Introduzione: il quadro di allora e di oggi
Sono trascorsi 100 anni dall’assetto che l’Europa ha assunto al termine del conflitto mondiale. Come già si diceva allora, quella soluzione appare temporanea: dagli esperti di quei giorni fu paventato che un conflitto sarebbe poi scoppiato negli anni successivi; così oggi, anche se sull’orizzonte non ci sono propriamente delle ombre che fanno presagire un nuovo conflitto (anche perché si ha più che mai l’avvertenza che i disastri sarebbero davvero ampi e incalcolabili), ci si rende conto che lo stesso assetto geografico è sempre fragile, ma lo è ancora di più quello politico. Non solo; l’Europa rischia sempre più l’irrilevanza, anche se oggi conserva un certo peso di natura economica, finanziaria e commerciale, seppure minato da nuove “tigri” rampanti che stanno affiorando sullo scenario del mondo. Evidentemente il quadro che oggi l’Europa presenta ha in sé le scelte e gli errori che sono stati fatti allora e che ancora non vedono una seria rilettura che permetta, quanto meno, di comprendere quali siano i problemi irrisolti, soprattutto in quel “ventre molle” dell’Europa che è in modo particolare la cosiddetta Mittel-Europa e più ancora la penisola balcanica. Quanto si è prodotto con il trattato di Versailles, senza una giusta considerazione dei criteri che si sarebbero dovuti seguire, ha lasciato in eredità situazioni che ancora oggi appaiono irrisolte.
Neppure sui libri di storia, usati nelle scuole e che poi lasciano una certa immagine nell’opinione pubblica, alcuni momenti, come quello in esame, sono stati trattati con sufficiente chiarezza, per quello che si può stabilire a partire dai documenti e dalle analisi che sono state svolte in seguito da persone competenti. Soprattutto a proposito del quadro europeo che sta ad est, il nostro modo di considerare quell’assetto ha badato di più ai revanscismi italici circa i territori sull’Adriatico, la cui storia viene considerata appartenente alla penisola per una eredità che è legata ad altri schemi.
E comunque, c’è sempre stata una grande ignoranza circa il quadro etnico e culturale presente in un territorio dove si erano sempre manifestati fenomeni di imperialismo o di dominio che provenivano da fuori. Tutto l’oriente europeo è sempre stato territorio di appetiti che vedevano in continuazione lo scontro fra diverse forme di imperialismo in nome dell’appartenenza al mondo germanico, slavo o turco. L’eredità lasciata dall’Ottocento è proprio quella di imperi sempre più lanciati verso oriente e nel contempo dell’insorgere di nazionalismi che contrastavano queste forme di imperialismo ereditate dal passato. Il primo conflitto mondiale si è scatenato proprio qui e in modo particolare per chiarire, non a livello diplomatico, ma con l’uso delle armi, come si doveva ripensare l’assetto di questo territorio così complesso. Quando le armi tacciono, non perché propriamente vi sia un vincitore sul campo, ma perché c’è uno sfinimento generale, legato a malattie diffuse, come la spagnola, e a una carenza di approvvigionamenti, la palla viene rilanciata alla politica, la quale tuttavia non è in grado di affrontare in modo serio i problemi che si trascinavano sul tappeto. Si arriva così al Trattato di Versailles, che di fatto si snoda in diversi trattati disposti dalle potenze vincitrici con i singoli Paesi sconfitti, obbligati ad accettare e a firmare le ingiunzioni non trattabili.
In generale si considera il Trattato di Versailles, che ridisegna la cartina geografica, come una nuova costruzione dell’Europa, in cui si guarda alla Germania come responsabile del conflitto; in realtà esso era scoppiato non tanto per una sua politica aggressiva, quanto per la fragilità del quadro balcanico. Di fatto non siamo in presenza di un Trattato, che dovrebbe portare i contraenti al tavolo delle trattative a discutere insieme, pur da posizioni diverse in relazione all’esito del conflitto. Qui i perdenti neppure sono invitati alla Conferenza, se non a cose risolte e con l’ingiunzione di firmare, senza discutere, quanto i vincitori hanno decretato. Sul piano storico molto si è discusso circa le cose imposte alla Germania, ritenuta la responsabile della guerra; ben poco si è detto invece delle altre Potenze sconfitte, che di fatto sembrano sparire dal concerto delle nazioni europee: L’Austria-Ungheria si dissolve e l’Impero ottomano non solo viene ridimensionato nei suoi confini attuali, ma addirittura rischia di sparire, perché le potenze vincitrici avevano inizialmente pensato ad una suddivisione mediante una occupazione di fatto da parte di esse, senza neppure tener conto delle diverse nazionalità che vi abitavano e che tuttora ci sono.
