Tra le prime opere redatte nell’ambito cristiano va annoverata anche questa
che risulta essere il primo documento della letteratura “liturgica”, adatto a far conoscere la Chiesa nella sua organizzazione cultuale. È una recente
scoperta, che ha contribuito a sviluppare gli studi nell’ambito della liturgia fin nei primi decenni del Novecento, quando, prima ancora della riforma attuata con il Vaticano II, si studiava e si promuoveva il ritorno alle fonti per un risveglio anche in questo ambito, dove la tradizione veniva concepita come il mantenimento delle posizioni e la conservazione rigida di ciò che si
considerava trasmissione di un passato da mantenere senza mai innovare.
Questo libro si presenta come la segnalazione di modi celebrativi che si
consideravano derivati dai tempi degli apostoli e che si riteneva utile
continuare. Mancando una sorta di “rituale”, un testo cioè di riferimento per le celebrazioni con cui suggerire modalità e formule, e ritenendo doveroso conservare la tradizione per evitare che si lasciasse alla fantasia incontrollata dei celebranti, si ritenne utile elaborare una specie di prontuario. Con esso si riconosce che l’unico modo di evitare espressioni singolari, sia nella maniera di porsi dei celebranti, sia nelle formule di preghiera da lasciare ai singoli o da dire insieme, era quella di offrire un testo di riferimento, dove compaiono anche dei formulari, ma dove soprattutto si danno linee utili per una celebrazione che possa essere conforme a ciò che già si praticava nel secolo degli Apostoli. Il testo viene attribuito al prete Ippolito, vissuto nella prima metà del secolo III, autore di una serie di testi, il cui elenco si trova scolpito sul seggio in cui lo stesso personaggio è riprodotto in una statua marmorea,
ora collocata alla Biblioteca Apostolica Vaticana. In realtà ciò che noi ora
raccogliamo sotto questo titolo ci arriva da diverse parti e quindi anche in
lingue diverse: si ha così la sensazione di trovarci di fronte ad un testo
elaborato e rielaborato che ha comunque una notevole diffusione e che solo
recentemente viene allo scoperto, perché ricerche e studi lo hanno fatto
uscire dal nascondimento in cui si era trovato nel corso dei secoli, superato
da altri manuali. Essendo attribuito ad Ippolito e ormai così riconosciuto a
livello sempre più ampio, si deve ritenere che il testo oggi noto provenga
dall’ambiente romano, e possa dunque essere espressione di questa Chiesa,
anche se non necessariamente qui si deve riconoscere l’origine del rito, che
viene definito “romano” e che di fatto noi oggi vediamo diffuso un po’
ovunque.
L’attribuzione ad Ippolito romano, personaggio piuttosto problematico per
quello che sappiamo di lui, è comunque ormai riconosciuta, anche perché i problemi che si vedono soggiacenti al testo, trovano proprio in questa figura l’elaboratore più chiaro. In relazione al fatto che esistono frammenti dislocati nell’area del Mediterraneo e redazioni in lingue diverse, non è sempre facile raggiungere con assoluta chiarezza e certezza l’archetipo, il testo originario, quello che appunto viene riferito al prete Ippolito.
Il testo così ricostruito è della massima importanza nella storia della liturgia, in quanto rappresenta la più antica raccolta canonica che dopo la Didachè, noi possediamo. Compilata intorno al 215, tale raccolta è coerente con la cieca difesa della tradizione che nell’Elenchos porta Ippolito a opporsi a qualsiasi innovazione, e con la concezione aristocratica che egli ha della Chiesa come assemblea di santi, eredi fedeli e rispettosi dei principi apostolici. Proprio perché questi principi siano ben conosciuti e praticati, egli se ne fa espositore nella Tradizione Apostolica, convinto che il possesso della verità impedisce errori ed eresie, le quali si moltiplicano allorquando tale possesso manca e chi è a capo della Chiesa sostituisce il suo arbitrio alla legge degli Apostoli. Viene spontaneo riconoscere nel capo che volutamente ignora la tradizione, e di conseguenza diviene facile preda di errori ed eresie, il povero Callisto, ancora una volta vittima dell’odio di Ippolito, ma forse l’accusa di ignoranza si addice maggiormente a Zefirino, uomo semplice e onesto, ma poco esperto di sottigliezze teologiche ed e evangeliche. (Tateo p. 29-30)
Si deve dunque ritenere che un simile testo non sia solo determinante per
seguire la nascita e l’evoluzione delle forme e delle formule liturgiche, ma è
pure il riflesso di una serie di problemi emergenti nel medesimo momento in cui esso vede la luce e altrettanto della secolare questione che sempre
affiora nel cammino della Chiesa, soprattutto quando deve fare affidamento
sulla sua tradizione. Qui non sembra che vi sia solo la fissazione di formule e
di schemi celebrativi, che già all’inizio si impongono come normativi per
comprimere sempre più la creatività, mai del tutto espunta nelle liturgie; qui si danno indicazioni perché il nucleo della tradizione si mantenga, senza che la ripetizione ossessiva limiti o impedisca quel genere di servizio a Dio che è proprio della liturgia stessa. Ovviamente qui si deve registrare una modalità che è propria dell’ambiente romano, se lo dobbiamo ritenere opera di questo prete; e nel contempo, per la sua diffusione in varie redazioni linguistiche, deve essere considerato un esempio, con cui non viene impedita la creatività, ma viene aiutata a conservarsi la consegna ricevuta dalla tradizione.
