INTRODUZIONE
ACTA, PASSIONES, LEGENDAE
Nella prima letteratura cristiana hanno un certo rilievo i testi che
documentano le persecuzioni nei confronti dei cristiani stessi. Esse si sono
scatenate a più riprese in modo organizzato anche per il furore del popolo o
del principe tempo. Se nel I secolo sono dovute in gran parte alle follie di
imperatori, che governavano ricorrendo alla violenza e alla mattanza di
oppositori, come succede al tempo di Nerone (54-68) e di Domiziano (81-96), poi, in presenza di una sorta di resistenza passiva, che li rendeva, come gli Ebrei, irriducibili al potere costituito, i cristiani sono stati ricercati e
condannati. Anche nel II secolo, sotto gli Antonini, o imperatori adottivi,
venivano accusati e puniti perché refrattari alla cultura dominante. Quando il fenomeno persecutorio diventa un sistema che dilaga nell’impero, se ne parla non solo nei testi degli storici, ma anche nei documenti del tribunale che affronta la questione. E di qui passano anche tra le mani dei cristiani.
Nascono così le prime redazioni di resoconti del martirio, soprattutto in
presenza di personaggi che avevano un certo rilievo nella prima Chiesa o nel
territorio dove scoppiavano le persecuzioni. I testi, raccolti e fatti conoscere, sono gli stessi resoconti dei tribunali, sia nel caso che provengano direttamente di lì, magari con la complicità di qualcuno che lavora in tribunale, sia perché il redattore finale lo ricava di lì, essendo presente alla scena. Così i verbali, ridotti all’essenziale, poiché riproducevano le domande degli inquirenti e dei giudici e le risposte dei condannati, diventavano non solo la documentazione storica per il sistema giudiziario romano, ma anche un testo autorevole con cui la comunità cristiana riconosceva e glorificava i suoi eroi.
Quando i cristiani si trovavano a celebrare la memoria dei martiri sulle loro
tombe, leggevano queste composizioni, che in tal modo si aggiungono ai testi biblici; essi poi vengono conclusi con la dossologia, mediante la quale la glorificazione dei caduti per la fede diventa una glorificazione di Dio. In
assenza dei verbali, fioriscono i racconti dei testimoni oculari, o anche di
coloro che sono coinvolti nel martirio e che lasciano come una specie di
testamento, per richiamare, a chi resta, la coraggiosa testimonianza dei
caduti. Simili testi fioriscono in occasione delle persecuzioni che un po’
ovunque si verificano, soprattutto nell’intento di sradicare la “mala pianta”, considerata rovinosa perché mina alla base il sistema di potere.
Inizialmente gli Atti dei martiri non sono numerosi e sembrano segnalare le
figure ragguardevoli; poi però, quando la persecuzione diventa anche uno
spettacolo popolare, si ha cura che il fenomeno delle violenze nei circhi si
radichi un po’ ovunque, per accontentare i bassi istinti e avere di riscontro il
consenso popolare. E, come piacciono quei “giochi” negli stadi, così si ritiene che possa non solo piacere, ma soprattutto essere utile leggere i testi che li raccontano. Anzi, prendono piede i dettagli più violenti e terrificanti in presenza di chi ha il gusto di soffermarsi su di essi. Ancora nel III secolo, gli “Acta martyrum” sono di fatto o i verbali del processo, o i testi desunti da essi. Successivamente, sia per il moltiplicarsi dei casi, sia per la non
reperibilità della trascrizione dai verbali, si sopperisce con documenti lasciati all’abilità di chi scrive, il quale aggiunge annotazioni sue, anche per suscitare forti emozioni. Di qui la redazione di testi fortemente drammatici e proprio per questo ancor più ricercati. Nel contempo, forse anche per la fortuna dei testi narrativi caricati emotivamente, sorgono pure narrazioni fantasiose. Spesso i racconti si arricchiscono (e si appesantiscono) di ulteriori episodi che allungano il racconto e tengono i lettori con il fiato sospeso, nel desiderio di saperne di più con i tanti particolari, talvolta anche fin troppo cruenti. Nei secoli successivi, quando non c’è più il clima persecutorio, ma si diffonde il culto delle reliquie, si avverte la necessità di accompagnare le celebrazioni dei martiri con racconti che suppliscono al silenzio delle fonti. I martiri sono esaltati nei testi poetici utilizzati durante le liturgie solenni, come succede a Roma con papa Damaso (366-384) e a Milano con S. Ambrogio (374-397); e insieme vengono decantati nelle notizie che i predicatori offrono in occasione delle feste, come troviamo documentato nei testi omiletici di S. Ambrogio e di S. Agostino. Non di meno succede, anche oltre costoro, con narrazioni piuttosto fantasiose, soprattutto in relazione a martiri di dubbia provenienza.
In occasione della persecuzione indiscriminata al tempo di Diocleziano (284-303), ci troviamo in presenza di figure che appaiono conosciute solo per il nome, spesso simbolico e fantasioso, anche perché ogni località dice di possedere le reliquie e di godere della protezione del martire o della martire locale. Se poi il culto si allarga, si sente il bisogno di far conoscere il santo con un racconto affidato alle competenze di chi sa raccontare. Nascono così le “Passiones”, che si limitano a raccontare il momento del martirio, volendo riprodurre ciò che troviamo negli Atti del martirio.
Esse non si riducono al solo verbale del processo, ma descrivono le scene
collaterali e sempre più spesso diventano la biografia della figura decantata.
Queste “Passiones” diventano così “Legendae”, cioè testi che devono
essere letti soprattutto nelle assemblee liturgiche. Simili testi sono infarciti di episodi inverosimili, come quelli nei quali si dice che la testa, tagliata con la decapitazione, viene raccolta dallo stesso martire, poi descritto nei dipinti con la testa in mano oltre che sul collo e poi definito “cefaloforo”. Per questi particolari miracolistici i testi, pur letti, diventano “leggendari” e quindi sono racconti senza alcun fondamento storico. Il Medioevo arricchisce il repertorio di simili racconti con altri testi che diventano sempre più popolari. Tra questi è da ricordare la “Legenda aurea” di Jacopo da Varagine (1230-1298), in cui si trovano racconti che hanno contribuito a rendere sempre più popolari alcuni santi. Qui abbiamo narrazioni costruite appositamente per figure di cui non si hanno notizie sicure, come è il caso di S. Giorgio, uno tra i santi più diffusi e famosi nel periodo medievale e non solo.