La questione dei Trattati nella Conferenza di Versailles
Qui è il caso di prendere in considerazione quei trattati che sono elaborati dalle potenze vincitrici nei confronti dei singoli Stati sconfitti e che si sono arresi negli ultimi giorni di ottobre o nei primi di novembre del 1918. Tra l’armistizio e il trattato unilaterale che viene imposto e firmato con “l’arma puntata” e quindi con la minaccia di riprendere le ostilità, passano alcuni mesi che vedono nel frattempo un susseguirsi di eventi drammatici un po’ ovunque, ma in modo particolare laddove gli Stati sconfitti faticano ad esprimere un governo che sia in grado di mantenere l’ordine e di avviare la ripresa delle attività, in un contesto di totale impoverimento, anche se le operazioni militari si erano mantenute sulle trincee di divisione fra i diversi schieramenti. Dovremmo prendere in considerazione ciascun trattato e soprattutto la situazione esplosiva presente in modo particolare in quel periodo nelle nazioni sconfitte. Emergono così alcune questioni che appaiono ancora oggi irrisolte, soprattutto se consideriamo la frammentazione di vari Stati nel cuore dell’Europa e l’assoluta mancanza di un progetto di aggregazione o di federazione che permetta all’Europa di evitare nuovi conflitti, sempre incombenti, come dimostrano ancora certe situazioni dell’Est europeo.
LA DISSOLUZIONE DELL’IMPERO ASBURGICO
Forse non è del tutto noto che l’Impero asburgico (da definirsi in tal modo, perché tutto era centrato sulla figura dell’Imperatore di casa d’Asburgo), dal 1867 assume una nuova configurazione. Estromesso dal Reich germanico con la guerra austro-prussiana del 1866, per cui la corona imperiale non riguarda più la Germania, l’Impero di derivazione medievale cerca il suo spazio vitale verso l’oriente, perdendo così progressivamente la sua fisionomia di Impero centrale e soprattutto di lingua tedesca. Al suo interno le diverse nazionalità premono per il riconoscimento di una maggiore autonomia. Fra tutte le nazionalità c’è quella dominante ungherese, che rivendica l’indipendenza e ottiene di fatto, con il compromesso del 1867, una pari dignità con l’Austria, per cui nasce una nuova nazione, e l’Imperatore d’Austria riceve il titolo e l’incoronazione come re di Ungheria. Anche a non avere un proprio esercito, anche a non avere una propria politica estera, l’Ungheria gode in un proprio governo e di un proprio parlamento. Sulla base di questo rapporto che si è creato fra le due nazioni, il nuovo Stato appare bicefalo e di fatto la responsabilità della guerra ricade non solo sull’Austria ma anche sull’Ungheria; non altrettanto per le altre nazionalità dell’Impero, le quali nella sua dissoluzione vedranno riconosciuta la propria indipendenza con un territorio che di fatto sacrifica soprattutto l’Ungheria: essa non si vede riconosciuta, ancora oggi, gran parte dei territori che sono abitati da forti minoranze magiare. Nei giorni in cui la guerra va a concludersi, senza di fatto un vincitore sul campo (nonostante la declamazione della vittoria da parte italiana nella battaglia di Vittorio Veneto, che fu certo l’ultimo scontro tra i due eserciti e che sembrava diventare così un rivincita di Caporetto), abbiamo con la disgregazione dell’esercito austriaco la conseguente dichiarazione di indipendenza delle diverse nazionalità, che l’Imperatore Carlo aveva voluto riconoscere, tardivamente, nei giorni precedenti. Se da parte italiana si declama la vittoria in campo aperto e la conseguente conquista dei territori di Trento e di Trieste, mentre, secondo il bollettino della vittoria stilato da Armando Diaz, “i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”, in realtà mancarono i rincalzi per resistere nella battaglia e i soldati delle diverse nazionalità si dispersero alla notizia che nella loro terra d’origine si dichiarava l’indipendenza. Ben più drammatica è la situazione che si crea in Austria e in Ungheria …
Consideriamo ciò che si crea nei giorni in cui viene conclusa la guerra con l’armistizio firmato a Villa Giusti con l’Italia, il 3 novembre 1918.
Il 30 ottobre il porto austriaco di Fiume, che due giorni prima era stato dichiarato parte dello Stato slavo meridionale, proclamò la propria indipendenza chiedendo di unirsi all’Italia. A Budapest, quando l’imperatore invitò il conte Kàrolyi a formare il governo, gli ungheresi colsero l’occasione per costituirsi in entità separata. Kàrolyi accettò l’incarico e poi, con il consenso di Carlo, non solo rescisse i legami che avevano tenute unite l’Austria e l’Ungheria fin dal 1867, ma dimostrò l’esistenza dell’Ungheria come nuovo Stato indipendente intavolando in proprio trattative per l’armistizio con le forze francesi in Serbia. In quello stesso 30 ottobre, quando l’Austria-Ungheria era ormai una cosa del passato, Carlo consegnò la flotta austriaca agli slavi meridionali e la flottiglia del Danubio all’Ungheria. A Vienna ci furono dimostrazioni di operai e studenti contro la monarchia. Quella sera la delegazione austriaca per l’armistizio arrivò in Italia, a Villa Giusti, nei pressi di Padova. (Gilbert, p. 591)
Come si può notare dal testo, gli avvenimenti precipitano e si susseguono senza sosta, con cambiamenti che impediscono di poter valutare meglio la situazione e di capire con chi si sta trattando e che cosa di fatto si può trattare in maniera conseguente. Se sul fronte esterno le armi tacciono, nel fronte interno si creano situazioni esplosive che portano a scontri armati fra diverse fazioni.