LA CHIESA NEL III SECOLO
L’immagine che si ha della prima Chiesa, già squassata dalle eresie e dalle
persecuzioni, è quella di un mondo sociale che sembra attecchire fra le classi più deboli, anche perché il messaggio di liberazione e di assicurazione di un mondo più vero e più giusto lascia un segno indelebile in chi scopre di non avere spazio, di non trovare i giusti riconoscimenti, di vedere sempre più buio e senza speranza il proprio futuro. La persecuzione sembra voler stroncare ogni possibilità di riscatto per un vivere migliore, che si pensa di raggiungere con la conversione. E si ha l’impressione che l’adesione rimanga circoscritta alla fasce più disagiate della popolazione. Ma non sempre è così, e non dappertutto. Già Paolo cerca contatti con chi ha mezzi di sostentamento, come pure, nel discorso tenuto ad Atene, dimostra di voler parlare alla pari con un certo mondo culturale. E tuttavia i risultati non sembrano affatto lusinghieri. Nel II secolo qualcosa si muove: con Giustino si avvia il tentativo di presentarsi più credibili a chi conserva il pregiudizio e ha bisogno di vedere sfatate tante dicerie. Nel contempo il pullulare di eresie e di situazioni in cui affiora la debolezza e si afferma l’apostasia, suggerisce il lavoro di chiarimento, mai del tutto raggiunto per le tensioni che affiorano tra i rigorosi e i lassisti, fra quelli che esigono la dottrina e la morale ben ferme, e nel contempo il riconoscimento che la Chiesa non può essere costituita dai duri e dai puri, ma debba accogliere anche i deboli e coloro che sbagliano.
Unfenomeno simile esplode ai primi anni del III secolo e richiede riflessioni
approfondite e documenti chiarificatori. Così, accanto alle persecuzioni che
un po’ dovunque si scatenano e in presenza di eresie che affiorano in un
concatenarsi di idee spesso peregrine, tali comunque da mettere gli uni
contro gli altri senza che si possa trovare una voce autorevole per dare
chiarimenti solidi, ci si trova in presenza di una divisione nella Chiesa che non è facile contenere e disperdere, soprattutto se le persone che dovrebbero essere le autorità e avere anche una certa autorevolezza riconosciuta, contribuiscono ad infiammare la discussione e a creare ulteriori contrasti. Tra la fine del secolo II e gli inizi del III la Chiesa si presenta divisa con figure di pontefici che invece di sanare i contrasti e di favorire il dialogo e l’intesa si presentano deboli o non sufficientemente autorevoli nell’intervenire circa la dottrina.
Papa Vittore I (189-199) affrontò la questione annosa della data della
Pasqua, senza che si potesse arrivare ad una soluzione unitaria, che non fu
mai possibile. Ebbe pure la questione della vera natura di Cristo, che veniva
considerato adottato da Dio come Figlio; l’occidente, per quanto si creassero certe posizioni divergenti dalla prassi comune, fu comunque conservato nell’ortodossia. Il successore è Zefirino (199-217), considerato dall’autore della Traditio, Ippolito, come poco istruito e quindi inadatto al ruolo che doveva svolgere nella conferma della fede. In effetti esplosero varie eresie, tutte legate alla figura del Verbo, il quale appariva come una specie di demiurgo fra Dio e gli uomini. Il suo essere divenuto uomo è semplicemente una modalità con cui Dio si presenta, da intendere come un rivestimento dell’umanità che in tal modo non partecipa e non si integra con la sua natura divina. Ippolito, che vantava, rispetto al Papa, una certa preminenza teologica, si fece sempre più critico, soprattutto quando quest’ultimo scelse come suo diacono Callisto, che gli succedette come Vescovo di Roma.
Essere diacono allora voleva dire avere compiti di governo, soprattutto
nell’ambito economico ed amministrativo. Callisto (217-222) è conosciuto
grazie a ciò che Ippolito scrive sul suo conto. Essendo il suo rivale,
ovviamente viene presentato in termini negativi: Callisto era uno schiavo che aveva dimestichezza col denaro, usato da lui con una certa disinvoltura, non senza l’accusa di pensare al proprio benessere a scapito di chi lui raggirava, carpendone la fiducia. Nonostante i trascorsi poco lusinghieri, e comunque, dopo aver passato anni in galera, si trovò a godere della fiducia di Zefirino, il quale lo incaricò di sistemare le catacombe sulla via Appia, che poi presero il suo nome. Ebbe contro Ippolito; e costui non si limitò a dare un pessimo giudizio nei suoi scritti, ma lo ostacolò nel governo, diventando l’antipapa.
In una sua opera, “Philosophumena” ha un giudizio molto duro nei confronti di Zefirino e di Callisto, tacciandoli di eresia
A quel tempo, Zefirino immagina di amministrare gli affari della Chiesa, un
uomo disinformato e vergognosamente corrotto. Ed egli, persuaso dal
guadagno offerto, era solito essere connivente con coloro che erano presenti allo scopo di diventare discepoli di Cleomene. Ma (Zefirino) stesso, essendo col passare del tempo attirato, si precipitò a capofitto nelle medesime opinioni; e aveva Callisto come suo consigliere, e un compagno di difesa di queste dottrine perverse. Ma di Callisto parlerò più avanti.
La scuola di questi eretici, durante la successione di tali vescovi, continuò ad
acquisire forza e accrescimento, dal fatto che Zefirino e Callisto li aiutarono a prevalere. Mai, però, ci siamo resi colpevoli di collusione con loro; ma spesso abbiamo opposto loro resistenza, li abbiamo confutati e li abbiamo costretti a riconoscere la verità. Ed essi, imbarazzati e costretti dalla verità, hanno confessato i loro errori per un breve periodo, ma dopo un po' sguazzano ancora una volta nello stesso fango.
Anche un breve riassunto delle vicende di questo periodo dice che la Chiesa
conobbe un certo sbandamento; solo a motivo della persecuzione si
addivenne ad una tregua e a forme di accomodamento. Nello stesso tempo si
avvertiva la necessità di operare dei chiarimenti e di offrire una immagine di
comunione, soprattutto nel campo dell’attività pastorale che doveva servire
ad una migliore organizzazione della Chiesa. La Traditio Apostolica si
inserisce bene in questa prospettiva, perché non è semplicemente un
manuale di liturgia per le celebrazioni, ma diventa anche una indicazione per meglio organizzare i quadri della Chiesa. Il personaggio centrale di questo periodo piuttosto confuso e con fonti documentarie tutte da ripercorrere e chiarire, è Ippolito, definito come prete romano e destinato a rivestire un ruolo non indifferente sia come scrittore, sia come referente istituzionale, anche a trovarsi fuori e dentro la Chiesa.
IPPOLITO ROMANO
Con questo nome si è designato l’autore di varie opere tra cui la Traditio,
anche se oggi gli studiosi appaiono non tutti d’accordo, per le controverse
posizioni sulle quali egli si sarebbe attestato in mezzo alle dispute del tempo.
