L’immagine che si ha dell’Africa, soprattutto nel suo percorso storico, è piuttosto sfuocata, sia perché non se ne parla, sia perché non se ne sa nulla o ben poco, sia perché non gode di alcun interesse, come se la sua presenza rispetto al resto del mondo non avesse rilievo alcuno. Se ne curano gli storici sulla base dei dati che posseggono, che non corrispondono a quelli in uso in Europa, in prevalenza fonti scritte, anche se va riconosciuto che non solo questi contribuiscono a produrre la storia. Va riconosciuto che nel continente, già noto nella sua estensione, ma non raggiunto al suo interno da alcun avventuriero di origine europea, si sviluppano sistemi di governo e raggruppamenti di popoli in grado di garantire non solo la sopravvivenza, ma anche un certo sviluppo, che è possibile, grazie al commercio, e, prima ancora, ad una produzione in eccedenza. Sono ben noti i diversi imperi e i regni, così definiti a partire da un potere centrale, più o meno forte, e soprattutto in grado di far sentire la sua autorità anche nelle zone periferiche del proprio dominio; bisogna tener conto che tali sistemi raggruppano etnie diverse, le quali riconoscono il potere centrale nella misura in cui esso è in grado di sviluppare una economia capace di spingersi oltre i confini e quindi di creare mercati. Questo comporta una conoscenza del territorio, dentro il quale il clima e il terreno, l’idrografia e l’orografia garantiscono coltivazioni che possono dare una produzione in esubero e consentire così il mercato. Ciò significa che anche in queste aree geografiche, mai raggiunte dagli Europei, soprattutto se considerate proibitive in ragione delle diverse febbri malariche, era comunque possibile uno sviluppo, seppur limitato, perché anche per le popolazioni locali spesso il clima non consentiva quel genere di sviluppo che si può constatare in altre aree geografiche del mondo. Qualcosa è possibile ricostruire della storia di simili strutture economiche e governative, che rivelano come sia stato possibile costruire anche su questo territorio delle forme istituzionali che hanno svolto un ruolo non indifferente per il vivere della popolazione locale. Ciò che noi abbiamo oggi nel panorama politico del continente dipende molto dall’epoca coloniale e da ciò che le potenze europee hanno lasciato, misconoscendo il patrimonio storico, che pure l’Africa aveva sviluppato, quando l’Europa non si interessava a questo territorio, pur ricco, ma non facilmente raggiungibile in ragione delle condizioni climatiche.
Le realtà qui sviluppate sono solo in parte conosciute, e questo non solo allo sguardo degli occidentali, ma anche nella considerazione delle popolazioni che qui hanno costruito entità di un certo spessore, la cui conoscenza potrebbe consentire una diversa impostazione anche nello sviluppo da offrire al continente. Sono numerosi e notevoli gli imperi e i regni che si sono formati al di sotto del Sahara, in aree geografiche diverse e proprio per questo con sviluppi differenti, anche perché le diverse condizioni climatiche hanno permesso (o impedito) un cammino utile allo sviluppo demografico della zona. Tenuto conto che l’habitat ha costituito una difficoltà non indifferente per la longevità e per la crescita demografica, è stato necessario tenere alta la natalità a fronte di una mortalità di gran lunga superiore. Nel contempo era necessario creare le condizioni, laddove e quando il clima le consente, perché la vita umana migliorasse; e anche qui sono state fatte le scelte di sviluppare alcune produzioni mediante strumenti di lavoro migliori e con un interscambio efficace. Proprio nelle aree geografiche che stanno sotto il Sahara, quando le condizioni lo consentono, ci sono fenomeni che avviano la nascita e lo sviluppo di regni ed imperi, di cui permangono tracce anche nelle strutture attuali di Stati moderni; anche ad essere eredi del passato coloniale, essi hanno comunque origini in periodi precedenti alla colonizzazione europea. I tre imperi qui presi in considerazione, sono oggi degli Stati che devono l’attuale struttura all’eredità coloniale, e nello stesso tempo risultano continuare quanto c’era pure in precedenza, come sono i casi dell’Etiopia, del Congo, della regione sudafricana. Oltre il Sahara in genere si tende a dire che qui si è sviluppata la cultura “bantu”, che viene fatta coincidere con la totalità del mondo dei “neri”, anche se le lingue si sono diversificate nel corso della storia, pur conservando qualche elemento comune. Tendenzialmente si fa derivare lo sviluppo alla regione sudanese, quella che vede l’incontro fra camiti nilotici del Nord e i camiti di razza nera, nell’area delle sorgenti del Nilo, ormai fra Sud Sudan e Uganda. Qui si è creata un’area geografica adatta agli stanziamenti legati alla pastorizia, ma anche all’agricoltura, in presenza di zone beneficiate dall’acqua con un processo che per millenni non muta sostanzialmente, se non in presenza di cambiamenti climatici. Non è improbabile per gli storici che anche qui si sviluppino migrazioni verso luoghi che si spera siano migliori; attorno si incontrano foreste che obbligano ad un altro modo di stabilirvi la propria residenza e soprattutto la propria esistenza.
Anche in queste regioni, dunque, si assiste ad un fenomeno migratorio di popolazioni che sono alla ricerca di un vivere migliore con l’adattamento alle risorse già note e con la ricerca di altre da trovare e da sviluppare. È interessante il fatto che gli abitanti dispersi attorno all’equatore si sentono appartenenti al gruppo “bantu”.