Il 1 novembre la città di Sarajevo, dove quattro anni e cinque mesi prima era stato assassinato l’erede al trono asburgico, si dichiarò parte dello “Stato sovrano degli slavi meridionali”. Nello stesso giorno il popolo della Rutenia dichiarò la propria indipendenza. A Vienna e a Budapest scoppiò la rivoluzione. Il 31 ottobre nella capitale ungherese le guardie rosse uccisero l’ex primo ministro conte Tisza. Il 2 novembre rinforzi tedeschi, trasferiti dal fronte orientale a quello occidentale, si ammutinarono e si rifiutarono di combattere. A Vienna un reggimento di fanteria ungherese che prestava servizio di guardia al palazzo imperiale di Schonbrunn, abbandonò la postazione e fece ritorno in Ungheria … Il 3 novembre l’Austria firmò l’armistizio che entrò in vigore il giorno successivo. A Vienna intanto continuava la rivoluzione rossa … Il 3 novembre gli italiani entrarono a Trento. (Gilbert, p. 594)
Prima che si arrivi a decidere del nuovo assetto europeo, già molte cose stavano cambiando sul terreno, più che sulle cartine geografiche, e tra gli Stati, nei quali era possibile una rivoluzione rovinosa, c’erano proprio quelli che costituivano l’ossatura di un impero ormai in disfacimento totale, cioè l’Austria e l’Ungheria. Se le altre popolazioni dell’Impero asburgico potevano far sorgere una realtà politica locale in ragione della determinazione dei popoli, sventolata nei 14 punti di Wilson, qui invece, dove sembrava che già tutto fosse costituito, perché già erano riconosciute sia l’Austria, sia l’Ungheria, era tutto in realtà da ricostruire sullo sfacelo totale di un sistema che non reggeva più.
Il millenario impero degli Asburgo venne frantumato in nome del principio di nazionalità; e nel decidere il trattamento dei residui, si stabilì che la repubblica d’Austria e il regno (senza re) d’Ungheria fossero da considerarsi vinti, mentre vincitori erano tutti gli altri. Così 3,2 milioni di ungheresi vennero spartiti tra Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia.
Il primo dei trattati “secondari” fu firmato con l’Austria a Saint-Germain il 10 settembre 1919. All’Austria, cui fu vietato di denominarsi “repubblica dell’Austria tedesca”, fu lasciato un esercito di 30.000 uomini e furono imposte astronomiche riparazioni, che l’Austria, subito travolta dal caos economico e monetario, non fu mai in grado di pagare. L’Anschluss, cioè l’unione con la Germania venne espressamente proibito senza il consenso della Società delle nazioni. (Silvestri, p. 277)
Di fatto, proprio perché l’Impero era costituito da due nazioni, considerate entrambe responsabili della guerra, a queste due nazioni fu imposto il trattato di pace, con cui esse dovevano pagare le conseguenze delle loro azioni sia in termini di decurtazioni degli armamenti e dei territori, sia in termini di risorse finanziarie da versare come riparazioni di guerra.
IL TRATTATO DI SAINT-GERMAIN CON L’AUSTRIA
Il 10 settembre 1919 l’Austria firmò il trattato di Saint-Germain con le potenze alleate e associate. All’Italia cedette l’Alto Adige, l’Istria, parte della Dalmazia e delle isole adriatiche. La Bucovina passò alla Romania. Le ex province slave meridionali di Slovenia, Croazia, di gran parte della Dalmazia, di Bosnia ed Erzegovina si unirono alla Iugoslavia e Sarajevo, teatro dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a opera di Gavrilo Princip, venne posta sotto il controllo slavo. Fu riconosciuta l’indipendenza dell’Ungheria, così come quella della Polonia e della Cecoslovacchia. Alla Polonia vennero assegnate le ex province austriache della Galizia occidentale e orientale, comprese le città di Cracovia e Leopoli. Alla Cecoslovacchia furono assegnate le ex province austriache di Boemia e Moravia, compresa la regione tedescofona dei Sudeti. L’Austria non poteva avere un esercito di più di 30.000 uomini, né possedere forze aeree e le era fatto divieto di unificarsi con la Germania. (Gilbert, p. 627)
“Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo”. Così recita il punto 10 dei 14 che Wilson aveva indicato come base di discussione per la Conferenza di Versailles. È l’unica nota che tratta propriamente di questi due Paesi, anche se l’espressione, scritta prima della fine del conflitto, fa supporre che egli si riferisca a quanti facevano parte dell’Impero senza alcun riconoscimento di nazionalità. Dovremmo presupporre invece che Austriaci e Ungheresi avessero già il loro pieno riconoscimento; ma, in quanto responsabili della guerra, finivano per pagare, come in effetti avvenne, più del dovuto, non solo per impoverimento territoriale, ma anche per un insufficiente riconoscimento di quel ruolo che questi popoli e il loro Stato avevano avuto per almeno un millennio sulla storia d’Europa. La stessa Austria che aveva avuto responsabilità di governo nell’Impero multinazionale si vedeva estremamente ridotta e non più adeguata al ruolo che aveva fin qui svolto.