Accanito oppositore delle eresie allora diffuse e denigratore di Papa Zefirino e del suo collaboratore e successore Callisto, si trovò a contrastare l’elezione di Callisto, divenendo antipapa. Tale rimase fino a Papa Ponziano (230-235).
Con lui si trovò condannato “ad metalla”, o lavori forzati in Sardegna,
subendovi il martirio. Riconciliato con Ponziano e addirittura a lui associato
nel culto giunto fino a noi, diventa una figura di spicco, anche se oggi le
notizie che lo riguardano sono tutte da rivede-re. D’altra parte anche i testi a lui attribuiti ci rivelano un uomo della tradizione, che vuole raccogliere tutto il materiale in uso nelle chiese, sia per evitare interpretazioni soggettive, sia per assicurare ciò che ormai si può già definire una consegna del passato da conservare.
IPPOLITO ROMANO SU UNA GUGLIA DEL DUOMO DI MILANO
Insomma, la figura è piuttosto controversa, ma nel contempo essa emerge
perché la sua operetta ebbe una forte risonanza, al punto da giungere fino a
noi. C’è da rimanere sorpresi che egli, scismatico e antipapa, sia entrato
nell’albo dei santi, nel Martirologio e nel Canone romano. È dunque una
figura notevole, se non altro perché lui stesso riflette nella sua controversa
fisionomia, un periodo oscillante, che anche grazie alle sue opere vede la
Chiesa riprendersi per il lavoro svolto da quest’uomo. La sua fama lo rivela
come santo, ma più ancora come scrittore di notevoli doti.
LA TRADITIO APOSTOLICA
Ciò che si dice dell’autore vale anche per le sue opere: esse trattano vari
argomenti, legati proprio al periodo controverso in cui si è trovato ad operare.
Quella più nota e diffusa tratta di questioni che noi dobbiamo riconoscere
appartenenti all’ambito liturgico e nello stesso tempo aiutano a comprendere come si sia evoluta l’organizzazione della Chiesa, per rispondere alle esigenze del momento, tenuto conto che essa conosce difficoltà interne e continui attacchi dall’esterno soprattutto per lo scoppiare delle persecuzioni, che nel III secolo appaiono meglio organizzate, se non altro perché puntano a colpire la gerarchia. Il libro della Traditio offre in maniera essenziale un apparato di preghiere per varie circostanze, con l’indicazione dove collocarle e nello stesso tempo come usarle: il formulario proposto deve servire soprattutto a chi non ha la fantasia per costruire un apparato simile, ma anche per evitare che si giunga a testi discutibili. Si costruisce così una tradizione che viene fatta risalire al periodo apostolico, anche se alcuni di essi
appaiono per la prima volta. Suggerendo le preghiere si dice anche quando
devono essere recitate e come esse possano assumere una connotazione
normativa, perché di fatto ci si uni-formi a questi esempi. Sono indicate pure le persone che fanno parte dell’apparato liturgico, comprese le donne con specifiche funzioni, anche se esse non risultano occupare posti di
responsabilità. Sulla base del contenuto si può ritenere un libro rituale, utile
soprattutto per chi ha compiti di presidenza nelle assemblee dove si prega
insieme. Ma esso è anche di più, perché lascia supporre che si volesse
verificare come le diverse sinassi liturgiche si dovevano svolgere per
contribuire a dare una struttura più solida alla Chiesa stessa. Serve alla
gerarchia, ma non è meno utile alle assemblee per codificare ciò che la
Chiesa è chiamata a fare e ad essere dentro un mondo in continua
evoluzione e a cui si deve presentare una struttura ben compaginata nella
sua organizzazione e nelle celebrazioni.
… Ippolito ne inizia la trattazione descrivendo il cerimoniale, mediante il quale si assurge ai vari gradi della gerarchia ecclesiale, e distinguendo in ordinazione e istituzione. La prima, cui è sempre connessa l’imposizione delle mani, è riservata al clero (vescovi, sacerdoti, diaconi) che svolge un vero e proprio ufficio liturgico; la seconda, invece, consiste nel riconoscere uno stato di fatto (vergini, guaritori), nel dare un titolo (vedove) o nell’affidare un compito (lettore, suddiacono). Questa distinzione tra ceirotonia e katastasis testimonia due tradizioni diverse accolte nell’ambito cristiano; il secondo termine, di uso comune nel mondo greco fin dai tempi di Solone, indica il conferimento di un compito da svolgere al servizio della comunità, il primo di derivazione giudaica, conferisce, mediante l’imposi-zione sacramentale delle mani, la consacrazione necessaria per compiere una liturgia, cioè una funzione speciale in un culto di divina istituzione. (Tateo, p. 30-31)
LA GERARCHIA: IL VESCOVO
Si può dire che in questo libretto, venendo messi in evidenza i ministeri, dati mediante l’imposizione delle mani, e i servizi funzionali, riservati ad alcuni mediante un incarico, mette al centro la struttura gerarchica della Chiesa: qui assume una sua più precisa caratterizzazione, forse anche perché a Roma occorreva dare risalto a strutture gerarchiche più che a carismi spirituali. La Traditio fa passare come tradizione da far risalire agli apostoli un sistema di governo composito che poi si cristallizza con istituzioni vere e proprie. Esse sono regolate mediante l’imposizione delle mani derivate dalle modalità già previste nello schema liturgico ebraico. Così il testo in esame rappresenta l’avvio di un sistema sempre più consolidato e da consolidare ulteriormente mediante queste indicazioni che appaiono rituali, e che vanno oltre, nel dare origine a qualcosa di istituzionale e quindi di più solido e rigido anche per il
futuro. Per il modo con cui è nato e si presenta all’inizio del III secolo,
dovremmo dire che il libro serve come manuale liturgico, ma, probabilmente già in corso d’opera, diventa anche qualcosa d’altro, favorendo una strutturazione gerarchica, anche se nelle formule consacratorie sembra avere il sopravvento la comunicazione di tipo “spirituale”. L’intento più convinto e convincente nella linea di presentare i singoli ministeri nella Chiesa con preghiere evocative dello Spirito e nello stesso tempo significative per costituire organi gerarchici, è dato dallo stesso prologo del libro …
Abbiamo ormai parlato esaurientemente dei doni che Dio fin da principio ha
elargito agli uomini secondo la sua volontà, per ricondurre a sé quella
immagine che da lui si era allontanata. Ora, mossi da spirito di carità verso
tutti i santi, siamo giunti ad esporre l’essenza della tradizione su cui la Chiesa deve basarsi, affinché quanti saranno ben istruiti sulla tradizione finora conservata, seguendo la nostra esposizione, la mantengano in vita, siano resi più sicuri dalla sua conoscenza ed evitino l’errore in cui si è caduti di recente per ignoranza e per colpa degli ignoranti. Lo Spirito Santo, infatti, concede a coloro che hanno una retta fede la grazia perfetta di sapere in che modo coloro che sono a capo della Chiesa debbano insegnare e salvaguardarel’intera tradizione. (Traditio, p. 59-60)
È del tutto evidente che l’autore ha un intento polemico: qui l’errore, da lui
segnalato, è quello che addirittura verrebbe dallo stesso vertice della
gerarchia ecclesiastica di allora, perché c’è una colpa di mezzo che viene
attribuita ad “ignoranti”: così sono definiti i Papi Zefirino e Callisto e coloro
che ne seguono le idee e le traducono in essere con le loro scelte.
