e a quale luogo destinati e quante sofferenze volle sopportare Gesù Cristo per noi. Qual compenso gli daremo noi, o quale frutto, degno di quello che ci fu donato da Lui? Di quali benefici non siamo debitori a Lui? Egli ci prodigò la luce; come un padre ci chiamò suoi figli e ci salvò quando perivamo. Quale lode dunque o quale compenso, daremo noi a Lui per le grazie ricevute? Noi eravamo ciechi d’intelletto, adoravamo oggetti di pietra, di legno, d’oro, d’argento e di bronzo, opere umane; e tutta la nostra vita non era altro che morte. Eravamo circondati da oscurità, i nostri occhi erano pieni di nebbia; per volere di Lui riacquistammo la vista e dissipammo la nube in cui eravamo avvolti. Egli ci usò misericordia e ci salvò, mosso a compassione alla vista dei nostri molteplici errori e della rovina in cui giacevamo senza alcuna speranza di salute fuori di quella che viene da Lui. Egli ci chiamò quando ancora non eravamo, e dal nulla volle che passassimo all’esistenza.

Dà l’impressione di un testo che raccoglie, a mo’ di frasi fatte, una specie di apoftegmi, cioè di detti sentenziosi, che possono far presa per la loro brevità ed essenzialità. Anche per questo la lettera si conservò …

CONCLUSIONE

La prima lettera, più che il suo autore, rappresenta un documento notevole circa il cammino della Chiesa, con la visione qui espressa dell’autorevolezza legata al successore di Pietro. Noi oggi abbiamo una visione del “primato petrino” che fa leva su aspetti di natura giuridica, legata anche ad una tradizione storica, in cui la missione di Pietro si è ammantata di un potere giurisdizionale che sconfina poi nella natura politico – istituzionale: il Papa ha un ruolo primaziale, che l’ha fatto persino diventare un sovrano con tanto di territorio da governare e dei sudditi a cui provvedere. Certamente questo ha pure giovato al suo servizio nella Chiesa, ma di fatto ha creato non pochi motivi di divisione, che si sono trasformati in scismi. Sono ben noti quelli che la storia registra come fenomeni traumatici, che hanno prodotto scomuniche, incomprensioni e confini invalicabili nella dottrina, come si vede con il mondo orientale; ma non è da meno quello che si ebbe al tempo del superamento della cattività avignonese, quando si giunse ad avere addirittura tre papi e a far prevalere la tesi conciliarista della superiorità del Concilio rispetto al Papa, senza comunque giungere ad una situazione ancor più traumatica. Questa si produsse con l’avvento della Riforma e con lo strascico delle guerre di religione. Simili venti rovinosi sono un po’ sempre presenti nella Chiesa e spesso si rafforzano proprio sulla figura e sull’azione del Papa, nonostante che si sia tentato di rafforzare la sua missione con la tesi dell’infallibilità: problemi simili a quelli segnalati nella lettera di Clemente tormentano la Chiesa nella storia e anche nel momento attuale. I tentativi di dissociarsi dal Papa, di non riconoscerne l’autorità e le parole, hanno contribuito, e contribuiscono ancora, alla creazione di gruppi scismatici, dove possono allignare eresie e dottrine, che si sono allontanate dalla retta fede. Secondo l’autore della lettera la causa di simili rotture dipende dalle forme di personalismo e di soggettivismo che stanno trionfando anche nell’ora presente. Inoltre il peso di una tradizione che ha fatto prevalere una visione di natura giuridica nel ruolo del Papa, più che un suo servizio primaziale nell’ambito spirituale ha ulteriormente prodotto tensioni di non facile soluzione. La visione di tipo giuridico, dunque, non ha giovato a conservare e ad accrescere l’unità della Chiesa. In questo primo intervento autorevole avvenuto al di fuori della propria Chiesa, Clemente rivela che con l’autorevolezza, senza mai sconfinare in un potere giuridi- camente inteso, si può operare nella linea evangelica di confermare i fra-telli nella fede, come Cristo afferma nel vangelo, sostenendo di volere Pietro con questo servizio nella Chiesa.