Bantu è un termine di classificazione linguistica derivata dal fatto che nelle lingue parlate dalle popolazioni nere che oggi costituiscono la quasi totalità degli abitanti dell’emisfero meridionale dell’Africa, una certa forma della radice -ntu nell’uso generale significa “essere umano”; e dal fatto che queste lingue hanno un sistema di classi di parole in cui una certa forma del prefisso ba- sta a indicare il plurale della classe che denota le persone. Le circa quattrocento lingue bantu hanno in realtà vocaboli e strutture grammaticali molto più simili di quanto non si verifichi di solito con le lingue del Sudan, anche in aree molto piccole, le lingue bantu vengono parlate in quell’enorme estensione territoriale che va dal monte Camerun alla costa atlantica fino al monte Elgon in Uganda e da qui prosegue verso est fino a raggiungere la costa vicino a Lamu (benché ci sia una rientranza a sud fino al centro della Tanzania). (…) Fu questo legame insolitamente stretto tra le lingue bantu a fornire la prima indicazione del fatto che gli antenati di coloro che oggi parlano tale idioma dovettero aver occupato l’intera Africa meridionale in un periodo relativa-mente breve e recente Ogni altra conclusione iniziale era meno adeguata a spiegare il significato di questo stretto legame. Era normale pensare alle lingue bantu come a una famiglia linguistica distinta da tutte le altre famiglie linguistiche dei neri, e che coloro che le parlavano non potevano essere “veri neri”: in effetti da molti furono ritenuti neri camitizzati. In altre parole, le somiglianze e le differenze che questi due gruppi presentavano sul piano culturale e linguistico rispetto ad altri africani neri erano ritenute conseguenze di vari processi di conquista e di assimilazione con i camitici.
(Fage, p. 34-35)
Con la medesima visione a proposito delle popolazioni bantu lo storico Ki-Zerbo si muove nella sua ricerca circa le regioni centrali dell’Africa …
L’ETIOPIA
L’impero africano, durato più a lungo e comunque composto da una popolazione di pelle nera, è certamente l’Etiopia, giunto fino ai nostri giorni nonostante le alterne vicende che lo vedevano scomparire e poi risorgere.
CARTINA DELL’ETIOPIA
Nella storia di questo Paese si succedono forme diverse di governo, avendo sullo sfondo racconti fantasiosi e leggendari che gli conferiscono un fascino particolare e soprattutto una fisionomia davvero unica. Proprio lo sfondo leggendario permette il conservarsi e il ricrearsi continuo di questo impero, che, anche a risultare circoscritto sull’acrocoro, dove gli altipiani si distendono sempre ad una certa quota, si configura come un insieme di popolazioni diverse. Il caso etiopico, che va considerato nell’ambito degli imperi realizzati nel corso di secoli con un percorso altalenante, deve la sua evoluzione alla vicinanza e alla solidarietà con la popolazione sudanese e nubiana che ha forti legami con l’Egitto, sia quello del periodo faraonico, sia quello successivo della dominazione romana e insieme della scelta di campo del Cristianesimo. Se per diversi periodi si deve parlare di una dipendenza religiosa del mondo etiopico da quello copto, cioè dal mondo cristiano egiziano, così denominato, non si può neppure trascurare il fatto che gli etiopi hanno sempre rivendicato un certo vincolo con il mondo ebraico, nel nome della famosa regina di Saba, di cui si parla nella Bibbia negli anni del regno di Salomone.
Questi rapporti per quanto costruiti con la preoccupazione, a volte enfatica, di affermare la propria singolarità e nel contempo una certa parità con figure antiche che affondano nel mito, conferiscono un’immagine piuttosto unica agli Etiopi nel panorama delle popolazioni “nere”, e nel contempo danno a questo impero, arrivato fino a noi, una configurazione del tutto singolare. Se da un certo numero di secoli si andava sviluppando questo territorio, costituito in gran parte di altipiani, nei quali comunque la coltivazione appariva possibile e tale da garantire non solo la sopravvivenza, ma anche un certo surplus per il commercio, l’impero, che si stava costituendo, costruito sui racconti che riscontriamo anche nella Bibbia, era destinato ad acquisire un certo rilievo.
In effetti, nel giro di cinquant’anni dall’ingresso dei mercanti e degli armatori dell’Egitto romano nei mercati del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, l’estensione dei traffici e il volume degli affari assunsero proporzioni tali da richiedere un vero e proprio manuale con indicazione di rotte, porti e popoli rivieraschi, nonché delle merci che si potevano offrire o scambiare. Un anonimo mercante nato in Egitto compilò un simile portolano fra il 40 e il 70 d.C. (la data è nota perché l’opera fa riferimento a un sovrano che regnò in quel periodo). Il manuale era intitolato Periplus maris Erythraei (Periplo del mare Eritreo). “Eritreo” significa “rosso”, benché gli antichi usassero il termine in senso più ampio di quello odierno. Per loro il mare Eritreo comprendeva non solo l’attuale Mar Rosso, ma anche il Golfo di Aden, il mare arabico e l’oceano indiano, dalle coste occidentali dell’India fino a quelle africane. L’autore del Periplo era un mercante, non un letterato. Usava un greco commerciale: “Funzionale, piatto e privo di stile, pieno di ripetizioni e inframmezzato da termini tecnici e commerciali”. Ciò conferisce all’opera un carattere davvero unico. Libero da gratuiti omaggi a re e divinità, ma colmo di dettagli accurati (frutto dell’osservazione personale), il Periplus era un equivalente dei moderni repertori che gli imprenditori consultano prima di avviare operazioni commerciali all’estero. Giacché allora come oggi il denaro è la misura delle cose, l’esistenza del Periplus ci conferma quanto fosse importante il mondo oltre il Mar Rosso per i mercanti e i navigatori dell’Egitto romano. L’Africa invece era poco considerata. (Reader, p.195-196)
Sulla base di un simile testo noi siamo a conoscenza di una intensa attività commerciale attorno al Corno d’Africa, che coinvolgeva anche il suo entroterra, sebbene poi l’attenzione fosse rivolta altrove e quindi in quel commercio che riguardava l’Arabia e l’India.