Ippolito invece ritiene di essere nel giusto, facendo appello ad una tradizione di cui egli si ritiene il custode e il difensore. Sulla base di queste dichiarazioni, dovremmo pensare che si sia in presenza di un conservatore che tutela il sistema ormai consolidato contro gli innovatori, soprattutto se costoro, come Callisto, appaiono piuttosto disinvolti nelle loro manovre. Dato che i documenti che ci parlano delle polemiche di questo periodo appaiono dominati da prese di posizione di parte e da critiche ed accuse che risultano piuttosto pesanti, si fatica non poco a trovare il punto di equilibrio. Se l’autore del libro è quello stesso Ippolito che troviamo poi come antipapa, si deve supporre che nelle sue premesse abbia il sopravvento l’intento polemico. E riconoscendo che poi lo scisma rientra e che si addiviene alla pacificazione e al riconoscimento della santità di tutti i protagonisti della vicenda, allora il contenuto del libro, soprattutto nella parte che ci documenta i testi di preghiera, è pur sempre accettabile ed anche più che mai utile per convogliare tutto il materiale liturgico che passa alle generazioni successive e arriva fino a noi. Oggi la discussione sul libro porta a considerarlo come un testo da prendere con le dovute cautele; invece, in precedenza gli si dava molta importanza in riferimento alle indicazioni liturgico-cultuali che venivano considerate ormai accolte e praticate un po’ ovunque. Di qui la possibilità di individuare le figure sempre più marcate delle istituzioni gerarchiche, a partire
dal vescovo, che appare effettivamente il protagonista riconosciuto della
Chiesa e del-le diverse Chiese. È interessante ciò che si dice della sua
consacrazione …
Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, purché sia
irreprensibile. Si farà il nome del prescelto e, se esso incontrerà unanimità di consensi, si riuniranno, di domenica, il popolo, il collegio dei presbiteri e i vescovi presenti. Questi ultimi, con consenso di tutti, impongano le mani
sull’eletto, mentre i presbiteri assistano senza far nulla. Tutti tacciano, ma
preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito Santo. Poi uno dei vescovi
presenti, a richiesta di tutti, imponga la mano su colui che riceve l’ordinazione episcopale e preghi dicendo:
« Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie, Dio di
ogni consolazione che abiti nell’alto dei cieli e guardi ciò che è umile, che
conosci tutte le cose prima ancora che esistano, che hai dato le leggi alla
Chiesa per mezzo della parola della tua grazia, che fin dal principio hai
predestinato la razza dei giusti discendenti da Abramo e hai istituito capi e presbiteri e provveduto a che il tuo culto non mancasse
mai di ministri, che sin dall’inizio dei tempi ti sei compiaciuto di essere
glorificato da coloro che hai scelto: effondi ora la potenza – che solo da Te
può venire – dello Spirito sovrano che tu hai dato al tuo diletto figlio Gesù
Cristo e questi ai santi apostoli, i quali fondarono in ogni luogo la Chiesa
come tuo santuario a gloria e lode eterna del tuo nome. Concedi, Padre che
conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l’episcopato, di pascolare il
tuo santo gregge, di esercitare, in maniera irreprensibile e in tuo onore, la
massima dignità sacerdotale stando al tuo servizio giorno e notte, di rendere il tuo volto incessantemente propizio, di offrirti i doni della tua santa Chiesa, di avere, in virtù dello Spirito del sommo sacerdozio, il potere di rimettere i peccati secondo il tuo comando, di distribuire i compiti secondo la tua volontà e di sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli apostoli, di esserti accetto per la mansuetudine del suo spirito e la purezza del suo cuore, di offrirti il profumo della soavità, per mezzo di Gesù Cristo tuo figlio, per il quale hai gloria, potenza e onore, Padre e Figlio con lo Spirito Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen». (Traditio, p. 60-62)
Nella descrizione dell’organizzazione ideale della Chiesa cristiana la
ceirotonia del vescovo è la prima cerimonia in ordine di esposizione e anche
la più complessa e interessante fra tutte. Essa prevede una precedente scelta, popolare ed unanime, della persona da elevare alla dignità vescovile. Poi, di domenica, in una riunione solenne del popolo e del clero, alla presenza dei vescovi convenuti da altre chiese, si procede all’ordinazione. I vescovi impongono le mani sul capo del neoeletto, mentre tutti pregano in silenzio perché discenda su di lui lo Spirito Santo. Solo uno dei vescovi articola oralmente la muta preghiera degli astanti: una preghiera che ha un’introduzione iniziale biblica, ma poi si rivolge soprattutto come invocazione alla divinità, perché lo Spirito guidi il nuovo ministro nello svolgimento dei compiti che lo attendono. In un linguaggio sintetico e concreto, assai vicino alle formulazioni bibliche, dapprima viene svolta l’idea che è a fondamento di tutta la tradizione
liturgica cristiana primitiva, secondo la quale Dio stesso ha istituito e
organizzato il culto che gli è dovuto. (Tateo, p. 31)
In effetti questo principio viene continuamente ribadito in relazione ai testi
liturgici: essi inizialmente erano affidati all’iniziativa del celebrante con la
formula “per quanto gli è possibile”; poi, anche per la presenza di formulari
che potevano prestare il fianco a interpretazioni soggettive e persino eretiche, si fa strada la proposta di un testo che pur sembra un esempio da seguire, più che una formula fissa e inalterabile.