ACTA DEL II SECOLO
Il martirio è un fenomeno che accompagna la storia della Chiesa: la
conservazione della memoria degli “eroi della fede” è affidata alle narrazioni che molto spesso sono prodotte a livello orale e usate negli incontri per onorarli, magari nei cimiteri, o dove, nascostamente, vengono custoditi. Dalla fase orale si passa alle redazioni scritte, come già si può vedere nella lettera di S. Clemente (fine I secolo), il quale ricorda i martiri di Roma, tra cui Pietro e Paolo, uccisi nella persecuzione di Nerone (64-67).
Lasciando da parte gli esempi dei tempi antichi, veniamo agli atleti che sono stati più vicini a noi. Mettiamoci davanti agli occhi gli esempi eroici della nostra generazione. Coloro che erano le colonne più alte e più sante soffrirono la persecuzione e combatterono fino alla morte. E questo a causa della persecuzione, suscitata dall’odio e dalla cattiveria. Poniamo davanti ai nostri occhi i valorosi apostoli: Pietro, che per malvagia intolleranza ebbe a sopportare non uno o due, ma molti dolori e così, avendo data la testimonianza del martirio,
se ne andò al luogo di gloria che gli spettava. In seguito conseguì il premio delle
sofferenze Paolo, vittima dell’accanito fanatismo dei suoi nemici. Messo sette
volte in catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo della parola in oriente e in
occidente, si rese glorioso per la sua fede. Dopo di aver insegnato la giustizia a
tutto il mondo e aver toccato i confini dell’occidente, rese la sua testimonianza
davanti ai governanti.
Così passò da questo mondo e se ne andò nel luogo dei santi, modello altissimo
di fortezza nella prova. A questi uomini che sono vissuti nella santità, venne ad
aggiungersi una grande moltitudine di eletti i quali avendo sofferto ancora a
causa dell’altrui odio molti oltraggi e tormenti, offrirono a noi un magnifico
esempio. A motivo dell’odio, parecchie donne soffrirono persecuzioni come
Danaidi e Dirci. Sostennero oltraggi terribili ed empi e così giunsero alla meta
della fede. Quantunque deboli di corpo ricevettero un nobile premio. La gelosia
alienò gli animi delle donne dai mariti e alterò il detto del nostro padre Adamo:
Questo è osso delle mie ossa e carne della mia carne. Gelosia e discordia
rovinarono grandi città e sconvolsero dalle radici popoli numerosi. Vi scriviamo
queste cose, carissimi, non soltanto per richiamarvi al vostro dovere, ma anche
per ricordarlo a noi stessi. Infatti ci troviamo nella medesima arena e ci attende
il medesimo combattimento. Lasciamo da parte perciò le vane e inutili
preoccupazioni e ritorniamo alla gloriosa e venerabile norma della nostra
tradizione e cerchiamo di vedere che cosa è bello, piacevole e gradito agli occhi
del nostro Creatore. Teniamo gli occhi fissi sul sangue di Cristo e comprendiamo
quanto è prezioso per Dio, suo Padre, il sangue di lui che, sparso per la nostra
salvezza, arrecò al mondo intero la grazia della conversione.
(Clemente Romano, I lettera 5-7)
Nel corso del II secolo sono formulati i testi tratti dai processi, che poi danno
origine alle documentazioni più elaborate e degne di assurgere ad opere di
letteratura e di essere conservate come lavori notevoli. Sono da segnalare,
nel secolo degli imperatori filosofi, i racconti del martirio di S. Policarpo,
avvenuto nel 155, e del martirio di S. Giustino, nel 163. Si deve riconoscere che, a partire da simili rievocazioni, nascerà il desiderio di lasciare documenti
che diano lustro ai santi anche oltre il luogo in cui avviene il loro martirio.
ACTA DEL III SECOLO
Le migliori espressioni di questo nuovo genere letterario si hanno fin dai primi
anni del secolo III, e in particolare nel territorio della provincia romana
d’Africa, che corrisponde al litorale mediterraneo. Con la dissoluzione della
dinastia “Antonina”, quella dei cosiddetti “imperatori adottivi”, in seguito al
colpo di Stato che elimina Commodo (180-192), figlio di Marco Aurelio (161-
180), si stabilisce a Roma la dinastia dei Severi, che è originaria da Leptis
Magna, nell’attuale Libia. Settimio Severo (193-211) modifica di fatto l’assetto
istituzionale dello Stato romano, presentandosi con una autorità derivata da
Dio stesso e non più in compartecipazione con il senato; di fatto egli si
reggeva sull’esercito.
Sotto di lui avvengono diversi episodi di persecuzione nei confronti dei
cristiani, anche se lui non risulta esserne l’organizzatore. Certamente li
considerava sempre alla stregua degli Ebrei, che per Roma costituivano i
nemici interni mai assimilati allo Stato romano. I fenomeni di persecuzione
sono spesso dovuti alla pressione popolare, la quale aveva invisi i cristiani,
talora per pregiudizio e talaltra per ostilità con il mondo ebraico; in più
cercava spettacoli cruenti nello stadio. Questi fenomeni avvengono
soprattutto in Africa, dove nel frattempo si era consolidata la Chiesa, che fin
dagli inizi del III secolo presenta figure eminenti e testi di notevole fattura. Qui
si trova un testimone autorevole, per quanto appaia come uno spirito libero e
irriducibile a certi schemi. Si tratta dello scrittore Tertulliano (155-230), che,
di-venuto cristiano a 40 anni, si mette a scrivere, dominato da una retorica
vivace, con la quale egli rende accattivanti i suoi testi, spesso caustici ma
sempre affascinanti. Per quanto poi si collochi al di fuori della Chiesa,
lasciandosi andare a posizioni sempre più estreme fino all’eresia, nei testi del
periodo in cui è in unione con la Chiesa, scrive con particolare efficacia per la
sua causa, vedendola circondata dal pregiudizio e da attacchi indiscriminati,
ed ha parole incoraggianti anche per i martiri nel loro combattimento, come si
legge nel suo pamphlet “Ad Martyres”.