I primi anni della neonata repubblica austriaca furono parecchio concitati non solo per la difficoltà a costituire un governo stabile, ma anche per la grave crisi economica, quella che aveva condotto a concludere la guerra anche senza una sconfitta decisiva sul campo. Inoltre le decurtazioni territoriali, tra cui il Tirolo atesino, di fatto occupato dall’Italia, come pure la questione di Klagenfurt nella parte meridionale della Carinzia, rivendicata dagli Jugoslavi, si accompagnavano anche alle difficoltà di altre regioni del Paese, che sembravano non coesistere in un unico Stato. Si formò così uno Stato federale, che rinacque dopo l’esperienza dell’austrofascismo di Dolfuss, dell’Anschluss hitleriano e della guerra.
IL TRATTATO DI TRIANON CON L’UNGHERIA
Con l’Ungheria il trattato venne stipulato molto più tardi, anche perché nel frattempo erano in corso turbolenze politiche non indifferenti, che impedivano di arrivare ad una conclusione delle decisioni prese con questo Stato, il cui governo non riusciva né a stabilirsi e neppure a stabilizzare la società ungherese. Le vicende legate a questo Trattato sono piuttosto lunghe e complesse anche per la situazione logistica in cui si trovava l’Ungheria circondata da nuovi Stati che volevano sottrarre ad essa territori che pure erano abitati da magiari e che del resto erano anche importanti sotto il profilo economico.
La firma del trattato venne ritardata di quasi un anno per due ragioni. Anzitutto la rivoluzione ungherese (21 marzo), causata dalle continue richieste romene e cecoslovacche di estendere la loro zona di occupazione, dall’irritazione prodotta in Ungheria dal trattamento fatto alla popolazione magiara nei territorî occupati, dalla difficile situazione creata dalle barriere economiche stabilite dai nuovi stati e dalla conseguente perdita di mercati e di materie prime, dalla disillusione e dallo scoraggiamento prodotti dalle incertezze e dalle lungaggini della conferenza. Caduto il governo di Béla Kun gli alleati si rifiutarono di trattare con quello legittimista che gli succedette. In secondo luogo il ritardo fu dovuto alla rottura prodottasi in giugno fra la conferenza e Bratianu, capo del governo romeno.
Così solo quando si ebbe un nuovo governo romeno che accettò di sgombrare l’Ungheria (14 novembre 1919), e quando in Ungheria venne costituito un governo, riconosciuto dagli Alleati (25 novembre), fu invitata una delegazione ungherese. Questa, composta dai conti Apponyi, Teleki e Bethlen, arrivò a Parigi il 7 gennaio 1920. Il 16 gennaio, nel ricevere le condizioni di pace, Apponyi con un discorso famoso criticò efficacemente le contraddizioni nelle quali erano incorsi gli Alleati, i quali, nel fissare le frontiere, avevano successivamente fatto appello al principio storico, a quello etnografico, a quello economico, per favorire i nemici dell’Ungheria, e così avevano ridotto questa a circa un terzo del territorio e della popolazione di prima, tagliando fuori quasi tre milioni di Magiari, dei quali alcuni costituivano nuclei compatti adiacenti al resto dell’Ungheria, e soprattutto avevano rotto un’unità economica, favorevole in definitiva a tutti. La risposta ungherese particolareggiata seguì il 10 febbraio. Il 6 maggio seguì la replica degli Alleati, basata soprattutto sugli argomenti forniti da Cecoslovacchia, Romania e Iugoslavia, e con la quale si rigettavano quasi tutte le argomentazioni ungheresi e si facevano solo concessioni di secondaria importanza, concedendo 10 giorni per l’accettazione definitiva. Apponyi allora diede le dimissioni, e il 17 maggio gli venne dato il successore, che il 4 giugno 1920 firmò il trattato, ratificato il 13 novembre dal parlamento.
Come si vede, i problemi erano assai complessi, e tali sono rimasti, perché ancora oggi l’Ungheria rivendica territori che sono fuori dei suoi confini attuali e che sono abitati da popolazione di lingua e di cultura ungherese. Ancora oggi il Paese deve fare i conti con questa realtà irrisolta e che si mantiene viva nella coscienza popolare.
Se il Trattato non va in porto in pochi giorni, come era successo per l’Austria, ciò lo si deve alla complessa situazione che l’Ungheria deve fronteggiare, sia all’interno, sia nei rapporti tempestosi con gli Stati confinanti. È opportuno seguire in questo caso la complessa situazione.
Un governo conservatore con simpatie socialiste
La figura di spicco in questo periodo, per quanto la sua politica non abbia dato buoni risultati al suo Paese, è quella di Mihaly Kàrolyi (1875-1955), definito il “conte rosso”, per le sue simpatie nei confronti del mondo socialista e della sua tendenza a voler stabilire buoni rapporti con la Russia sovietica nella prospettiva di guadagni territoriali. Al momento dell’armistizio lui è primo ministro per pochi giorni. Diventa capo dello Stato e nello stesso tempo conserva il ministero degli Esteri per poter trattare con le potenze vincitrici.