Quando si fa strada l’idea che sia meglio un formulario stabile, allora a
giustificazione si sottolinea che sia meglio così, perché la liturgia va
considerata un riflesso di ciò che avviene davanti a Dio, secondo quanto si
trova indicato nei testi fondamentali della Bibbia, nei quali abbiamo formule e riti delle celebrazioni ebraiche che si fanno derivare da Dio e che proprio per questo non possono subire trasformazioni.
LA PREGHIERA EUCARISTICA
Anche la cosiddetta preghiera eucaristica, che di seguito viene suggerita,
rientra in questo genere di percorso: era affidata al celebrante; poi si fissa in
uno schema che sarebbe dovuto essere indicativo ed entra così nell’uso,
finché non viene fissato un “canone” come quello che fino all’ultima riforma liturgica era la sola preghiera eucaristica in campo. Questa della Traditio viene recuperata in occasione della scrittura del nuovo Messale subentrato a quello tridentino, per dare origine alla riforma liturgica del Vaticano II. In effetti la II preghiera eucaristica, che per la sua brevità appare quella più facilmente usata, deriva dal testo qui segnalato.
Dopo che è stato ordinato vescovo, tutti lo salutino e gli diano il bacio della
pace, poiché ne è diventato degno. I diaconi gli porgano l’offerta ed egli,
imponendo su di essa le mani insieme con tutti i presbiteri, renda grazie
dicendo: «Il Signore sia con voi». Tutti rispondano: «E con il tuo spirito». «In alto i cuori». «Li teniamo rivolti al Signore». «Ringraziamo il Signore». «È cosa degna e giusta». E continui: «Ti ringraziamo, o Dio, per mezzo del tuo diletto figlio Gesù Cristo, che in questi ultimi tempi ci hai inviato come
salvatore, redentore e messaggero della tua volontà, che è il tuo Verbo
inseparabile, per mezzo del quale hai creato tutte le cose e nel quale hai
riposto la sua compiacenza, che hai mandato dal cielo nel seno di una
Vergine ed è stato concepito, si è incarnato e si è manifestato come figlio tuo, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. Per compiere la tua volontà e per conquistarti un popolo santo, Egli ha teso le mani nella passione per liberare dalla sofferenza coloro che hanno fiducia in te. E, accettando volontariamente la sofferenza per distruggere la morte, spezzare le catene del demonio, schiacciare l’inferno, illuminare i giusti, confermare il testamento e manifestare la risurrezione, prendendo il pane ti rese grazie e disse:
“Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che sarà spezzato per voi”.
Lo stesso fece con il calice dicendo: “Questo è il mio sangue che verrà
sparso per voi. Quando fate questo, fatelo in memoria di me”. Ricordando
dunque la sua morte e la sua risurrezione, noi ti offriamo il pane e il calice e ti ringraziamo d’averci giudicati degni di stare alla tua presenza e di servirti.
Inoltre ti preghiamo di inviare il tuo Spirito Santo sull’offerta della santa
Chiesa, di dare unità a tutti coloro che vi partecipano e di concedere loro di
essere riempiti dello Spirito Santo e forti-ficati nella fede della verità, affinché ti lodiamo e ti glorifichiamo per Gesù Cristo tuo figlio, per il quale tu, Padre e Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, hai onore e gloria ora e nei secoli dei secoli. Amen»
Se si offre olio, renda grazie come nell’offerta del pane e del vino,
adoperando non proprio le stesse parole, ma nello stesso senso: «Come
santificando quest’olio, con il quale hai unto re, presbiteri e tu dai salvezza a coloro che lo ricevono e se ne ungono, così esso porti conforto a coloro che
lo gustano e salute a coloro che lo usano». Allo stesso modo, se si offrono
formaggio e olive, dica: «Santifica questo latte che è stato cagliato unendo anche noi alla tua carità. Fa’ che non si allontani dalla tua dolcezza questo frutto dell’olivo che è simbolo dell’abbondanza, quella stessa che dal legno hai fatto fluire in vita per coloro che sperano in te». In ogni benedizione si dica: «Gloria a te, Padre e Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e sempre in tutti i secoli dei secoli. Amen ». (Traditio, p. 63-65) In questi passi abbiamo ciò che è più noto di tutto il libretto: la consacrazione del vescovo e di seguito la celebrazione dell’eucaristia con la presentazione della preghiera eucaristica, che possiede gli elementi essenziali di ciò che noi riconosciamo anche oggi come la preghiera centrale della sinassi liturgica.
Anche a non prevedere il “Sanctus”, che separa il prefazio (cioè l’introduzione al grande rendimento di grazie) e la preghiera eucaristica propriamente detta con le parole della consacrazione, essa è a tutti gli effetti ciò che poi viene indicato come il “canone”, cioè la regola, e quindi il testo nella sua essenzialità, che stabilisce il nucleo centrale della messa. Si deve altresì riconoscere che un simile testo viene proposto perché sia detto dal vescovo e come tale finisce per diventare il riferimento a cui la Chiesa si attiene nella celebrazione eucaristica.