O creature benedette, che siete state chiamate alla gloria del martirio, a voi la
Chiesa, madre e signora, dalle sue viscere stesse dà il nutrimento dell'amore suo
infinito, che vi tiene ancora in vita; ma anche i fratelli vostri sono pronti a
somministrarvi, ciascuno dalle proprie risorse, quanto può esservi sufficiente a
sostentare il povero corpo vostro; e da noi pure ricevete qualcosa che serva a
sollevarvi e a nutrire l’anima. (…) Ma forse io non sono da tanto da poter
rivolgere a voi la parola; ma noto che anche ai gladiatori, che pur sono abilissimi, perfetti anzi nell’esercizio dell’arte loro, non soltanto i maestri e chi alle loro
esercitazioni presiede, ma anche gente qualunque e chi non ha conoscenza
alcuna di ciò che essi stanno facendo, rivolgono a costoro esortazioni e consigli;
e le parole stesse che escono così alla buona dalla bocca del popolo, talvolta non
sono dette invano. Per prima cosa io vi dirò, o spiriti eletti: non vogliate
contristare lo Spirito Santo, che con voi è entrato in questa vostra prigione. Oggi
non sareste qui, se lo Spirito non vi avesse seguito e non fosse con voi; cercate in
ogni modo che Egli resti qua, così che dopo, da codesto luogo, vi conduca su fino
al Signore. La casa del diavolo è il carcere, e in questa egli raduna chi è familiare
a lui, che è lo spirito del male. Ma voi è proprio a questo scopo che siete giunti ad
esser rinchiusi nell'oscura prigione: perché in casa del diavolo, nel suo pieno
dominio, voi ne abbiate a schiacciare la malvagia natura.
(Tertulliano, Ad martyres)
Le immagini che troviamo fanno riferimento ai combattimenti gladiatori nei
circhi, dove pure si assisteva alle esecuzioni capitali, a cui erano sottoposti i
cristiani. Nel medesimo periodo in cui scrive Tertulliano ci sono episodi
cruenti di cui rimangono tracce nei testi coevi che raccontano dei martiri. Si
tratta di opere che in parte vengono tratte dai verbali, ma nel contempo si
hanno aggiunte da parte degli stessi protagonisti e di persone che assistono
agli spettacoli del circo. Si deve pensare che ci siano fenomeni del genere un
po’ ovunque. Ma i testi più belli sotto il profilo narrativo derivano proprio dal
Nord Africa: in questo territorio si ha il fiorire di una letteratura cristiana di
notevole valore ed efficacia, in presenza di figure cospicue che
contribuiscono a lasciare un linguaggio nuovo e di notevole spessore. Così,
anche se si deve assistere ad una recrudescenza delle persecuzioni, nel
contempo questi esempi di eroismo, invece di scoraggiare, creano nuove
adesioni, anche e soprattutto fra persone dotate di una certa cultura. È lo
stesso Tertulliano a coniare la frase rimasta celebre, per cui “il sangue dei
cristiani è una semente che attecchisce e porta frutto”. Probabilmente vi
contribuisce la scena a cui si assiste nel circo; ma, forse, più ancora, quanto
viene scritto e diffuso per far conoscere queste figure e soprattutto l’eroismo
da loro dimostrato. Fa specie che, se questi martiri hanno avuto un grande
risalto al loro tempo, non hanno avuto la medesima fama nei secoli
successivi, per lasciare il posto ad altri personaggi di cui non abbiamo testi
con fondamento storico, ma solo narrazioni “leggendarie”, infarcite di “cose
inverosimili”; esse sono tali da lasciare traccia nella memoria popolare, che
ancora oggi celebra e onora santi e sante, senza che ci sia di loro un
fondamento storico, se non per una lunga tradizione celebrativa sia laddove
sono noti, sia dove sono stati fatti conoscere. Di questo periodo, tra gli
Antonini e i Severi, sono rimasti alcuni Atti di martiri appartenenti al Nord
Africa, che ci rivelano, con le figure eroiche dei martiri, dei testi di un certo
valore letterario.
ATTI DEI MARTIRI SCILLITANI
Gli Atti dei martiri scillitani, a noi pervenuti in duplice redazione, greca e latina, ma
redatti originariamente in latino, sono il documento più antico attestante con
sicurezza la diffusione del cristianesimo nell’Africa Romana.
Il documento è d’indiscussa autenticità. Gli Atti riferiscono che un gruppo di 12
cristiani proveniente da Scilli (località non identificata della Numidia): sette uomini
(Sperato, Narzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio) e cinque donne
(Donata, Vestia, Ianuaria, Generosa e Seconda), il 17 luglio 180, furono condotti a
Cartagine davanti a Saturnino, proconsole dell'Africa, per rispondere della loro fede
cristiana. Alle domande, formulate con tono conciliante dal proconsole, Sperato
risponde con grande fierezza: "ego imperium huius saeculi non cognosco" (Io non
riconosco l’impero di questo mondo). Saturnino offre agli imputati trenta giorni di
tempo per riflettere: essi rifiutano. Viene emanata allora la sentenza con la quale i
12 imputati (probabilmente dei 12 nomi 6 furono aggiunti in un secondo momento e
non dovettero far parte del gruppo dei martiri del 17 luglio) "ritu christiano se vivere
confessos, quoniam oblata sibi facultate ad Romanorum morem redeundi
obstinanter perseveraverunt, gladio animadverti placet" (Si decreta che siano colpiti
di spada coloro che hanno confessato di voler vivere secondo la fede cristiana,
poiché, data loro la facoltà di ritornare ai costumi romani, essi ostinatamente hanno
perseverato nel loro credo). Va ricordato, come particolare del più alto interesse per
lo studio della diffusione e dell’origine della traduzione latina del Nuovo Testamento,
che, a domanda del proconsole, Sperato afferma di avere con sé "libri et epistulae
Pauli viri iusti" (i libri e le lettere di Paolo, uomo giusto).
(Enciclopedia Treccani)
C’è concordanza sul fatto che esso sia un documento storico inoppugnabile,
e che dunque qui siamo in presenza di figure reali: alcuni nomi appartengono
a quell’area geografica, a dimostrazione che si tratta di personaggi vissuti in
quel territorio, dove si rivelano cittadini rispettosi dello Stato romano
nell’ambito civile, ma anche decisi a restare fedeli alla propria coscienza e
alla propria scelta nell’ambito della fede. E siamo pure in presenza di un
processo che si potrebbe definire stenografato, come se si volessero
verbalizzare domande e risposte nella loro essenzialità. Anche sotto il profilo linguistico si deve rilevare un latino ormai radicato un po’ ovunque
nell’Impero, dove le parole e le frasi si susseguono come dove-vano risultare
nella loro esposizione orale.