Ma era inevitabile che anche il mondo etiopico, rinchiuso sull’acrocoro venisse progressivamente coinvolto e rivelasse la sua fisionomia, che voleva le sue radici in un passato glorioso e favoloso e nello stesso tempo cercava un suo spazio e una sua affermazione per divenire protagonista della storia africana come l’impero, certamente più circoscritto nello spazio, ma più duraturo nel tempo. È qui che si è rivelata la civiltà di Aksum: essa è arrivata fino a noi legata alle popolazioni etiopiche, quelle che rivendicano un passato di notevole interesse, legato anche al mondo ebraico e al mondo cristiano, non adeguatamente riconosciuto dal mondo europeo. Eppure la realtà storica e culturale che si riscontra in questo territorio ha una sua precisa fisionomia da renderlo legato integralmente al mondo dei neri, a tal punto che spesso il nome “etiope” non indicava solo l’abitante di questa zona, ma l’africano in genere. Il fatto che esso appaia legato al mondo occidentale mediante la religione cristiana, non significa che qui non si deve riscontrare qualcosa di originale e qualcosa di tipicamente africano.
L’OBELISCO DI AKSUM
portato a Roma e riportato in Etiopia
A partire da millenarie radici indigene comprendenti caccia e raccolta, allevamento e agricoltura, Aksum sviluppò una civiltà e un impero la cui influenza, culminata nel IV e V secolo d.C., si estendeva su tutte le regioni a sud dell’Impero romano, dalle propaggini del Sahara a ovest, attraverso il Mar Rosso fino al deserto arabo di Rub al-Khali a est.
Gli aksumiti elaborarono l’unico sistema di scrittura autoctono africano, il ge’ez, da cui deriva la forma scritta delle lingue parlate ancora oggi in Etiopia, commerciarono con l’Egitto, il Mediterraneo orientale e l’Arabia e finanziarono le loro operazioni con monete d’oro, d’argento e di rame: le prime e uniche monete coniate nell’Africa sub-sahariana fino al X secolo, quando sulla costa orientale africana entrarono in uso quelle arabe. (Reader, p.200)
In quest’area geografica si sviluppa dunque una civiltà e un sistema di vita e di governo, che ha delle proprie caratteristiche e nello stesso tempo delle situazioni e delle vicende e dei personaggi che la legano strettamente al mondo occidentale. La stessa documentazione biblica e addirittura neotestamentaria suggeriscono che vi siano state delle connessioni fra i due mondi, per quanto la civiltà di Aksum presenti caratteri originali autoctoni. La figura della regina di Saba, citata nell’Antico Testamento come la sovrana che viene dal sud al tempo di Salomone e quindi attorno al 1000 a.C., fa pensare a qualche forma di conoscenza e di rapporti fra i due mondi. Inoltre la notizia, per quanto vaga, del fatto che la regina di Saba sia partita da Gerusalemme, rimasta incinta a causa di rapporti molto intimi con il re israelita, spiega i rapporti molto stretti ancora oggi riconosciuti nello stesso Stato d’Israele, con coloro che in Etiopia ed Eritrea possono vantare legami con il mondo ebraico, conoscendone la lingua e coltivandone la cultura e la religione. Così si possono trovare sul territorio di Israele cittadini riconosciuti come tali, per quanto siano di pelle nera: sono i cosiddetti “falasha”, cioè etiopi in possesso di elementi culturali e linguistici affini con il mondo ebraico in nome delle relazioni risalenti fino alla regina di Saba. E sulla base di questi elementi anche i sovrani etiopi rivendicano una stretta correlazione con il mondo ebraico, al punto che alcuni di essi conservano nomi derivati da lì.
Aksum si era convertita al cristianesimo soltanto nel IV secolo, ma la tradizione vuole che il suo legame con la storia biblica risalga al IX secolo a.C., quando la regina di Saba si mise in viaggio dalla sua reggia etiopica per far visita a re Salomone a Gerusalemme. Il loro incontro è descritto nel Primo libro dei Re (10,1-13). (…) Secondo la tradizione etiopica, fra i doni di Salomone alla regina di Saba vi fu anche il figlio da lei partorito al suo ritorno in patria. Il bambino fu chiamato David e, cresciuto, salì al trono come Menelik I, fondatore della dinastia salomonica di cui Hailè Selassié fu l’ultimo rappresentante.
In seguito il legame fra la storia etiopica e le radici della religione cristiana rappresentata da Menelik fu rafforzato dalla tradizione secondo cui, quando ancora era un giovane chiamato David Menelik avrebbe trasferito la leggendaria Arca dell’Alleanza ad Aksum. (…) Così si narra … Anche se l’unico argomento a favore di questa incredibile storia è che non esiste un’altra spiegazione per la scomparsa dell’Arca. Perfino la Bibbia tace sull’argomento. L’afferma-zione che l’Arca si trovi ad Aksum poggia solo sulla fede, ma è contraddetta dai fatti. La leggenda di Salomone, della regina di Saba e di Menelik non ha basi storiche. La regina di Saba è una figura mitica, il regno di Aksum non esisteva come entità politica ai tempi di Salomone e la città stessa venne fondata diversi secoli dopo il supposto trafugamento di Menelik. Tuttavia la fede è una forza potente …
(Reader, p.212-214)
In effetti il mito non tramonta mai, neppure con gli alti e bassi della storia; così l’Etiopia, la cui dinastia imperiale si considera erede della dinastia salomonide, si presenta con una visione davvero imperiale, che non solo la fa essere erede di una storia biblica, ma addirittura custode di una tradizione cristiana, essendo associata alla religione copta, quella dei cristiani d’Egitto, ancora oggi forte minoranza religiosa e culturale di quel Paese. Per molti secoli la Chiesa etiopica dipende dalla Chiesa di Alessandria, ma col tempo, anche per le diverse vicende politiche e per la presenza del mondo arabo mussulmano, divenuto maggioranza in Egitto, essa reclama la sua autonomia. Bisogna arrivare al secolo XV, per vedere anche qui in Etiopia un fervore di opere che fanno pensare ad una possibile rinascita e ad un eventuale traino con il mondo occidentale, che a breve conosce l’espansione nel mondo. Ma l’Etiopia, anche ad essere un impero, e a rimanere tale, almeno nella forma istituzionale, conosce alti e bassi , finendo ai margini della storia, essendo anche ai margini di una certa geografia.