Questo breve dialogo introduce la preghiera eucaristica. La quale, prendendo avvio dall’espressione iniziale “Ringraziamo il Signore”, si svolge come una vera e propria azione di grazie. (…)
L’autore non si sofferma sulla creazione né sulla storia della salvezza quale si delinea nel Vecchio Testamento, ma concentra la sua attenzione sui misteri del Cristo che appare il mezzo attraverso cui si manifestano e attuano la potenza creativa e la volontà del Padre, il Verbo inseparabile in cui è riposta la divina compiacenza e che è inviato dal cielo sulla terra per manifestarsi quale figlio di Dio. Della vicenda terrena del Cristo si ricorda la nascita dallo Spirito santo e dalla Vergine, ma si sottolinea la passione volontariamente accettata per sconfiggere la morte, annientare le forze del male e portare luce e conferma alla salvezza promessa, e si narra l’istituzione eucaristica mediante le parole pronunciate dallo stesso Redentore. Seguono poi, nella preghiera che conclude
con il racconto dell’ultima cena le rievocazioni evangeliche, l’anamnesi (memoria della passione) e l’epiclesi (invocazione dello Spirito): cioè il celebrante mette in evidenza il valore commemorativo e sacrificale della sua azione eucaristica e invoca lo Spirito affinché discenda sulle offerte, dia unità alla Chiesa e riempia di sé i credenti, fortificandoli nella fede e nella verità. La preghiera termina con una dossologia (glorificazione) che ne ribadisce il tono unitario e trinitario poiché l’azione di ringraziamento non solo non è interrotta dal Sanctus o da altre forme di transizione, ma invoca inizialmente il Padre per concentrarsi sulla figura del Figlio e chiudere, infine, con l’intervento dello Spirito Santo come fattore di unità
e di santificazione. Il tema eucaristico finisce, quindi, con identificarsi con quello trinitario e soteriologico (= costruito sul tema della salvezza) … (Tateo, p. 34-35)
Si è discusso e si continua discutere sul testo che ci dà la formula della
consacrazione del vescovo e, di seguito, della consacrazione eucaristica,
perché ci si domanda se tali formule siano da considerarsi fisse e quindi da
usarsi nelle celebrazioni senza modifiche e soprattutto da appartenere a tutta la Chiesa o solo a quella che qui si riconosce, se proviene dall’ambiente
romano. È vero che oggi il formulario della preghiera eucaristica, con le
opportune e doverose modifiche di adattamento, è stato recuperato; ma non
va dimenticato che per secoli esso era archiviato come retaggio del passato.
Perciò si dovrebbe riconoscere che anche su questo terreno sono sempre
possibili nuove formule, superando la rigidità in cui è stata collocata la liturgia con i suoi testi che dovrebbero essere considerati il riflesso della liturgia celeste. L’esigenza di assicurare testi comunemente accettati e comprensibili a tutti, non deve comunque portare a rigidità come è sempre stato nel passato e come si tende ancora oggi a reclamare. Non sembra che Ippolito abbia voluto scrivere su una simile questione per imporre uno schema.
Certamente vuole fornire un testo di riferimento, soprattutto se manca non
solo la fantasia celebrativa, ma più ancora la chiarezza dottrinale; questo
però non deve impedire che possano nascere altri testi e quindi anche altre
forme celebrative, come quelle che troviamo in altri riti diversi da quello
romano, che si è imposto un po’ ovunque.
Con le due preghiere, di consacrazione del vescovo e di ringraziamento sulle
offerte, Ippolito non intende dare un testo liturgico ben preciso, da rispettare con il solito rigore, ma un semplice canovaccio, un modello cui rifarsi quando si deve procedere all’ordinazione degli altri membri del clero (sacerdoti, diaconi, confessori) o alla benedizione di altre offerte (olio, formaggio, olive). In questi casi, difatti, non è necessario ripetere le precedenti preghiere, ma rispettare il senso, in uno sforzo non mnemonico, ma di rielaborazione personale. Questa libertà d’improvvisazione, che peraltro non esclude la possibilità di avvalersi di un testo preparato con molta cura in precedenza, trova limitazione solo nelle
capacità personali del celebrante e nell’esattezza dottrinale dei concetti: la
preghiera può essere lunga o breve, elegante o disadorna, elevata o modesta, l’importante è che sia corretta e conforme all’ortodossia. D’altra parte tale libertà testimonia l’arcaicità di una liturgia in fieri che non si è ancora immobilizzata in formulari fissi e risulta ogni volta, in quanto spontanea interpretazione di motivi tradizionali, nuova e nello stesso tempo coerente con se stessa. Tuttavia non solo le preghiere, ma anche i criteri con cui si procede all’elezione e alla consacrazione del vescovo, hanno valore esemplare, in quanto Ippolito non dà nuove norme per la scelta e l’ordinazione degli altri ministri del culto, ma pone in evidenza solo i momenti e gli elementi che differiscono dal primo cerimoniale. A conclusione di essa, vescovo, sacerdoti e diaconi partecipano all’azione liturgica, allorché i diaconi presentano l’offerta dei fedeli e
il vescovo vi impone le mani insieme con i sacerdoti e recita le parole
eucaristiche. Ne deriva una concelebrazione che ben esprime l’unità organica della Chiesa, poiché anche il popolo s’associa, con la sua attenta presenza, all’offerta eucaristica: concelebrazione viva e organizzata che inserisce i laici nella gerarchia sacerdotale della Chiesa come un ordine comune da cui il clero si distingue in virtù delle sue funzioni specializzate. All’apice di questo corpo sacerdotale unico è il vescovo, o sommo sacerdote, intorno a cui fanno corona i sacerdoti semplici. (Tateo, p. 35-37)
La Traditio è famosa soprattutto come manuale liturgico. In realtà essa non si riduce a questo, perché nel presentare le figure più importanti della comunità, che non si esauriscono in quelle gerarchiche derivate dall’ordinazione o imposizione delle mani, si dà pure spazio a quel genere di funzioni che arricchisce il sistema organizzativo della Chiesa e rende gli stessi laici non solo fruitori del culto e dei misteri, ma essi pure
spettatori protagonisti. Così si possono trovare anche altre figure collaterali ai capi, con funzioni che ancora oggi si cerca di recuperare: le vedove, che già S. Paolo aveva istituito in un catalogo apposito, e che sembra avessero un ruolo decisivo per i ritrovi nelle case e quindi per le celebrazioni liturgiche che ancora non trovavano un luogo pubblico dove essere gestite. Si parla pure del lettore, della vergine, del suddiacono e del guaritore … Probabilmente sono alcune delle istituzioni riconosciute allora, che potevano avere anche altre espressioni qui non segnalate.