Sotto il consolato di Presente, per la seconda volta, e di Claudiano, il 16°
giorno dalle Kalende di Agosto (17 luglio), a Cartagine, convocati nell’ufficio
privato Sperato, Nartzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia, il proconsole
Saturnino disse: “Potete meritare l’indulgenza del signore nostro imperatore,
se tornate a più miti consigli”.
Sperato disse: “Non abbiamo mai fatto nulla di male; all’iniquità non vogliamo
prestare alcun atto; mai abbiamo detto qualcosa di male, ma, avendolo
subìto, abbiamo reso grazie; perciò noi siamo servi del nostro imperatore”. Il
proconsole Saturnino disse: “Anche noi siamo religiosi ed è semplice la
nostra religione, e giuriamo per il genio del nostro signore imperatore, e
preghiamo per la sua salute e voi pure dovete farlo”. Sperato disse: “Se
presterai le tue orecchie con calma, dirò il mistero della semplicità”. Saturnino
disse: “A te che vuoi parlar male delle nostre cose sacre, non presterò
ascolto; ma piuttosto giura per il genio del signore nostro imperatore”.
Sperato disse: “Io non riconosco l’impero di questo secolo; ma sono a
servizio di quel Dio, che nessuno degli uomini ha visto, né può vedere con
questi occhi. Non ho commesso alcun furto, ma se qualcosa ho comprato,
sono disposto a pagare la tassa; perché riconosco il mio signore, il re dei re e
l’imperatore di tutte le genti”. Il proconsole Saturnino disse agli altri:
“Rinunciate di appartenere a questa vostra persuasione”. Sperato disse: “E’
un cattivo convincimento commettere omicidio, dire falsa testimonianza”. Il
proconsole Saturnino disse: “Non vogliate essere partecipi di una simile
follia!”. Cittino disse: “Noi non abbiamo nessun altro da temere se non il
Signore Dio nostro che è nei cieli”. Donata disse: “Diamo onore a Cesare
come Cesare; abbiamo il timore di Dio per Dio”. Vestia disse: “Cristiana
sono”. Seconda disse: “Ciò che sono, questo voglio essere”. Il proconsole
Saturnino disse a Sperato: “Perseveri ad essere cristiano?” Sperato disse:
“Cristiano sono”. E con lui tutti furono d’accordo”. Il proconsole Saturnino
disse: “Volete forse uno spazio di tempo per prendere una decisione?”.
Sperato disse: “In una cosa tanto giusta non c’è affatto da stare a discutere”.
Il proconsole Saturnino disse: “Che cosa avete nei vostri sacchi?”. Sperato
disse: “I libri e le lettere di Paolo, uomo giusto”. Il proconsole Saturnino disse:
“Avete tempo 30 giorni e richiamatelo al cuore”. Sperato disse di nuovo:
“Sono Cristiano!”. E con lui furono tutti d’accordo. Il pro-console Saturnino
dalla tabella lesse il decreto: “Sperato, Nartzalo, Cittino, Donato, Vestia,
Seconda, e gli altri che hanno confessato di voler vivere nella religione
cristiana, poiché, data loro la facoltà di tornare al costume romano,
ostinatamente hanno perseverato, si decreta che siano colpiti di spada”.
Sperato disse: “Rendiamo grazie a Dio”. Nartzalo disse: “Oggi in cielo siamo
martiri: Siano rese grazie a Dio”. Il proconsole Saturnino ordinò che l’araldo
proclamasse: “Siano condotti al supplizio Sperato, Nartzalo, Cittino, Veturio,
Felice, Aquilino, Letanzio, Gennaro, Generosa, Vestia, Donata, Seconda”.
Tutti insieme dissero. “Siano rese grazie a Dio!”. E così tutti insieme furono
coronati col martirio, e regnano con il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo per
tutti i secoli dei secoli. Amen.
Oggi, nel calendario liturgico, questi martiri non compaiono. Con la riforma
del Vaticano II, alcuni martiri presenti nel vecchio messale sono stati tolti,
mentre alcuni, che pur non possiedono una documentazione storica sicura,
sono rimasti a causa della loro popolarità. Questi invece, come altri, sono
lasciati al culto locale. Al di là della fama di santità all’interno della Chiesa, qui
va rilevato il documento storico che attesta la presenza in terra d’Africa di una
comunità cristiana in grado di offrire un bell’esempio, come si può evincere
dal testo nelle risposte chiare e decise che costoro danno. È il primo segnale
proveniente da un luogo periferico rispetto a Roma, dove la fedeltà allo Stato
non è in discussione, che cultura e religiosità si abbinano e danno buoni frutti.
Ed è ben radicata la fede, tenuto conto che il percorso fatto dai primi
missionari si svolgeva in altri territori. Anche l’Africa è destinata a qualificarsi
in questo periodo, sia nell’ambito civile sia in quello religioso.
ATTI DI PERPETUA E FELICITA
Il testo non si presenta nella forma del processo tenuto in tribunale; è
piuttosto una specie di diario, scritto dalla protagonista mentre si trova in
carcere, e poi ricomposto da uno scrittore dotato di notevoli abilità narrative,
tali da rendere piacevole la lettura …
Costui elabora una cornice introduttiva e stila il resoconto finale della scena
tragica del martirio, dando così un’impostazione unitaria al racconto, tale da
renderlo un vero capolavoro letterario. È comune e diffusa opinione che vi sia
la mano esperta di Tertulliano. Costui, in una sorta di proemio all’operetta,
giustifica il suo lavoro, perché non si perda la memoria dei nuovi eroi della
fede i quali meritano di essere riconosciuti e onorati, per essere imitati. Egli
poi afferma che, mentre gli avversari si accaniscono sui più deboli,
scatenando e organizzando la persecuzione, chi appare travolto e tolto di
mezzo rivela di possedere la carica dello Spirito e mostra una energia
insospettata e inaspettata. Così non si ha solo il racconto di ciò che è
avvenuto, ma, anche in questo caso, viene tentata la lettura “evangelica” di
un evento tragico nel quale si dispiega la potenza divina nella fragilità umana.