Zara Yaqub (1434-68)
L’imperatore fece costruire un gran numero di chiese, costrinse i sacerdoti a istruire i fedeli ogni domenica fuori della chiesa, e a questo scopo fece pubblicare sette testi che costituivano la summa della fede e delle usanze della Chiesa d’Etiopia; egli stesso redasse il famoso Libro della Luce. Zara Yaqub dimostrò il proprio zelo organizzativo anche in materia civile, all’esterno ricacciò indietro la spinta sempre minacciosa degli emirati musulmani della costa, e su invito del Papa inviò a Roma una delegazione del suo paese ai lavori del Concilio di Firenze (1441); inoltre firmò l’atto con cui la Chiesa copta veniva integrata nel grembo della Santa Sede.
Peraltro questo testo fu presto sconfessato dall’Etiopia. Intanto il paese sprofondava sempre più in una condizione di fatale isolamento; nel 1453 i Turchi si impadronirono dell’ultimo bastione cristiano dell’Oriente, Costantinopoli. Controllando la costa mediterranea fino all’Algeria, passando per l’Egitto, i Turchi alzarono una barriera formidabile tra l’Etiopia e i paesi fratelli di fede, e le conseguenza non si fecero attendere: già sotto il regno di Baida Mariam (1468-78) gli eserciti etiopi arretravano nelle steppe aride e salate della Dancalia. Intorno all’Etiopia la morsa di ferro delle potenze musulmane incominciarono a stringersi. (Ki-Zerbo, p. 221)
La descrizione qui riscontrata mette in risalto il carattere imperiale e religioso di un regno che non è andato oltre i suoi “naturali confini”, anche se dentro questo mondo montuoso si trovano popolazioni non omologabili, ma tutte segnate dalla presenza del cosiddetto “negus”, che non aveva una sua capitale fissa, dovendo controllare un territorio complesso. L’elemento che serviva a dare unità al regno era quello religioso, anche se le superstizioni coesistevano con la religione dominante, che appariva di facciata ed era garantita più dai monaci che non dai preti locali, spesso molto ignoranti. I grandi monasteri avevano il ruolo di essere punti aggreganti, soprattutto in certe occasioni, e garantivano il rispetto della tradizione.
Secondo la tradizione, dopo il concilio di Calcedonia, verso la fine del V secolo, dei monaci monofisiti arrivarono ad Axum. Sembra che la loro predicazione, rivolta a una popolazione che derivava da una mescolanza di semiti, cusciti, ebrei e primi cristiani, abbia ottenuto un notevole successo e la loro opera portò al sorgere di una Chiesa nazionale distinta, che adottò una traduzione in ge’ez delle sacre scritture … La Chiesa etiopica, che disponeva di una solida tradizione monastica, che era in grado di conservare perlomeno un minimo di cultura e inoltre di coinvolgere una parte considerevole della popolazione e che tendeva ad assumere un atteggiamento sincretico nei confronti della tradizione giudaica e anche delle credenze pagane, divenne un elemento essenziale nella vita nazionale. Essa creò un’ampia base sulla quale la monarchia centralizzata di tradizione axumita poté sopravvivere al declino dell’era ellenistica nel Mar Rosso e all’impatto della nascente potenza islamica che pose sotto il suo controllo il suo commercio e le sue coste. Il regno si ritrasse sugli altipiani dell’interno, assorbì popolazioni sempre più prevalentemente africane e in questo modo, pur rimanendo strettamente cristiano, anche se in un modo peculiare, si trasformò dal regno greco-semitico di Axum nel regno africano dell’Etiopia, destinato a durare fino al XX secolo.
(Fage, p. 71-72)
IL KONGO
Più ci si spinge nel “cuore dell’Africa” e maggiormente ci si inoltra in territori dominati da foreste, più che da savane: in quell’intrico non è facile trovare popolazioni, e, anche laddove queste si insediano, non appare possibile che esistano regni secondo l’impostazione che troviamo sviluppata in regioni più aperte. Qui la popolazione è nera, anche a trovarsi divisa in diverse tribù, che faticano a coesistere e soprattutto a intendersi. Qui, dunque, non si conoscono forme di regno o di impero, come succede altrove; e tuttavia l’impatto con i primi viaggiatori europei, che non si inoltrano all’interno, ma creano porti e luoghi commerciali sulle coste, fa credere che anche nel centro del continente ci siano insediamenti da scoprire. Ciò che noi chiamiamo oggi Congo, fino a qualche anno fa indicato con un nome africano, al cui splendore si voleva risalire, e cioè Zaire, era pur sempre un luogo inaccessibile ai primi viaggiatori europei, di fatto limitati ai Portoghesi, i quali nel XV e XVI secolo avevano di mira la circumnavigazione dell’Africa, come via alternativa a quella aperta dagli Spagnoli nell’Atlantico verso l’Oriente. E tuttavia nell’approdo dei marinai portoghesi alle foci del Congo, si fa la scoperta di un regno che si immaginava sviluppato all’interno, soprattutto seguendo i corsi dei fiumi.