Istituito il suffragio universale e permesse la libertà di stampa e di associazione, il governo avvia anche un programma di nazionalizzazioni e il 16 febbraio promulga una legge di riforma agraria che, pur non intaccando il principio della proprietà, per la prima volta prevede la formazione di una fascia di piccoli e medi proprietari incentivati da un sistema di acquisti agevolati. Il provvedimento non risolve certo i problemi delle masse rurali e finisce perciò con il rafforzare le posizioni della sinistra rivoluzionaria che promuove l’occupazione delle terre accentuando il conflitto con i grandi proprietari terrieri. Ormai privo del sostegno dell’ala destra del suo stesso partito, Kàrolyi cerca il supporto degli elementi radicali della borghesia e tenta di consolidare i legami con i socialdemocratici moderati per contrastare la crescente minaccia rappresentata dai comunisti …
Il sostegno ai comunisti registra così un costante aumento anche a causa dell’irrisolta crisi internazionale e delle crescenti difficoltà economiche. L’Ungheria, isolata dalle sue antiche fonti di materie prime, è sottoposta a un vero e proprio blocco economico da parte degli Stati che acquisiscono in momenti diversi porzioni del suo territorio … e deve perciò far fronte alla diminuzione della produzione agricola mentre non riesce a far ripartire la produzione industriale. (Biagini, p. 89-90)
Sono ancora di più le dure condizioni del trattato di pace che considerano l’Ungheria alla pari con l’Austria e con la Germania come responsabile del conflitto, a spingere il governo, che rappresenta le forze conservatrici nel Paese, a cercare un alleato favorevole presso la Russia comunista. Qui va registrata la responsabilità della Francia, che vorrebbe diventare l’ago della bilancia nei Balcani, quasi a voler escludere ogni altra interferenza, compresa quella dell’Italia, nell’assicurare protezione ai nuovi Stati che apparivano quanto mai deboli sotto tutti gli aspetti. Con l’esercito smobilitato e l’armamento insufficiente l’Ungheria sembrava alla mercé soprattutto dei vicini Serbi e Romeni. Così socialdemocratici e comunisti trovano modo di creare un’alleanza che dà loro la possibilità di governare.
Un governo rivoluzionario di stampo sovietico
Non a caso comunisti e socialdemocratici trovano l’accordo (21 marzo) su un programma che accoglie quasi completamente la piattaforma proposta dai comunisti a Bogar. Si costituisce il Partito socialista d’Ungheria che può contare su una buona base organizzativa e di consenso, si forma un Consiglio governativo rivoluzionario e l’Ungheria viene proclamata Repubblica dei Consigli sul modello dei soviet. L’autorità centrale e periferica viene prontamente assunta dai Consigli operai, Bela Kun diventa commissario del popolo per gli Affari Esteri ma nei fatti è il vero leader del nuovo regime. (Biagini, p. 91)
Questo governo ha vita breve e tuttavia si presenta all’interno con una politica di stampo comunista e per quanto riguarda la politica estera con una posizione fortemente nazionalista in difesa dei confini di una patria che doveva corrispondere a quella tradizionale e che evidentemente contrastava con le pretese dei Paesi confinanti, tutti umiliati durante gli anni precedenti il conflitto, quando la politica ungherese impediva ogni genere di riconoscimento delle nazionalità dentro la monarchia dualista. In questo modo si riaccese il conflitto, anche perché la Francia non voleva assolutamente che si realizzasse nel territorio dei Balcani una forma di governo come quella in atto in Russia ed esigeva che fossero rispettati gli obblighi dettati nel Trattato di pace, che era in realtà un diktat. Si potrebbe dire che in questa circostanza, proprio con questo rigurgito nazionalista, che appare una caratteristica costante della storia dell’Ungheria moderna, questo Paese dimostra di voler contare in Europa, diversamente da come viene trattato in relazione alla legittime rivendicazioni che sono in linea con i principi proposti dal presidente americano Wilson. Di fatto Bela Kun respinge le nuove proposte fatte dalla Gran Bretagna, che sembravano più favorevoli di quelle indicate e pretese dalla Francia, isolandosi così sempre più nel momento in cui i rivoluzionari russi non potevano dare nessun tipo di aiuto avendo problemi non indifferenti al loro interno per la guerra civile fra l’Armata Rossa e quella Bianca. Il governo ungherese comunque ha ben altri problemi rispetto a quelli di politica estera, perché nel frattempo anche all’interno il sistema collettivistico che Bela Kun voleva imporre incontra resistenza anche presso i contadini e più ancora la repressione sanguinosa messa in atto aliena le simpatie di molti per il governo.