Secondo la tradizione, furono Perpetua e Felicita a redigere la “passio” nei capitoli
centrali, mentre la compilazione definitiva fu opera dell’apologista Tertulliano. In
base a questo racconto, Vibia Perpetua, una nobile e colta matrona di Cartagine, di
ventidue anni, madre di un bambino che ancora allattava, fu arrestata insieme ai
suoi servi Revocato, Saturnino, Secondolo e Felicita, quest’ultima incinta e in procinto
di partorire. Essi erano ancora catecumeni ed erano stati convertiti da Saturo. Nel
202, un decreto dell’imperatore Settimio Severo (193-211) aveva proibito a tutti i
cittadini dell’impero di diventare cristiani ed anche ebrei, e chiunque avesse
disobbedito sarebbe stato condannato a pene severe. Il padre di Perpetua era pagano, mentre sua madre e due suoi fratelli erano cristiani, uno dei quali
catecumeno. Il terzo fratello, il giovane Dinocrate, morì ancora bambino. Dopo il loro
arresto, e prima di essere condotti in prigione, i cinque catecumeni furono battezzati.
Perpetua e Saturo lasciarono dei fedeli e puntuali resoconti delle sofferenze e dei
patimenti durante la prigionia, del tentativo del padre di Perpetua di indurla
all’apostasia, delle loro visioni e di tutte le vicissitudini prima della loro esecuzione.
Poco dopo la morte dei cinque martiri, un cristiano, probabilmente Tertulliano ha
aggiunto a questi documenti preziosi anche il racconto dell’esecuzione.
(da Wikipedia)
L’incipit del testo è affidato al curatore; costui si premura di dare risalto poi
alla protagonista del racconto, che è Perpetua, la quale scrive in prima
persona, fino al giorno dell’esecuzione.
Furono arrestati dei giovani catecumeni, Revocato e Felicita, sua conserva,
Saturnino e Secundulo, e tra questi anche Vibia Perpetua, di nobile famiglia,
istruita nelle arti liberali e sposata secondo il costume delle matrone: aveva
padre e madre e due fratelli, uno di essi catecumeno come lei, e un figlio, che
prendeva ancora il latte dal suo seno; essa stessa toccava appena i ventidue
anni. A partire da qui, ella stessa narrò punto per punto tutto l’ordine del suo
martirio – e io lo trascrivo così come lo lasciò scritto di sua mano e proprio
sentimento -. Così, dunque, essa racconta.
Quando noi vivevamo fra i nostri persecutori, desiderando mio padre
piegarmi con le sue parole e, spinto dal suo amore, persistendo nel tentativo
di farmi apostatare: “Padre – gli dissi – vedi, ad esempio, questo vaso o
quell’orciolo?”. “Lo vedo”: mi rispose. Io proseguii: “Puoi tu forse chiamarli
con un altro nome diverso da quello che essi sono?”. “No” mi rispose. Ed io
allora gli dissi: “Così non posso io essere chiamata con un nome diverso da
ciò che sono: cristiana”. Mio padre allora, irritato da queste mie parole, mi si
scagliò addosso, come volesse strapparmi gli occhi. Tuttavia si limitò a
maltrattarmi; poi se ne andò, vinto, e portandosi via i suoi diabolici argomenti.
Per quei pochi giorni che mio padre fu assente, ringraziai il Signore, e la sua
assenza mi era di sollievo. Proprio nello spazio di quei pochi giorni fummo
battezzati, e lo Spirito mi suggerì che all’acqua battesimale non avevo da
chiedere altra grazia che la pazienza della carne nelle sofferenze del martirio.
Dopo pochi giorni fummo incarcerati: ebbi tanta paura per-ché non avevo mai
conosciuto tenebre come quelle. O giorno terribile quello! C’era un caldo
soffocante per l’ammucchiamento delle persone; i soldati ci maltrattavano e
io, poi, ero tormentata dal pensiero del piccolo figlio, che avevo dovuto lasciare. Allora Terzo e Pomponio, diaconi benedetti, che ci assistevano,
ottennero, a prezzo d’oro, che per poche ore fossimo messi in un luogo
migliore per poter almeno respirare. Usciti dal carcere, ognuno pensava alle
sue necessità, e io potei allattare il mio bambino che già veniva meno per la
fame. Mentre mi curavo di lui, parlavo con mia madre, confortavo mio fratello
e ad entrambi raccomandavo mio figlio. Ero piena di dolore perché li vedevo
soffrire per causa mia. In queste angustie passai molti giorni; poi ottenni di
poter tenere con me, in carcere, mio figlio. Fui subito risollevata e acquistai
nuove forze per il lavoro e la sollecitudine per mio figlio. Il carcere allora
divenne per me un palazzo, al punto che preferivo rimanervi che trovarmi in
alcun altro posto”.
Seguono nel racconto i tentavi del padre di persuadere i familiari, e in
particolare Perpetua, perché desistano dal loro proposito di professarsi
cristiani: la sua supplica è fatta in presenza del bambino di Perpetua.
Anche Felicita, la serva era in quei giorni incinta e, secondo la legge, le
poteva essere evitata la condanna. Ma in carcere partorì e fu così unita ai
compagni, mentre la sua creatura fu affidata ad una donna. Nelle ore
dell’attesa dell’esecuzione Perpetua racconta di alcune visioni che ha avuto e
che la confermano nel proposito di andare fino in fondo. Arriva il giorno del
martirio: è il 7 marzo 203. Qui interviene il curatore del libro.