Quando si istituisce una vedova, questa non riceva un’ordinazione, ma solo il titolo. L’istituzione avvenga se la donna ha perduto il marito da molto tempo; ma se da poco, non si abbia fiducia in lei. Se la donna è attempata, la si tenga in prova per qualche tempo, poiché spesso le passioni invecchiano
insieme con colui che fa loro posto nel proprio intimo. La vedova venga
istituita con la sola parola e poi venga unita alle altre. Non le si faccia
l’imposizione, in quanto ella non fa l’offerta né assume alcun compito
liturgico. Del resto, l’ordinazione è limitata al clero che svolge un ufficio
liturgico, mentre la vedova è istituita per la preghiera che è dovere di tutti. Il
lettore viene istituito nell’atto in cui il vescovo gli consegna il libro: non gli si fa, infatti, l’imposizione delle mani. Non si imponga la mano sulla vergine: è unicamente la sua decisione che la fa vergine. Non si imponga la mano sul suddiacono, ma lo si nomini perché sia al servizio del diacono. Se uno dice: « Ho ricevuto il dono della guarigione in una rivelazione », non gli si faccia l’imposizione. I fatti stessi dimostreranno se ha detto la verità.
(Traditio, p. 73-75)
Essi costituiscono il segnale di una comunità che prevedeva figure diverse
con prestazioni particolari sulla base di bisogni o di riconoscimenti in
relazione agli sviluppi possibili sul luogo. Non dobbiamo pensare che il libro
imponga solo queste figure, ma che, segnalando queste, voglia suggerire di
far emergere altro sulla base della situazione propria di ogni comunità. Poi si danno indicazioni anche sulla formazione di coloro che chiedono di
partecipare alla comunità: l’allargamento della Chiesa, in un tempo nel quale le persecuzioni non impedivano di avere nuove ade-sioni, doveva essere ben strutturato, perché i nuovi adepti fossero ben verificati con una preparazione adeguata e con un percorso iniziale che doveva prevedere figure di catechisti e di padrini o madrine in grado di seguire chi voleva entrare a far parte della Chiesa.
Il pullulare di eresie e la fragilità di coloro che facilmente si lasciavano andare all’apostasia con l’infuriare delle persecuzioni richiedeva un lavoro di preparazione molto solido.
Coloro che si presentano per la prima volta ad ascoltare la parola, siano
subito condotti alla presenza dei dottori, prima che il popolo arrivi, e sia loro chiesto il motivo per cui si accostano alla fede. Coloro che li hanno condotti testimonino se sono in grado di ascoltare. Siano interrogati sul loro stato di vita: Hanno moglie? Sono schiavi? Se uno è schiavo di un fedele e il padrone glielo permette, ascolti la parola; ma sia rimandato se il padrone non garantisce ch’egli è buono. Se invece è schiavo di un pagano, gli si insegni a soddisfare il padrone, affinché non gliene derivi calunnia. Se un uomo ha moglie o una donna ha marito, gli si insegni a contentarsi, il marito della moglie, la moglie del marito. Se uno non ha moglie, gli si insegni a non fornicare, ma a contrarre matrimonio secondo la legge o a rimanere come è. Se uno è posseduto dal demonio, non ascolti la parola dell’insegnamento fino a che non si sia purificato. (Traditio, p. 75-76)
Successivamente si ha la descrizione del Battesimo e la partecipazione alla
liturgia eucaristica domenicale.
La domenica il vescovo, se può, distribuisca personalmente a tutto il popolo, mentre i diaconi lo spezzino. Anche i presbiteri spezzeranno il pane. Quando il diacono porgerà il pane al presbitero, lo porga su di un piatto, e il presbitero prenda il pane e lo distribuisca di sua mano al popolo. Gli altri giorni si faccia la comunione secondo le istruzioni date dal vescovo. Le vedove e le vergini digiunino spesso e preghino per la Chiesa. I presbiteri digiunino quando vogliono, e così pure i laici Il vescovo non può digiunare se non quando digiuna tutto il popolo. Può accadere, infatti, che qualcuno voglia fare un’offerta e il vescovo non può rifiutare. Perciò, quando spezza il pane, ne gusti in ogni caso. In caso di necessità, sia il diacono a dare sollecitamente il segno ai malati, se non c’è presbitero: dopo aver dato tutto ciò che è necessario e ricevuto ciò che viene distribuito, renda grazie. Lì stesso consumino. Coloro che ricevono i doni siano solleciti nel loro compito. Se uno riceve qualcosa da portare ad una vedova o a un malato o a chi è al servizio della Chiesa, la porti nello stesso giorno. Se no, la porti l’indomani aggiungendovi del proprio, poiché è rimasto presso di lui il pane dei poveri.
Quando il vescovo è presente, al sopraggiungere della sera il diacono porti la
lucerna e, stando in piedi in mezzo ai fedeli presenti, renda grazie.
Dapprima il vescovo saluti dicendo: «Il Signore sia con voi». Il popolo
risponda: «E con il tuo spirito». «Ringraziamo il Signore». E il popolo: «È
cosa degna e giusta: grandezza, elevazione e gloria gli sono dovute». Non
dica: «In alto i cuori», perché così si dice al momento dell’offerta, ma preghi dicendo: «Ti ringraziamo, o Signore, per il tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ci hai illuminati rivelandoci la luce in-corruttibile.
Noi abbiamo vissuto un intero giorno e siamo giunti all’inizio della notte
godendo della luce del giorno che tu hai creato per la nostra sazietà, e non
manchiamo ora della luce della sera per tua grazia: perciò ti lodiamo e
glorifichiamo per mezzo del tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale Tu hai gloria, potenza e onore con lo Spirito Santo ora e sempre e nei secoli dei secoli». Tutti dicano: «Amen».