Quando i Portoghesi vi arrivano nel 1482, già da oltre un secolo e mezzo sul corso inferiore del Congo (Nzaidi per gli autoctoni), poi trasformato in Zaire, si era instaurato un grande regno. Gli autoctoni erano di ceppo ambundu; secondo alcuni il loro antenato fondatore era un certo Nimi a Lukeni che veniva da oriente, ma più probabilmente doveva essere Mutinu, che alla testa di gruppi conquistatori scese dal Mayombe settentrionale verso il basso Congo (provincia di Nsundi) che serviva da base per una conquista a largo raggio, in particolare verso sud. Tra il nuovo capo e il pontefice locale Nsaku, un grande guaritore che lo liberò da una malattia nervosa aspergendolo di acqua lustrale con una coda di bufalo, venne stretta un’alleanza suggellata con un matrimonio e la provincia del guaritore, il Mbata, fu annessa al regno. La città principale si chiamava Kongo, per cui il sovrano assunse il titolo di maniKongo, o signore del Kongo. Nel suo massimo splendore, nel XV e XVI secolo, il regno si estendeva dal basso Congo a settentrione fino al Cuanza a meridione, e dal Cuango a oriente fino alla costa atlantica: le sei province tradizionali erano il Mbemba, il Mbata, il Mbamba, il Sonio, il Nsundi e il Mpango. Le due più importanti erano i distretti periferici di Nsundi a nord e di Mbamba a sud.
(…) Su queste sei province l’autorità reale si esercitava in modo diretto ed effettivo, mentre i distretti costieri situati a settentrione dello Zaire, il Ngoyo, il Kakongo e il Loango, rappresentavano più che altro dei regni vassalli; lontano a est il grande regno mukoko dei Ba Teke (Anzico) produceva un tessuto molto apprezzato dai Portoghesi e vendeva ferro, avorio e rame pagati con il sale e i cauri kongolesi. (Ki-Zerbo, p. 225-226)
ALLE FOCI DEL FIUME CONGO
Il primo impatto fra Europei e Congolesi fu all’insegna di tanti equivoci: nella narrazione storica si nota che i Portoghesi avevano scoperto un largo fiume, il Congo, sul quale alcuni avevano cercato di risalire affidandosi ai locali. Il mancato rientro, faceva credere che fossero prigionieri o in ostaggio e così i portoghesi portarono a Lisbona alcuni del luogo che rientrarono successivamente rivestiti all’europea e battezzati.
Fu l’occasione per uno scambio di doni e per una specie di alleanza che favoriva il commercio ai Portoghesi. Nel 1491 il re locale e altri nobili furono battezzati da preti cattolici appositamente mandati dal Portogallo. Il re prese il nome di Giovanni. Alla sua morte nel 1509 succedette suo figlio Mvemba a Nzinga, che prese il nome di Afonso. Contestato per questo dal fratellastro, scoppiò una guerra civile, durante la quale il rivale fu sconfitto in battaglia a Mbanza Congo (è l’antica capitale del Regno del Congo, oggi situata in Angola. Riman-gono le rovine dell’antica città che ebbe un grande splendore finché il regno rimase in vigore). Afonso spiegò che aveva avuto una visione in cui S. Giacomo e la Vergine Maria gli assicuravano la vittoria. Il re vittorioso dedicò parte della sua attività politica a favorire la religione cattolica in Congo, dove però si mescolavano anche elementi della tradizione locale con una ritualità che anticipa quanto verrà introdotto nella Chiesa cattolica congolese durante il regime di Mobutu, con il rito zairese, che si rifà a elementi della cultura tradizionale. Il re congolese costruì chiese e volle un’adeguata formazione del clero locale. Rimangono di lui alcune lettere mediante le quali coltivava le relazioni con il Portogallo, e, a partire da quello, anche con lo Stato Pontificio. È significativa la lettera in cui egli lamenta l’azione di forza con la quale i portoghesi catturano gente locale per farne schiavi da immettere sul mercato africano …
Nel 1526, quando dal Kongo venivano inviati a Sao Tomé fino a 3000 schiavi all’anno, furono deportati anche dei sudditi e perfino dei parenti di re Afonso I, il quale scrisse una lettera di protesta al suo “fratello monarca”, re del Portogallo: “… nei nostri Regni c’è un altro grande problema che rende scarso servizio a Dio e cioè che molta della nostra gente, desiderosa come è delle merci e delle cose dei vostri Regni, che vengono portate qui dalla vostra gente e al fine di soddisfare il loro vorace appetito, catturano molte persone del nostro popolo, uomini liberi e indipendenti, e molto spesso accade che rapiscano persino dei nobili o figli di nobili e nostri parenti e li portino a vendere ai bianchi che sono nei nostri Regni … E non appena sono presi dai bianchi vengono subito incatenati e marchiati col fuoco e quando vengono portati per essere imbarcati, se vengono sorpresi dalle nostre guardie i bianchi dicono che li hanno comprati ma non sanno dire dove … ed è così grande, Sire, la corruzione e il malcostume che il nostro paese si sta completamente spopolando. Per questo preghiamo Vostra Altezza di aiutarci e assisterci in questo frangente … poiché è nostra volontà che in questi Regni non vi sia alcun commercio di schiavi né luogo in cui vengano venduti.