Spuntò il giorno della vittoria dei martiri e dal carcere si recarono
all’anfiteatro, come se andassero in cielo, raggianti in volto, dignitosi,
trepidanti più per la gioia che per la paura. Perpetua per prima fu scagliata in
alto dalla vacca e ricadde sul fianco. Così si alzò e, avendo visto Felicita
gettata a terra, le si accostò, le porse la mano e la rialzò. E ambedue stettero
in piedi insieme. Vinta la durezza della folla, furono chiamate alla porta
Sanavivaria, Ivi Perpetua, accolta da un catecumeno di nome Rustico che le
stava accanto, e come destata dal sonno (talmente era fuori dei sensi e rapita
in estasi), cominciò a guardarsi attorno e disse tra lo stupore di tutti: “Quando
saremo esposte là a quella vacca?”. E avendo sentito che ciò era già
avvenuto, non volle crederci prima di aver notato i segni del maltrattamento
sul suo corpo e sul vestito. Quindi fatto chiamare suo fratello e quel
catecumeno li esortò dicendo: “Siate saldi nella fede, amatevi tutti a vicenda
e non prendete occasione di scandalo dalle vostre sofferenze”. A sua volta
Saturo presso un’altra porta stava esortando il soldato Pudente. Disse fra
l’altro: “Insomma, proprio come avevo supposto e predetto, finora non ho
sperimentato nessuna fiera. Ma ora credi di tutto cuore: ecco io vado lag-giù
e sarò finito da un solo morso di leopardo”. E subito, sul finire dello
spettacolo, gettato in pasto al leopardo, con un solo morso fu bagnato di
tanto sangue che il popolo diede testimonianza al suo secondo battesimo gridando: “E’ salvo il lavato! E’ salvo il lavato!”. Davvero era salvo colui che si
era lavato in tal modo! Allora disse al soldato Pudente: “Addio, ricordati della
fede e di me; queste cose non ti turbino, ma ti confermino”. Nello stesso
tempo si fece dare l’anello del suo dito e immersolo nella sua ferita glielo
restituì come eredità, lasciandogli il pegno e il ricordo del suo sangue. Venne
quindi disteso, ormai esanime, insieme con gli altri al solito posto per il colpo
di grazia. E siccome il popolo reclamava che quelli fossero portati in vista del
pubblico al centro dell’anfiteatro, per poter fissare sulle loro membra i suoi
occhi, complici dell’assassinio, mentre la spada penetrava nel loro corpo, essi
si alzarono spontaneamente e si recarono là dove il popolo voleva, dopo
essersi prima baciati per terminare il martirio con questo solenne rito di pace.
Tutti gli altri ricevettero il colpo di spada immobili e in silenzio: tanto più
Saturo, che nella visione di Perpetua era salito per primo, per primo rese lo
spirito. Egli infatti era in attesa di Perpetua. Essa poi per gustare un po’ il
dolore, trafitta nelle ossa, gettò un grido, e lei stessa guidò alla sua gola la
mano incerta del gladiatore, ancora novellino. Forse una donna di tale
grandezza, che era tenuta dallo spirito immondo, non avrebbe potuto morire
diversamente, se non l’avesse voluto lei stessa. O valorosi e beatissimi
martiri! Voi siete davvero i chiamati e gli eletti alla gloria del Signore nostro
Gesù Cristo!
Bisogna riconoscere che il testo presenta accenti delicati, soprattutto quando
si fa riferimento alle due donne, nobili e fiere, e sempre coraggiose nel far
fronte alla brutalità: chi scrive vuole onorarle e additarle ad esempio di grande
eroismo. Le medesime immagini troviamo in S. Ambrogio quando racconta
della tredicenne Agnese, che guida il ferro della spada tenuta in mano dal
giustiziere inesperto. Non si trova qui il gusto morboso di ostentare la
violenza e di insistere sui dettagli più raccapriccianti, come invece si vede nei
testi di secoli successivi infarciti di scene inverosimili. Qui prevale una lettura
indubbiamente poetica, e nel contempo di una forte elevazione spirituale,
come se ci si trovasse in presenza di un rito liturgico, un sacrificio che è
glorificazione.
GLI ATTI DEL MARTIRIO DI S. CIPRIANO
Gli Atti, soprattutto di origine processuale, in modo particolare nel Nord
Africa, diventano un genere letterario, a cui si attinge soprattutto nell’ambito
cristiano per sostenere la testimonianza di fede nei momenti più difficili come
quelli della più virulenta persecuzione. Così, quando scoppia, a più riprese,
nel corso del III secolo si ritiene buona cosa dare risalto, in modo particolare
se sono coinvolti personaggi di un certo rilievo. Alla metà del secolo, sotto gli
imperatori Decio (249-251) e Valeriano (251-258), vengono ricercati e puniti
con la morte i capi della Chiesa, soprattutto papi e vescovi. Più ancora
vengono ricercati coloro che hanno responsabilità amministrative e quindi
hanno il controllo dei beni e del denaro, come erano allora i diaconi. Sul
tesoro della Chiesa punta l’occhio il potere politico, che deve affrontare
guerre contro i barbari ed ha bisogno di denaro per pagare l’esercito. Fra le
numerose figure mette conto qui ricordare i due personaggi più famosi, che
vengono condannati a pochi giorni d distanza l’uno dall’altro: A Roma,
insieme con Papa Sisto II, viene disfatto il corpo diaconale, tra cui S.
Lorenzo, ucciso sulla graticola, dopo aver preso in giro le autorità per aver
distribuito i soldi della Chiesa ai poveri. Il suo martirio avviene il 10 agosto
258. S. Ambrogio ne tesse l’elogio nel suo “De Officiis”. Il 14 settembre 258 a
Cartagine viene decapitato S. Cipriano, vescovo della città, uomo molto ricco e colto, autore di numerose opere, vera gloria della Chiesa africana del III secolo.
Di Cipriano non si hanno notizie circa la nascita e l’infanzia, ma si sa che pro-veniva
da una famiglia agiata. La conversione al cristianesimo avvenne in età matura e il
battesimo fu ricevuto nel 246. Aveva un certo prestigio a Cartagine: dalla biografia
scritta dal diacono Ponzio, si evince che i suoi modi erano dignitosi, ma non severi, e
affettuosi, ma senza cadere nelle effusioni. L’abilità nell’eloquenza gli attirava la
simpatia di tutti e la si riconosce anche nei suoi testi. Una volta convertito, decide di
rimanere celibe e di mettere a disposizione dei poveri i suoi beni. Per le sue qualità
oratorie e per la sua autorevolezza, fu scelto dai cristiani locali come vescovo di
Cartagine. Nello stesso anno, il 249, diventa imperatore Decio che organizza la
persecuzione dei cristiani, puntando ad eliminare i capi. Cipriano decide di tenersi
nascosto e questo sarà per lui causa di tante incomprensioni e giudizi negativi nella
Chiesa. La situazione diventa sempre più difficile sia a Roma sia a Cartagine, dove
scoppiano gli scismi, a partire da personaggi che si oppongono ai legittimi vescovi
locali. (da Wikipedia)
Al deflagrare della persecuzione, dietro suggerimento dei suoi cristiani di
Cartagine Cipriano si nascose per evitare l’arresto. Ne seguì l’accusa di
essersi sottratto per paura, come del resto era avvenuto per tanti. Costoro
vengono definiti “lapsi”, quelli che sono caduti nell’apostasia per evitare il
martirio. Cipriano reagisce sulla questione, sostenendo che costoro
andavano riammessi nella Chiesa, se lo chiedevano, e che comunque non
tutti devono essere accusati e condannati per apostasia. Quando riesplode la
persecuzione, sotto Valeriano, Cipriano non si ritira in campagna, ma affronta
la lotta. Già nei testi che scrive durante la sua missione episcopale, si può
notare l’alto livello morale e culturale dell’uomo, che poi emerge forte e
dignitoso in occasione del martirio, il 14 settembre 258.