Un governo con l’uomo forte
Ha così buon gioco la reazione che trova l’uomo forte in Miklos Horty (1868-1957). Se il governo socialista usava metodi forti, ancor di più quello instaurato da Horty, anche con forti venature antisemite: è il primo governo che attua legislazioni non favorevoli agli Ebrei ungheresi, volendo limitare la loro presenza nelle scuole, nelle università e nelle responsabilità di governo.
La repressione è dura, gli eccessi sono tali da far parlare di terrore bianco – analogamente al precedente terrore rosso –, Horty ha delle indubbie responsabilità e del resto il suo noto anticomunismo lo porta a considerare come traditori della patria tutti quelli che a qualsiasi titolo e per qualsiasi motivo abbiano collaborato con il regime bolscevico. È necessario l’intervento internazionale per ottenere la costituzione di un sistema politico parlamentare, almeno in linea di principio, col diritto dell’opposizione ad avere i suoi rappresentanti. Si forma così il nuovo governo (25 novembre) sotto la guida di Kàrolyi Huszàr attorno al quale si raccoglie una coalizione composta da cristiano-nazionali, liberal-nazionali, agrari, e del Partito dei piccoli proprietari, cui aderisce anche la parte di socialdemocratici che si era opposta alla presa del potere dei comunisti ma che, pur riuscendo a inserirsi nel sistema pluripartitico, deve accettare comunque un rapporto subalterno alla maggioranza conservatrice. (Biagini, p. 98)
Ma per arrivare a un governo più stabile occorre andare di nuovo alle urne, anche con il problema della forma di Stato che si vuol instaurare. Fin qui era evidente che ci fosse la repubblica. Ma un simile sistema non apparteneva alla lunga storia dell’Ungheria e soprattutto alla gran parte della gente, che è di fatto su una linea molto conservatrice. Sembra che fosse più idoneo a far sperare in una grande Ungheria, anche sotto il profilo territoriale, mettere in campo un sistema di tipo monarchico, soprattutto se si volevano contrastare le mire espansionistiche rappresentate dai paesi slavofoni circostanti, che avevano l’istituzione monarchica come quella più adatta a far trionfare il senso dello Stato e dell’appartenenza etnica. Caso più unico che raro nella storia, qui noi abbiamo una Ungheria monarchica, che di fatto non ha mai un re. Il suo capo di Stato si fa nominare reggente, in attesa che la monarchia asburgica possa tornare, mentre essa non gode affatto delle simpatie degli Stati vincitori e soprattutto degli Stati confinanti. Evidentemente, l’ammiraglio Horthy, che fu reggente dal 1920 al 1944, quando fu deposto dal suo stesso alleato Hitler per poter gestire direttamente il fronte della guerra, desiderava questo ritorno degli Asburgo, pur dovendo constatare che i tempi non erano maturi.
Ricostituito il Parlamento, la questione più importante dal punto di vista della forma istituzionale è la scelta fra monarchia e repubblica. All’esterno le grandi potenze, gli Stati Uniti in particolare, sono contrarie al mantenimento della forma monarchica nel timore che possano riprendere corpo progetti velleitari e forieri di possibili nuovi conflitti, per il ritorno alla consistenza territoriale del regno dell’Ungheria storico; all’interno invece il Parlamento prende proprio la decisione opposta, quella cioè di mantenere in vita il regime monarchico per non interrompere la continuità giuridica dello Stato. Applicando un antico precedente, vota la reggenza e la affida all’ammiraglio Horthy. Questi si avvale del sostegno dei militari (che il 1 marzo occupano il Parlamento) e della maggior parte dei politici che sono avversi a quanti sostengono il ritorno della dinastia asburgica sulla base della mancata abdicazione formale di Carlo IV. Malgrado quest’ultimo accarezzi inutili sogni – tenta invano di riconquistare il potere per ben due volte (marzo e ottobre 1921) – l’ipotesi è decisamente contrastata dagli stati vicini che non ignorano i pericoli legati a una restaurazione legittimista e dunque alla possibile revisione dei confini a favore dell’Ungheria. In conclusione, contro i tentativi di restaurazione prevale l’opposizione di Horthy e delle forze armate che gli sono fedeli. Con efficace sintesi si dirà che l’Ungheria è “una monarchia senza re governata da un ammiraglio senza flotta”. (Biagini, p. 98-99)
Giudizio storico sulla posizione dell’Ungheria
Il quadro fin qui descritto mette in luce una realtà a tinte fosche: il Paese mitteleuropeo storicamente è sempre stato considerato una specie di territorio antemurale in difesa dell’Europa cristiana contro le invasioni di orde asiatiche, poi ben organizzate con l’Impero turco intenzionato con la guerra santa a portare l’Islam nel cuore dell’Europa; ora, dopo secoli in cui con altalenanza sembrava sparire e risorgere, rischiava effettivamente di essere travolto dagli eventi e questa volta non per colpa di imperi orientali, quanto piuttosto per gli alleati occidentali, che sembravano ignorare la funzione svolta dall’Ungheria nel corso della storia europea. La ricerca di una compattezza nazionale in nome di una religione che era certo quella cristiana, ma vissuta in forma particolare e cioè con una forte connotazione nazionale, richiedeva non solo la pulizia rispetto al mondo slavo circostante, che di fatto occupava territori con maggioranza magiara, ma anche rispetto al gruppo ebraico, sentito come una presenza spuria; e tutto questo veniva anche affermato contro le pretese delle potenze occidentali che riconoscevano la funzione o la missione dell’Ungheria in Europa. Già 100 anni fa troviamo in questo Paese caratteristiche che pure oggi riaffiorano e che dunque fanno parte integrante di una certa concezione di vita che la storia consegna e che soprattutto in certi momenti delicati della storia patria, quando tutto sembra crollare, riaffiora quasi a voler salvaguardare ciò che si avverte essere essenziale.