Il re del Portogallo respinse le proteste di Afonso e invece di dare un sia pur minimo appoggio al desiderio del re di far cessare il commercio portoghese di schiavi dal paese, rispose che il Kongo non aveva nient’altro da vendere: se il re desiderava continuare a ricevere beni e servizi dal Portogallo, il suo paese avrebbe dovuto continuare a esportare schiavi. (Reader, p.367)
Fu un breve periodo nel quale il Congo, regno africano, ebbe rapporti con l’Europa mediante il Portogallo. La decadenza arrivò presto, ma il segno era rimasto, se non altro perché in certi nomi africani del luogo si poteva avvertire il legame con il portoghese, e perché i segni cristiani non scomparvero del tutto, anche a risultare non più riferiti alla religione proveniente dall’esterno; alcuni elementi si conservarono e si fusero con le credenze tradizionali. Non possiamo comunque sapere fin dove poteva essere raggiunto il territorio interno e quindi quanto potesse essere esteso il regno del Congo, che rimane pur sempre l’esempio di una realtà autoctona. Esso recepisce del mondo esterno quanto potrebbe servire, restando comunque una realtà africana.
NEL SUDAFRICA: LO ZIMBABWE
È molto difficile ricostruire la vita dei popoli africani che a quel tempo vivevano a sud del Kongo e dell’Etiopia; l’archeologia sta mettendo in luce cose strabilianti e le rovine che si scoprono nonostante le molteplici rapine cui sono state soggette indicano l’evoluzione di gruppi umani potenti che hanno organizzato la propria vita collettiva e cercato di dominare il proprio ambiente. (…) In tutta questa regione, che comprende l’Uganda, il Kenya, la Tanzania e il Malawi odierni, esiste una tale abbondanza di vestigia di grande interesse da giustificare l’appellativo di civiltà azaniana. Qui sono state scoperte le tracce di antiche vie di grande comunicazione, che con percorso di circa mille chilometri pare collegassero la regione del lago Niassa a quella di Nairobi; si tratta di strade spianate della larghezza variabile dai tre ai cinque metri, con gallerie sotto le colline, opere di terrazzamento e dighe attraverso gli avvallamenti, dove i bordi sono talvolta ancora segnati da file di pietre. In territorio dei nandi dei resti di terrazzamenti evidentemente preparati per l’irrigazione con resti di canali sembrano risalire al XII secolo e terminare verso il XV; il che induce alcuni studiosi, come Huntingford, a considerare tale territorio un rifugio dei popoli del Corno d’Africa che sarebbero fuggiti dinanzi all’incalzare degli Arabi, non senza averne assimilato certe tecniche quali il terrazzamento, largamente praticato in Etiopia e in Arabia.
Tuttavia, la tecnica delle colture a terrazzo non è propriamente araba, poiché è riscontrabile anche presso i Kabre del Togo settentrionale. In realtà sembra che tre fattori ab-biano spinto queste regioni verso una simile evoluzione: innanzitutto l’uso del ferro, come stanno a dimostrare i numerosi resti di tubazioni; in secondo luogo la concentrazione demografica in società altamente solidali tra loro e con preoccupazioni di ordine difensivo; e, ultimo, forse lo stimolo al commercio provocato dalla necessità di esercitare il cabotaggio lungo il litorale africano del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. In ogni caso, questi popoli erano agricoltori, e proprio per questo sembra praticamente assodato che si trattasse di Bantu chiamati Wagnyka (da cui Tanganica) dai gruppi dediti alla pastorizia; questi ultimi, i Bahima (Lwo, Masai, ecc.), arrivati solo in fasi successive, si trasformeranno in aristocrazia che conserverà gelosamente le caste dei fabbri ferrai e dei minatori pur considerarli esseri inferiori, nello stesso modo in cui i Somali giudicavano effeminati i tumal (fabbri), anche se questi artigiani-agricoltori erano i fabbricanti delle armi usate da guerrieri-pastori.
(Ki-Zerbo, p. 230-231)
In quest’area geografica del continente nero non sorge qualcosa di analogo a quanto invece compare altrove, e quindi un regno, o un dominio incontrastato che si trasforma in un impero, quando anche altre tribù e altre etnie vengono coinvolte e annesse con la forza o comunque protette, purché dimostrino collaborazione. E tuttavia quelle popolazioni che oggi sono divise in sistemi statuali segnati da confini decisi nelle cancellerie europee, vivevano un tempo, e in parte vivono anche oggi, secondo i loro movimenti legati alla pastorizia, pur dovendo riconoscere la propria cittadinanza in un determinato paese piuttosto che in un altro per avere lì il domicilio. Le delimitazioni confinarie decise dai governi non esistono per loro, ma esiste la coabitazione con gruppi diversi mediante il riconoscimento del proprio territorio e del proprio spazio vitale. Semmai è la conformazione geografica del territorio a stabilire gli spazi da occupare ed è il comune sentire mediante lingue affini a creare intese, alleanze e la gestione del territorio. Qui, nella parte meridionale del continente, non abbiamo qualcosa di analogo ai regni presi in considerazione, rilevanti, indubbiamente, e, nel contempo, non i soli a fare la storia di questo immenso spazio occupato da tribù diverse. Gli imperi, considerati rilevanti nel periodo storico che precede la colonizzazione europea durante l’Ottocento, hanno conosciuto alcuni contatti con coloro che si avventuravano lungo le coste; invece quelli collocati nella parte meridionale del continente non appaiono toccati dalla presenza di esploratori e navigatori, i quali solo con il XVI secolo si affacciano sulle rotte dall’Oceano Atlantico a quello Indiano.