È una indicazione significativa, che anche recentemente, con Giovanni Paolo II, si è fatta strada per una rivisitazione della missione di Pietro nella Chiesa, in cui si confermi ciò che è scritto nel vangelo, senza le sovrastrutture che si sono create nel corso dei secoli, quando di fatto si è rischiato di snaturare il compito di Pietro. Così la lettera induce a ritenere il compito del Papa, davvero necessario per garantire l’unità nella Chiesa, e nel contempo chiede che il Papa, con il suo intervento, di fatto richiesto, deve contribuire a costruire un più forte senso dell’unità e della comunità, senza cadute in avanti con gli arrivismi e i personalismi. L’unità, costruita con la convergenza e non mediante l’allineamento conformistico, e la comunione, che non impedi-sce il pluralismo e le diversità, non sono salvate solo difendendo la pu-rezza della dottrina, perché di fatto risultano più devastanti gli scismi, rispetto alle eresie. E nella lettera si fa riferimento soprattutto ad essi, facendoli derivare da una accentuazione dei personalismi, un male presente non solo nella Chiesa, ma divenuto, anche oggi, un problema non indifferente, pure nell’ambito civile, nel causare l’indebolimento della democrazia e di una partecipazione che è assolutamente necessaria a conservare il sistema democratico. È un po’ inevitabile che emergano le figure autorevoli, e queste sono indubbiamente necessarie per la conduzione della Chiesa e della società, anche a diversi livelli. Tuttavia sono necessari quei contrappesi che permettano a chi ha responsabilità di governo di non gestire la cosa pubblica come se fosse privata, e comunque di favorire il comune sentire, senza il quale non ci può essere la ricerca del bene comune. È dunque una salutare riflessione da non circoscrivere solo entro le mura della Chiesa, anche se qui la questione è circoscritta ad un gruppo ancora ristretto nella società di allora, destinato comunque ad accrescere il suo peso: tutto questo si pone nei periodi di passaggio e non lo è da meno il periodo nel quale viviamo. La lettera mette in guardia da fenomeni già diffusi al tempo di Paolo e ben radicati ed emergenti nei tempi di passaggio, come è quello vissuta alla fine del secolo I, quando scompaiono gli apostoli e coloro che sono i testimoni diretti del primo cammino della Chiesa. Con la nuova generazione è necessaria una impostazione che metta in guardia dalle degenerazioni già in corso. Di fatto si fa appello ad una autorità riconosciuta come preminente.

APPENDICE:

LA CHIESA DI S. CLEMENTE

Come contributo alla conoscenza di S. Clemente si può pensare alla chiesa romana che lo ricorda. Oggi la basilica si erge sopra le rovine di quelle che l’hanno preceduta e in particolare di quella che viene fatta risalire ai primi tempi: l’attuale, che sta fra l’Esquilino e il Celio, deve la sua struttura di base all’edificio del secolo XI. Qui già prima si onorava la memoria di Papa Clemente. Le mura erano (e ancora lo sono, in parte) affrescate con la storia del santo, derivata da racconti leggendari. È rimasta famosa la scena in cui si riscontrano parole scritte, quasi come in un fumetto attuale, e messe in bocca ai personaggi. Esse documentano il passaggio dalla lingua parlata latina, che già sconfina nel volgare, ad un nuovo modo espressivo.

ISCRIZIONE DI S. CLEMENTE

Affresco (XI secolo)

Basilica di S. Clemente al Laterano – Roma

L’episodio qui riprodotto in immagine è derivato dalla Passio Sancti Clementis (un testo anteriore al secolo VI): il nobile Sisinnio, che ha catturato il santo e lo vuole trascinare in prigione, interviene in modo rozzo e volgare a costringere i suoi servi, perché, prendendo con la forza il santo, lo conducano al luogo della sua pena. Costoro, accecati come il loro padrone, sentono molto pesante quel corpo e faticano a sostenerne il peso: di fatto essi hanno tra mano una colonna di marmo.

Per dare vivacità alla scena il pittore ha pure scritto le parole che dobbiamo pensare in bocca ai personaggi, e ne vien fuori un dialogo molto vivace, con parole che appartengono al linguaggio popolare. Siamo a Roma e quindi i vocaboli sono quelli della parlata romanesca della gente comune, compresi i termini poco consoni all’ambiente di una chiesa, che ancora hanno una certa forma derivata dal latino, ma di fatto appartengono maggiormente alle espressioni comuni, che stanno arrivando al volgare. Questa sarebbe una delle prime testimonianze del volgare, che sta diventando lingua italica. Non tutto è chiaro di quel concitato dialogo, ma la ricostruzione condivisa da gran parte degli esperti, potrebbe essere questa:

Sisinnio:

Fili de le pute, traite! Gosman, Albertel, traite!

Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!

S. Clemente:

Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis!

Sulla bocca del nobile stanno di fatto parole ormai vicine al “volgare” e anche con la classica espressione di volgarità. Sono il segno che ormai è dominante questo modo di parlare, il solo che possa essere compreso da chi vede la scena dipinta. Ciò che viene messo in bocca al santo è invece una frase che ancora appartiene al mondo latino, anche se alcune forme non rispettano più la grammatica (“duritiam” dovrebbe essere un complemento di causa, che andrebbe preceduta da “ob”) e neppure la forma fonetica (“traere” nel fonema latino prevede l’h in mezzo e quindi la forma corretta è “trahere”). Questa parte latina si avvicina molto a ciò che si può leggere sul documento scritto; non tutto è stato riportato perché sulla parete non poteva stare. Riferendola in latino, per quanto non totalmente corretto, si voleva creare la distanza fra il santo che parla il latino e i persecutori che invece si rivelano volgari nei modi e nel loro parlare.

Propriamente non interessa alla ricerca sulla lettera di S. Clemente, ma completa il quadro a proposito del santo, di cui era rimasta ormai famosa, a livello popolare, la narrazione del martirio. E ancora di più diventava ben nota in presenza di espressioni simili, probabilmente usate anche in chiesa, per raccontare il fatto, in cui doveva prevalere la componente del miracolo, accompagnata dai modi rozzi e violenti dei personaggi che devono essere denigrati agli occhi e alle orecchie degli spettatori.