Il testo che racconta il martirio non si riduce al solo verbale del processo,
dove le battute riflettono schemi già usati in altri processi analoghi. Sembra
anche poco plausibile che il giudice emani la sentenza a malincuore e nello
stesso tempo si esprima in maniera molto dura nella formula della sentenza,
dove si fa cenno ai peggiori reati di cui Cipriano sarebbe autore e istigatore.
Nella seconda parte della narrazione, quando si descrive il momento della
decapitazione, il tono si eleva e si ha l’impressione di assistere ad una
celebrazione liturgica, nella quale Cipriano è nel contempo sacerdote,
rivestito dei paramenti sacri, e vittima sacrificale, di cui bisogna raccogliere il
sangue, mediante i fazzoletti che sono distesi a questo scopo, destinati a
divenire una reliquia. La formula finale è inoltre la consueta dossologia, usata
nella lettura pubblica, perché il martirio, partecipazione al sacrificio di Cristo è
glorificazione del Padre. Anche per questi particolari bisogna riconoscere che
dal Nord Africa in questo secolo si diffonde questo genere letterario, destinato
a durare nei secoli.
Al mattino del 14 settembre molta folla si era radunata a Sesti secondo
quanto aveva ordinato il proconsole Galerio Massimo. E così lo stesso
proconsole Galerio Massimo ordinò che gli fosse condotto Cipriano
all’udienza che teneva nel medesimo giorno nell’atrio Sauciolo. Quando gli fu
davanti, il proconsole Galerio Massimo disse al vescovo Cipriano: «Tu sei
Tascio Cipriano?». Il vescovo Cipriano rispose: «Sì, sono io». Il proconsole
Galerio Massimo disse: «Sei tu che ti sei presentato come capo di una setta
sacrilega?». Il vescovo Cipriano rispose: «Sono io». Galerio Massimo disse:
«I santissimi imperatori ti ordinano di sacrificare». Il vescovo Cipriano disse:
«Non lo faccio». Il proconsole Galerio Massimo disse: «Rifletti bene». Il ve-
scovo Cipriano disse: «Fa’ ciò che ti è stato ordinato. In una cosa così giusta
non c’è da riflettere». Galerio Massimo, dopo aver conferito con il collegio dei
magistrati, a stento e a malincuore pronunziò questa sentenza: «Tu sei
vissuto a lungo sacrilegamente e ti sei aggregato moltissimi della tua setta
criminale, e ti sei costituito nemico degli déi romani e dei loro sacri riti. I pii e
santissimi imperatori Valeriano e Gallieno Augusti e Valeriano nobilissimo
Cesare non riuscirono a ricondurti all’osservanza delle loro cerimonie
religiose. E perciò, poiché sei risultato autore e istigatore dei peggiori reati,
sarai tu stesso di esempio a coloro che hai associato alle tue scellerate
azioni. Col tuo sangue sarà sancito il rispetto delle leggi». E dette queste
parole, lesse ad alta voce da una tavoletta il decreto: «Ordino che Tascio
Cipriano sia punito con la decapitazione». Il vescovo Cipriano disse:
«Rendiamo grazie a Dio».
Dopo questa sentenza la folla dei fratelli diceva: «Anche noi vogliamo esser
decapitati insieme a lui». Per questo una gran-de agitazione sorse fra i fratelli
e molta folla lo seguì. E così Cipriano fu condotto nella campagna di Sesti e
qui si spogliò del mantello e del cappuccio, si inginocchiò a terra e si prostrò
in orazione al Signore. Si tolse poi la dalmatica e la consegnò ai diaconi,
restando con la sola veste di lino, e così rimase in attesa del carnefice.
Quando poi questo giunse, il vescovo diede ordine ai suoi di dargli
venticinque monete d’oro. Frattanto i fratelli stendevano davanti a lui
pannolini e fazzoletti. Quindi il grande Cipriano con le sue stesse mani si
bendò gli occhi, ma siccome non riusciva a legarsi le cocche del fazzoletto,
intervennero ad aiutarlo il presbitero Giuliano e il suddiacono Giuliano. Così il
vescovo Cipriano subì il martirio e il suo corpo, a causa della curiosità dei
pagani, fu deposto in un luogo vicino dove potesse essere sottratto allo
sguardo indiscreto dei pagani. Di là, durante la notte, fu portato via con
fiaccole e torce accese e accompagnato fino al cimitero del procuratore
Macrobio Candidiano che è nella via delle Capanne presso le piscine. Dopo
pochi giorni il proconsole Galerio Massimo morì. Il santo vescovo Cipriano
subì il martirio il 14 settembre sotto gli imperatori Valeriano e Gallieno,
regnando però il nostro Signore Gesù Cristo a cui è onore e gloria nei secoli.
Amen.
I riferimenti locali, i dettagli della scena, per la quale non si punta sulla
spettacolarità, incline a suscitare commozione, rivelano un testo ben
costruito, che cerca una ricostruzione fedele dell’evento, non una narrazione
fredda come quella dei verbali processuali, ma neppure scandalistica o
teatrale come quella di chi eccede nella morbosità o nella finalità di suscitare
emozioni. Domina invece la padronanza di sé che Cipriano rivela e la grande
ammirazione che pur traspare fra chi assiste, come se partecipasse ad un
rito, segno che ormai questi momenti, come pure i racconti che ne trattano,
diventano controproducenti per i persecutori e stimolanti all’eroismo per i
cristiani. Nasce così una produzione letteraria, che ha trovato un equilibrio
espositivo, molto efficace per gli scopi che si prefigge: in fondo si deve
riconoscere che qui continua la modalità narrativa dei vangeli, dove il
racconto della passione non indulge mai ai sentimenti e ai sentimentalismi, e
a quel genere di spettacolarità che vuol far leva sulla emotività, mentre deve
piuttosto suscitare la fede nel modo giusto e spingere i cristiani a dar prova
dello Spirito che è in loro nei momenti drammatici delle prove.