Terminato il pasto, si alzino pregando; i fanciulli recitino salmi, e così pure le vergini. Il diacono allora, prendendo il calice misto dell’offerta, reciti uno dei salmi in cui ci sia l’alleluia. Poi, se il presbitero ne dà l’ordine, reciti altri salmi dello stesso tipo. Dopo che il vescovo offre il calice, reciti un salmo di quelli che convengono al calice e che abbiano l’alleluia, mentre tutti
dicano: «Alleluia». Quando si recitano i salmi, tutti dicano: «Alleluia»,
cioè «Lodiamo colui che è Dio: gloria e lode a colui che ha creato tutte le
cose con la sua sola parola». Dopo il salmo, benedica il calice e distribuisca i
pezzetti di pane a tutti i fedeli. I fedeli che prendono parte al pasto comune
ricevano un pezzo di pane dalle mani del vescovo prima di spezzare il
proprio, in quanto si tratta di una benedizione e non dell’eucaristia, che è il
corpo del Signore. È bene che tutti, prima di bere, prendano il calice e
rendano grazie su di esso; poi bevano e mangino in purezza. Ai catecumeni
si dia il pane dell’esorcismo ed ognuno offra un calice. Il catecumeno non
prenda parte al pasto del Signore. Durante il pasto colui che mangia ricordi
colui che lo ha invitato: proprio per questo l’ospite lo ha invitato nella propria casa. Quando mangiate e bevete, fatelo con moderazione e non fino
all’ubriachezza, evitando di rendervi ridicoli o di rattristare con la vostra
irrequietezza colui che vi ha invitati, ma in modo che questi preghi di essere
degno che santi entrino in casa sua. Voi siete, difatti, il sale della terra. Se si
offre a tutti una cena comune (in greco αποφόρητον), prendetene; se è
sufficiente a che tutti ne gustino, gustatene in modo che ne rimanga e che
colui che vi ha invitati possa mandarne a chi vuole, come se fossero resti di
santi, e gioisca fiducioso. Durante il pasto, coloro che sono invitati mangino
in silenzio evitando di discutere, ma dicendo ciò che il vescovo permette o
rispondendo alle sue domande.
Quando il vescovo prende la parola, tutti se ne stiano in silenzio, approvando,
finché non ricevono qualche domanda. Se i fedeli prendono parte al pasto
alla presenza non del vescovo ma di un presbitero o di un diacono, mangino
con la stessa moderazione. Ognuno si affretti a ricevere la benedizione dalle
mani del presbitero o del diacono. Allo stesso modo il catecumeno riceva il
pane esorcizzato. Se si riuniscono solo dei laici, si comportino secondo la
disciplina: un laico, infatti, non può fare la benedizione. Ognuno mangi nel
nome del Signore: piace difatti a Dio che noi siamo di esempio anche ai
pagani con la nostra concordia e la nostra sobrietà. Se uno invita a pranzo
vedove di età matura, le faccia andare via prima di sera. Ma chi non può
invitarle perché ha un incarico ecclesiastico, si limiti a dar loro cibo e vino e
poi le faccia andare via. Esse poi, a casa loro, mangino a piacere. Tutti siano
solleciti nell’offrire al vescovo i primi frutti che si raccolgono. Egli, offrendoli, li benedica e nomini l’offerente dicendo: «Ti ringraziamo, o Dio, e ti offriamo le primizie dei frutti che Tu ci hai dato da raccogliere e hai fatto nascere con la tua parola, comandando alla terra di produrre ogni specie di frutta per gioia e nutrimento degli uomini e di tutti gli animali. Per tutto questo noi ti lodiamo, o Dio, e per tutti i benefici che ci hai accordato, adornando per noi l’intera creazione di vari frutti, per mezzo di tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale è a Te gloria nei secoli dei secoli. Amen. Si benedicano tra i frutti l’uva, i fichi, i melograni, le olive, le pere, le mele, i gelsi, le pesche, le ciliegie, le mandorle, le prugne, ma non le angurie, i meloni, i cocomeri, le cipolle, gli agli né alcun altro legume. Talvolta si offrono anche i fiori: ma si offrano rose e gigli, e non altri fiori. Qualsiasi cosa si prenda, si renda grazie a Dio santo, prendendone in sua gloria.
(Traditio, p. 85-91)
LA CONCLUSIONE DEL TESTO
Nel concludere la sua fatica Ippolito auspica che ci sia accoglienza nei
confronti delle disposizioni che dà, perché lui ritiene di aver offerto la
tradizione risalente agli apostoli. È ben consapevole che non tutti siano in linea con essa, ma qui non sembra che ci sia la punta velenosa espressa
nella introduzione contro gli ignoranti. E tuttavia egli si rende conto che le
distanze ci sono ancora e che alcuni si lasciano prendere dal proprio
capriccio, per fare diversamente. In base a queste parole dovremmo pensare
che egli voglia stare dalla parte dei conservatori che non ammettono forme di creatività discutibili nell’ambito della liturgia con il rischio fin troppo evidente di muoversi con eccessiva libertà.
L’autore richiama ancora le autorità della Chiesa perché siano vigilanti in
questo campo, per evitare che possano pullulare le eresie, a partire da
questa falsa visione di libertà creativa. Essa non aiuta a costruire una Chiesa
armoniosa nella preghiera comune da vivere sotto la guida di coloro che
hanno ministeri per l’imposizione delle mani o compiti formativi per essersi preparati a dare il proprio contributo dentro la comunità.
Queste istruzioni, se si ricevono con gratitudine e con fede, procurano alla
Chiesa l’edificazione e ai credenti la vita eterna. Do a tutti i saggi il consiglio
di custodirle, poiché nessun eretico né altro uomo potrà condurre in errore chi osserva la tradizione apostolica. Difatti le eresie si sono moltiplicate perché i capi non vogliono istruirsi sull’insegnamento degli apostoli, ma fanno ciò che vogliono, seguendo il loro capriccio e non l’opportunità. Carissimi, se abbiamo tralasciato qualcosa, Dio la rivelerà a coloro che ne sono degni, poiché egli governa la Chiesa affinché essa approdi al porto della pace.
(Traditio, p. 98-99)
CONCLUSIONE
Sulla base di queste dichiarazioni dell’autore non ci troviamo in presenza solo di un manuale liturgico, che dovrebbe riguardare chi è esperto in materia: tra le righe si avverte che l’autore vuole contribuire alla costruzione di una Chiesa che riveli, nel momento più significativo della sua immagine e della sua vita e ragion d’essere, di essere a servizio dalla ricerca di un cammino armonioso, dove la fraternità non esclude il ricorso a chi deve svolgere compiti di dirigenza e di vigilanza, e nel contempo esercitare un’autorità, che, essendo a servizio dell’unità non mortifichi la creatività nei suoi momenti decisivi, ma sorvegli ricorrendo all’azione dello Spirito. Così la Chiesa potrà dare la sua testimonianza di unità, quella che non impedisce le diversità, ma le vive e le esprime nella convergenza “ad unum”.