Si potrebbe dire che proprio questi anni nei quali l’Ungheria cerca finalmente la sua vera anima, cerca di esprimere la sua immagine come nazione ormai libera, affiorano quelle caratteristiche che accompagnano la millenaria storia di questo Paese un po’ anomalo nel contesto geografico. Si tratta di un popolo di origine asiatica, come si evidenzia anche dalla sua lingua, che, adottando la religione cristiana attorno al Mille, entra a far parte integrante del continente di adozione e lì costituisce la zona di difesa e nel contempo di cerniera fra mondo tedesco e mondo slavo, fra oriente e occidente. Sempre poco compreso in questa sua missione, il popolo ungherese si sente come tradito, e cerca di costruire le sue modalità originali di governarsi, passando anche in mezzo a situazioni che non lo aiutano a ricoprire quel ruolo storico che i magiari si sono ritagliati nel corso degli eventi. Certamente questo periodo storico, nel quale la nuova Ungheria sorge già umiliata, perché ritenuta responsabile del conflitto, che in realtà non aveva voluto, ma aveva dovuto subire nell’alleanza con gli Asburgo, feriti con l’assassinio di Sarajevo, segna duramente quel paese per tutto il secolo scorso e ancora l’Ungheria ne paga le conseguenze nel suo cercare un uomo forte, un governo forte, un sistema forte che ritiene sia garanzia per la sua giusta collocazione nel continente. Ma non è con l’uomo forte, anche se, come nel caso di Horthy, non arriva alla dittatura, che l’Ungheria può effettivamente giocare il suo ruolo. Ci sarebbe da considerare la cultura ungherese che ancora deve riemergere dopo anni di dittatura comunista, per cercare in essa il meglio di una eredità che è indubbiamente notevole.
Lo storico italiano, esperto di mondo ungherese, Adriano Papo, coglie così la figura un po’ enigmatica di Horthy, che ha segnato questo periodo della storia magiara:
Come uomo e soprattutto come uomo politico e reggente dello Stato, Horthy fu carismatico, talvolta volubile e frettoloso nel prendere le decisioni, istintivo, impulsivo, poco diplomatico, in certi casi però anche poco elastico e di non ampie vedute, nel complesso onesto.
Fu spesso oscillante, più che equidistante, tra l’estrema destra di Gyula Gömbös e Pàl Prònay e il centro conservatore di Istvàn Bethlen. Riuscì a mantenere in equilibrio la società ungherese forse evitando gravi conflitti che avrebbero potuto deflagrare a causa delle sue divisioni ideologiche. Non fu simpatizzante di Hitler, lo fu invece della Germania in virtù dei suoi radicati sentimenti antibolscevichi e dei suoi progetti revisionisti. Fu invece filo britannico fino alla fine della propria esperienza politica. Più che essere antisemita (alcuni cittadini di religione ebraica erano suoi consiglieri economici), nutriva i soliti e diffusi pregiudizi contro gli ebrei, che aveva classificato tra quelli “buoni” (che non erano di sinistra) e quelli “cattivi” (che oltre ad essere ebrei erano anche comunisti). Si riscattò in parte salvando alcune migliaia di ebrei alla fine della sua reggenza, ma resta il fatto che non si possono disconoscere le sue responsabilità per quanto riguarda gli atti di terrore perpetrati dall’Armata nazionale, la promulgazione delle leggi razziali, l’ingresso dell’Ungheria nella seconda guerra mondiale e il fatto di non essersi opposto all’occupazione tedesca dell’Ungheria aprendo così la strada al governo delle Croci frecciate di Ferenc Szalasi. Gli storici marxisti hanno considerato Horthy il principale promotore del clima di violenza che aveva insanguinato l’Ungheria dopo la cadu-ta della Repubblica dei consigli e il committente di tutte le atrocità commesse in questo periodo. Per contro, gli storici di destra ne hanno dato una spiegazione diametralmente opposta interpretando il “terrore bianco” come la reazione più spontanea al “terrore rosso” e ai suoi protagonisti, e ne hanno minimizzato gli atti o attribuito la paternità alla fantasia dei comunisti, dei socialdemocratici e degli ebrei. (Papo, p. 42-43)
Fu vera pace? Nient’affatto! Neppure vent’anni dopo si era già in una nuova guerra e ben più devastante. Questo fu dovuto, indubbiamente al caso della Germania, la sola che poi reagì col sistema hitleriano. E tuttavia va segnalato che il continente europeo, se vuole costruirsi, deve comprendere e – verrebbe da dire – deve “aggiustare la cerniera” che passa da Cracovia, Praga, Vienna e Budapest, le quattro capitali di stampo europeo, che costituiscono l’ossatura della Mittel-Europa e il punto di incontro o il ponte fra mondo occidentale e mondo orientale. Rimane sempre dominante lo schema che vede i Paesi centrali e atlantici, come sistemi che si impongono e che non tengono conto della funzione e della missione che hanno avuto per secoli questi Paesi e questi popoli, certamente più significativi nel sistema asburgico, di quanto non lo siano oggi nelle loro divisioni, anche territoriali, mal assortite e gestite. Ben al di là della gestione del momento e delle politiche contingenti, è necessaria una riflessione seria circa questo percorso storico, per meglio capire quale può essere il ruolo di questi Paesi, di questi popoli e di queste culture, per la costruzione dell’Europa, ancora tutta da fare.