I Portoghesi si limitano a collocare approdi per il loro percorso attorno all’Africa, che ha di mira i mercati indiani e non hanno mai l’intento di penetrare nel territorio alla scoperta di tesori o di prodotti da commerciare. Eppure all’interno rimangono ancora oggi tracce di costruzioni che fanno pensare a uno sviluppo degno di nota
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I RESTI DEL GRANDE ZIMBABWE
All’interno dell’odierna Rhodesia (chi scrive deve ancora usare questo nome per indicare lo Stato ex colonia inglese, che, divenuto indipendente, rimane in mano ai bianchi; costoro qui sono nati e si sono insediati, conservando i loro possedimenti e la loro supremazia), nella savana rasa del Mashonaland cosparse di affioramenti di granito penepianici (cioè spianati e livellati in seguito all’erosione di antiche catene di montagne), in prossimità di Fort Victoria, si erge un insieme di rovine monumentali: è il Grande Zimbabwe. In realtà la parola zimbabwe significa “la grande cava di pietra” (solitamente la residenza di un capo), e la regione pullula di rovine di questo genere. Ma per la loro dimensione quelle di Fort Victoria costituiscono lo Zimbabwe per eccellenza. Sono vestigia abbastanza nettamente divisibili in tre settori diversi; innanzitutto un grande recinto ovale di due chilometri e mezzo di circonferenza, il cui asse maggiore misura quasi un chilometro. Il muro è di pietre a secco disposte in modo mirabile; i blocchi sono di spessore considerevole (fino a sette metri), il che ha consentito di raggiungere un’altezza di circa dieci metri.
All’interno del recinto, cui si accede attraverso delle porte, vi è tutta una serie di passaggi a zigzag o di muri paralleli e recinti interni, piazzuole, e infine in un angolo particolarmente discosto e quasi riservato due torri coniche piene, la più grande delle quali è alta dieci metri e simile a un pan di zucchero gigantesco ed enigmatico. Questo insieme di strutture ha ricevuto il nome di tempio ellittico. Settecento metri più a sud, su una collina, vi sono i resti di una fortificazione colossale che ha saputo sfruttare con grande ingegno tutte le possibilità naturali di questa località titanica: è l’acropoli. Tra questa e il tempio ellittico la valle è cosparsa di resti di abitazioni molto modeste, che permettono di datare le sottostrutture di Zimbabwe al IV secolo d.C.
(Ki-Zerbo, p. 231-232)
Sulla base delle ricerche fatte lo storico arriva a formulare delle ipotesi circa questo insediamento che fa pensare a qualcosa di grandioso per quel periodo. E in effetti non si può pensare diversamente in presenza di ruderi e di rovine davvero spettacolari che inducono a immaginare una popolazione molto ingegnosa, dotata di non pochi mezzi, e in grado con queste costruzioni di presentare un livello di difesa, e di prosperità insieme, che deve far supporre un periodo “dell’oro”. Così era, perché in questa area geografica si cercava e si distribuiva oro; come pure si commerciava l’avorio ricavato dalle zanne degli elefanti. Doveva trattarsi di un regno che appariva con connotazioni favolistiche.
Non vi sono dubbi: questo regno, sufficientemente bene organizzato per innalzare costruzioni tanto imponenti da far ritenere che abbiano richiesto tanto lavoro quanto le piramidi d’Egitto, era il regno nero detto di Monomotapa, conosciuto assai anche in Europa tramite i Portoghesi: “In Monomotapa vivevano due grandi amici”: scrive La Fontaine. Questo regno era ordinato secondo il consueto modello della monarchia negroafricana: il sovrano non si mostrava in pubblico ma se ne sentiva soltanto la voce: ogni suo minimo gesto, ad esempio un colpo di tosse, veniva imitato da tutta la corte; la sua integrità fisica era la condizione della prosperità del paese, per cui si effettuavano degli avvenimenti rituali.
(Ki-Zerbo, p. 233)
Fin qui si parla di un regno dai tratti “favolosi”, ingigantiti anche dalle colossali costruzioni che oggi appaiono in rovina. Ovviamente si deve supporre che esistano anche re e dinastie in grado di dominare la scena e di assicurare un certo prestigio a questo regno, soprattutto per le ricchezze che era in grado di offrire.
Ad un periodo di trionfi e di progressi, non necessariamente di espansione, subentra presto anche il declino, che forse deve essere attribuito in gran parte a questioni legate all’ambiente, per il sopraggiungere di carestie e di alluvioni lungo il corso dei fiumi locali.
Verso la fine del Trecento l’espansione del Grande Zimbabwe e il suo irraggiamento nel territorio circostante terminò. Nell’epoca moderna rimase uno dei più importanti centri di culto delle popolazioni shona dell’attuale Zimbabwe, che sono discendenti delle popolazioni che edificarono la sua grandezza imperiale, ma non fu mai più un centro di importanza politica. Forse la struttura del Grande Zimbabwe è stata emulata da un numero di dinastie concorrenti. Sembra che tre di queste dinastie abbiano ottenuto un grande successo nell’imporre la propria egemonia su un territorio grande almeno quanto quello dominato dal re del Grande Zimbabwe. La prima di queste dinastie è quella meglio nota come Monomotapa, un nome che i conquistatori portoghesi nel XVI secolo avevano dato al suo re, che derivava da Mwene Mutapa (“signore” e “padrone”). Questo regno fu la creazione di un gruppo dominante che, con i suoi seguaci, si mosse allontanandosi dall’altopiano in direzione nord all’inizio del XV secolo, per conquistare e dominare le popolazioni sul fronte meridionale della valle del medio Zambesi tra Tete e Zumbo, partendo dalle zimbabwes, che per mancanza di pietre di buona qualità erano costruite con legno e fango. Questi spostamenti, così come anche l’apparizione di altre dinastie rivali, quelle di Changamire e di Torwa, possono essere stati causati da qualche importante crisi economica e politica sull’altopiano. È stato suggerito che ciò potrebbe essere stato connesso in qualche modo con i gruppi sotho, che a quel tempo si stavano muovendo verso il sud, tra gli altopiani e il Kalahari. Ma è più probabile che fosse il risultato di una o più calamità naturali, come la siccità, i raccolti andati a male o le epidemie del bestiame, in un situazione dove la pressione esercitata sulle risorse della terra dalla crescita demografica della popolazione e del bestiame può aver raggiunto livelli critici. In ogni caso, una più specifica spiegazione per questo particolare spostamento della dinastia del Monomotapa vero lo Zambesi può essere fornita dalla tradizione secondo cui loro migrarono per assicurarsi migliori rifornimenti di sale. Questa può essere interpretata in termini più generali nel senso che il gruppo del Monomotopa intendeva intraprendere relazioni più strette con la principale arteria commerciale controllata dai mercanti arabo-swahili, che correva lungo lo Zambesi.