CONCLUSIONE
Le opere segnalate danno origine ad un nuovo genere letterario che
caratterizza il mondo cristiano: non siamo ancora alla produzione di biografie
di santi, come succede nel IV secolo, con la Vita di S. Antonio ad opera di S.
Atanasio e quella successiva di S. Martino ad opera di Sulpicio Severo. Qui ci
si limita al racconto del martirio, come del resto era successo con il Vangelo,
il cui nucleo essenziale era dato dal racconto della passione di Gesù. In
queste prime opere, che poi creano un genere, affiorano i criteri con cui
devono essere segnalati i santi, ma più ancora i martiri. Avendo compreso
che essi diventano testimoni come esempi da seguire, si ritiene necessario
non solo narrare che cosa sia successo, ma anche descrivere il modo con il
quale essi affrontano il momento drammatico della loro passione: si deve
segnalare che essi nelle situazioni estreme hanno rivelato di possedere lo
Spirito e di essere stati guidati da Lui per dare il meglio di sé. Lo dice a chiare
lettere Tertulliano, con particolare efficacia, in una dialettica stringente che
appare convincente. Rivolgendosi ai martiri stessi è come se volesse parlare
a chi si troverà nella medesima situazione e dovrà rispondere di sé e della
scelta che ha fatto.
Voi siete stati segregati, allontanati dal mondo; ma se pensiamo che il mondo è
un’immensa prigione, noi comprendiamo bene come dovremmo dire che siete
usciti dal carcere, piuttosto che entrati. Maggiori di quelle che non circondino voi
qui, sono le tenebre in cui è avvolto il mondo, e gli animi degli uomini ne sono
turbati e sconvolti; più strette catene delle vostre vincolano e tormentano il
mondo, e le anime degli uomini ne sono dolorosamente oppresse; non è da
codesto vostro carcere, ma è dal mondo che si sollevano i miasmi più
pestilenziali, che sono appunto le sfrenate passioni umane. È il mondo che ha in
sé il maggior numero di colpevoli; il genere umano, nel suo complesso, è degno
di biasimo, e non è il giudizio del Proconsole che il mondo deve temere, ma il
giudizio che scenderà direttamente da Dio. E voi, o eletti, pensate pure d'essere
ormai passati da un carcere a un luogo di ritiro sereno e tranquillo, e se pure la
tenebra vi opprime, voi stessi rappresentate la luce; se vincoli dolorosi vi
stringono, voi ve ne dovete sentire sciolti per opera e per volere di Dio; se da
codesto luogo giungono ai vostri sensi esalazioni non buone, sappiate che siete
voi stessi il profumo d’ogni soavità; voi ora attendete che taluno vi giudichi, ma
sorgerà giorno in cui voi darete il vostro giudizio su coloro che ora sono i giudici
vostri. In codesto carcere provi tristezza ed intimo rincrescimento chi aspira
ancora, chi agogna ai beni del mondo: ma il cristiano, anche fuori del carcere, ha
ormai rinunziato al mondo.
Entrando in prigione, poi, avete sfuggito in certo modo prigionia più dura, che è
appunto il mondo stesso. Non importa nulla affatto in quali condizioni o dove voi
vi troviate nel mondo: voi siete fuori del mondo, ormai! Ammettiamo che veniate
a perdere qualche godimento della vita: ma è sempre un buon affare perdere qualcosa per guadagnare ciò che è di gran lunga superiore: e intendiamoci che
non voglio qui alludere al premio al quale Dio chiama i Martiri suoi. Intanto però
stabiliamo un paragone fra la vita che si conduce nel mondo e quella che si
trascorre in carcere, e vediamo se non ne sia maggiore il vantaggio che ne viene
ad avere il nostro spirito dall'esistenza che vien trascorsa in prigione, che il
danno che ne possa risentire il nostro corpo. Anzi, io potrei dire, se volessi
parlare seguendo norma di giustizia, che il corpo non viene a subirne danno
alcuno. È la Chiesa, nella sua infinita carità, che vi pensa, sono i fratelli di fede
che, nella pietà loro affettuosa, somministrano quanto a lui è necessario: ma lo
spirito invece v'acquista quanto è utile per rafforzare, per rinsaldare fermezza e
saldezza di fede. Non avete contatto o relazione alcuna con quelle che sono le
divinità false e bugiarde; non ti succede mai d'incappare nelle immagini loro;
ecco che non ti trovi nella circostanza di partecipare alle feste che si celebrano in
loro onore, se non altro per trovarti mescolato al popolo festante. Non siete
colpiti da qualche cosa che vi offende o vi nausea; non andate soggetti a
manifestazioni inconsulte di stolto giubilo negli spettacoli che presentano
atrocità d'ogni genere e ogni pazza bestialità o scompostezze o libertà colpose; e
gli occhi vostri infine non sono costretti a fermarsi sulla sentina pubblica di ogni
più turpe e vergognoso vizio. Lontani così siete da ogni fonte di scandalo, da ogni
tentazione, da ogni ricordo vergognoso ed osceno, e anche, ormai, da ogni
persecuzione. È tutto questo complesso di vantaggi che il carcere offre a chi è
cristiano. Non chiamiamo dunque carcere, il vostro; non usiamo un tal nome;
diciamolo piuttosto ritiro. Il corpo, si, vi si trova chiuso, e la carne nostra è
stretta in esso carcere da vincoli dolorosi; ma lo spirito vi è libero, dovunque
esso può spaziare. Può dunque l'animo nostro in tutta libertà andar vagando,
non certo per viali riparati, freschi e ombrosi e per lunghi portici, ma per quella
strada che conduce fino al Signore. E tu, non ti sentirai mica nel carcere, sai,
quando tu volgerai a quella strada, coll'animo tuo, liberamente i tuoi passi. II
piede potrà benissimo essere stretto dalla catena, ma nulla avvertirai, quando
l’animo è in Cielo. È l’animo che trasporta seco l’uomo, interamente: dove esso vuole, lo rapisce. È stato scritto: il tuo cuore sia proprio colà dove sarà il tuo
tesoro; e quindi il nostro cuore voli colà, dove vogliamo che sia riposto il nostro
tesoro.
(Tertulliano, Ad Martyres)