“E’ un fatto ora ben noto – sosterrà Istvan Bethlen nel corso d’una sua conferenza tenuta a Cambridge il 23 novembre 1933 – che i trattati di pace hanno fallito nel produrre uno stato di quiete in generale nel Centroeuropa, in particolare in quella parte della valle del Danubio che, prima della guerra, costituiva la monarchia austroungarica. Le discordie tra le diverse e piccole razze, che durante il precedente impero austroungarico erano di frequenza quotidiana, ma che a quei tempi solo casualmente venivano alla vostra conoscenza, ora si fanno sentire molto più acutamente, con la differenza, però, che, mentre nel passato esse avevano creato danni soltanto all’interno della Monarchia, ora essi mettono in pericolo l’armonia della vita internazionale, cioè la pace dell’intera Europa. Il malessere che prima era stato localizzato, ora si diffonde su un territorio molto più vasto ed è sul punto d’infettare tutto il continente. Prima i medici di famiglia della Monarchia sapevano come trattare questo malessere, oggi tutti i maggiori specialisti del mondo riuniti in consulto stanno al capezzale del malato senza poterlo aiutare”. Le parole di Bethlen si commentano da sole.
Il Diktat del Trianon, frutto anche dell’incapacità delle democrazie occidentali di tracciare dei confini giusti, nel rispetto – come si pensava – dell’autodeterminazione dei popoli, fu rispettato, ma non accettato dalla stragrande maggioranza degli ungheresi. L’Ungheria pagò le sue colpe senz’altro in maniera eccessiva e fu punita più della stessa Austria, che nel medesimo trattato di pace si ritrovò in casa il Burgenland, da quasi novecento anni appartenente al Regno d’Ungheria. Un’immediata conseguenza del Trianon fu il tentativo di attuazione d’un progetto comune austro-bavarese-magiaro, elaborato sia per fronteggiare l’avanzata bolscevica che per revisionare i nuovi confini dell’Europa centrorientale sorti alla fine del Primo conflitto mondiale. A questo progetto di “controrivoluzione” europea, meglio nota come “Internazionale bianca”, idea originaria del generale bavarese Erich von Ludendorff e della sua cerchia, già alla fine del 1919 avevano aderito i quadri dell’Armata nazionale magiara, in particolare Eckhardt, Gömbös e Pronay, con l’appoggio almeno iniziale – si presume – di Horthy, entusiasta dell’idea di riconquistare l’Ungheria superiore, anche se in effetti esiste soltanto un memorandum datato 28 ottobre 1919 e firmato dallo stesso Horthy sul rovesciamento dello status quo che sarà sancito dal Trianon. Il ministro degli Esteri, Teleki, giudicò invece il progetto dell’Internazionale pura fantasia, tenuto conto dell’impreparazione militare magiara; c’era inoltre il grosso rischio che questo progetto portasse ad un nuovo conflitto europeo … Nessuno sostenne in campo internazionale l’Ungheria; alla fine Horthy cedette alle richieste di Teleki e promise di mantenere la legalità … (Papo, p, 51-52)
Forse è il caso di prestare maggior attenzione alla storia di quest’area geografica, che, se poco conosciuta, è presto poco rispettata con tutte le conseguenze che ne derivano. L’Europa, ancora da farsi, dovrebbe avere maggior considerazione e rispetto nei confronti di questi popoli, che ne possono essere il collante fra le due aree, spesso fra loro contrapposte!
BIBLIOGRAFIA.
MARTIN GILBERT – LA GRANDE STORIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE –Mondadori – Oscar, 2014.
MARIO SILVESTRI – LA DECADENZA DELL’EUROPA OCCIDENTALE: L’esplosione 1914-1922 – Einaudi – Gli struzzi, 1978.
ANTONELLO BIAGINI – STORIA DELL’UNGHERIA CONTEMPORANEA –Bompiani – Tascabili, 2006.
GISELLA NEMETH PAPO – ADRIANO PAPO – L’UNGHERIA CONTEMPORANEA – Dalla monarchia dualista ai giorni nostri – Carocci, 2008
Erba, 17 gennaio 2020 – don Ivano Colombo