(Fage, p. 160-161)
CONCLUSIONE
Dalla fine del XII alla fine del XVI secolo l’Africa assiste a un grande sviluppo simultaneo di tutte le sue regioni dal punto di vista economico, politico e culturale: questi quattro secoli meritano veramente di essere chiamati l’età aurea dell’Africa nera. Vale comunque la pena di precisare che non si tratta in ogni caso di una partenza improvvisa: il periodo precedente è stato di intensa preparazione poiché vi si assistette alla fondazione della maggior parte dei grandi regni africani. Forse anche noi esageriamo l’importanza di questi secoli rispetto ad altri, in parte per il fatto di conoscerli meglio a causa della ricchezza delle informazioni che ci sono pervenute in proposito; si direbbe tuttavia che, dopo una fase di movimenti migratori, di contatti e di scambi più o meno benefici con l’esterno tramite gli Arabi, forse anche di sviluppo demografico più o meno massiccio, i paesi neri africani abbiano raggiunto un certo equilibrio che si è tradotto in grandi realizzazioni socio-politiche tali da metterli veramente all’unisono con il resto del mondo. Ma questo progresso vigoroso e sostenuto verrà spezzato bruscamente a partire dal XVI secolo.
(Ki-Zerbo, p. 157)
Il quadro delineato di alcuni imperi in diverse aree del continente africano rivela che, prima dell’avvento degli Europei e senza un particolare loro contributo, come potrebbe sembrare nel caso del Kongo, si erano costituiti centri di potere, che possono essere definiti integralmente africani. Ce ne sono altri, che vivono di riflesso a questi senza raggiungere quel genere di splendore che si rivela nella potenza economica e nella deterrenza militare. Comunque un po’ dappertutto le popolazioni locali erano in grado di creare aggregazioni e di organizzarsi per avere il proprio spazio e la propria autonomia. Alcune, come quelle prese in considerazione, sapevano innalzare costruzioni grandiose, produrre opere artistiche, persino con materiale prezioso, creare centri di cultura, avviare e conservare per parecchio tempo produzioni capaci di sostenere la gente del posto e di sostenere traffici e commerci. Si può dunque parlare di una civiltà africana, che non è stata mai presa in seria considerazione e abbinata ai percorsi che altrove nel mondo si facevano per costruire un processo di civiltà. Di fatto la civiltà europea si è imposta; e nel momento stesso in cui i coloni europei occupavano il territorio del continente nero, si faceva strame di una storia che invece merita di essere conosciuta e di essere rispettata.
Ciò che fa specie è che anche nel mondo africano, anche tra uomini di cultura e di scuola si tende a non conoscere o a non considerare il passato precoloniale, come se non ci fosse nulla di rilevante, nulla che possa contribuire allo sviluppo dell’umanità. È perciò quanto mai necessario che una nuova generazione di storici africani ricerchi, senza schermi ideologici e senza precomprensioni legate alla cultura europea, il cammino prodotto nel corso dei secoli dagli Africani stessi, con le proprie capacità, perché sia possibile raccogliere il contributo specifico che l’uomo africano può dare ad altri popoli con i quali condivide il cosiddetto “villaggio globale”.
La posizione più radicale a questo riguardo è quella che consiste nel dire che la storia dell’Africa (nera) non esiste. Nella sua Filosofia della storia del 1830 Hegel affermava: “L’Africa non è una parte storica del mondo, non offre alcun movimento o sviluppo, alcuno svolgimento storico proprio …”. Nel suo manuale sulla storia dell’Africa Orientale, Coupland scriveva (nel 1928, però): “Sino a D. Livingstone si può affermare che l’Africa propriamente detta non aveva avuto storia. La maggior parte dei suoi abitanti era rimasta per tempi immemorabili sprofondata nella barbarie. Tale doveva essere stato il decreto della natura. Restavano stagnanti, senza progredire né regredire”. (…) Nel 1957 P. Gaxotte senza scomporsi scrive sulla “Revue de Paris”: “Questi popoli (sapere di chi si tratta …) nulla hanno dato all’umanità, e deve esservi stato in loro qualche cosa che lo abbia impedito. Non hanno prodotto nulla, né Euclide, né Aristotele, né Galileo, né Lavoisier, né Pasteur. Le loro epopee non sono state cantate da nessun Omero”. Certo, Bela Faseke, lo stregone malinka di Sun Dyata, non si chiamava Omero. (Ki-Zerbo, p. 4-5)
BIBLIOGRAFIA
1.
Joseph Ki-Zerbo
STORIA DELL’AFRICA NERA Un continente tra la preistoria e il futuro
Ghibli – 2016
2.
John Reader
AFRICA Biografia di un continente
Mondadori – 2022
3.
John Fage
STORIA DELL’AFRICA Sulle tracce di una leggenda
Odoya, 1995
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