NARRATORI DI PESTILENZE
Le pestilenze che si sono succedute nel corso della storia, sempre documentate, soprattutto quando i fenomeni si allargavano e incrudelivano con morie disastrose, sono entrate a far parte della letteratura, perché molti scrittori hanno costruito su queste iatture una loro visione del mondo, dell’uomo, della storia umana. Possiamo in effetti riconoscere che i testi più famosi sull’argomento sono soprattutto quelli di scrittori che sono andati ben oltre la registrazione cronachistica del fenomeno, per costruire un loro disegno, non solo funzionale al racconto o al romanzo in cui si inserisce anche l’evento della peste, ma teso a suggerire una riflessione che spesso è stata considerata di natura filosofica. Perciò, anche se quanto viene descritto ha indubbiamente uno sfondo storico, perché viene raccontato quanto succede in un territorio particolare e in un’epoca ben precisa, la finalità perseguita risponde all’impostazione che lo scrittore intende dare alla sua opera. Poi l’evento diventa pretesto per proporre considerazioni di natura filosofica: in questo caso l’evento, anche ad essere collocato in un contesto geografico e in un momento della storia, non è più racconto di ciò che è veramente successo, di ciò che lo scrittore ha visto e documentato, ma diventa luogo e momento simbolico per collocare la propria riflessione circa i temi fondamentali del vivere, come il male, il dolore, la morte. Allora non interessa più che cosa è veramente successo, appunto perché il racconto è di pure invenzione; ma non per questo il dramma perde la sua connotazione di tragedia e il discorso va ben oltre i fatti narrati, i personaggi collocati su una scena del tutto probabile, senza essere mai provata: così la peste non è più una precisa malattia che contagia il corpo, non è più una epidemia da considerare per le sue cause, scientificamente accertate, ma rappresenta quel male, sempre presente nel vivere, a cui bisogna saper far fronte, se l’uomo vuole cercare, avere e dare un senso all’esistenza, da non lasciare al puro caso o all’assurdo. Così la narrazione di una pestilenza esce dall’ambito storico, non necessariamente da quello letterario, per diventare l’occasione per una riflessione sul vivere e sul morire, come è per tutti coloro che si sono cimentati con simile argomento. In questo modo non interessa più il fenomeno come tale, ma ciò che esso rappresenta simbolicamente nel vivere, per invogliare una riflessione più approfondita sul male e sull’assurdo.
LA PESTE DI … ORANO
IN ALBERT CAMUS:
SCIENZA E FEDE
DI FRONTE AL MALE
La storia narrata nel romanzo di Albert Camus è di pura invenzione, anche a trovare come sua scena la città algerina di Orano e un anno imprecisato, ma comunque appartenente alla quinta decina del secolo scorso. “I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano.”: così inizia a scrivere l’autore, che mette subito in chiaro di non voler fare riferimento ad alcun caso particolare, perché gli avvenimenti narrati sono assolutamente dovuti alla sua fantasia. Perciò chi legge deve già sapere che non si fa riferimento ad alcun caso di cronaca, ma che la situazione descritta rimanda ad un senso di smarrimento provato per ben altro tipo di male. Tenuto conto che il romanzo vede la luce nel 1947, si deve pensare che esso sia una specie di riflessione dell’autore su ciò che è successo nel mondo con la guerra da poco conclusa. Sì, le armi tacciono e i contendenti hanno trovato i termini di un armistizio; ma ciò che ha contaminato gli animi permane con gli strascichi rovinosi, sui quali è bene riflettere. La peste, di cui si parla qui, non è affatto una malattia a livello fisico, ma è una contaminazione che ha corroso anche gli animi, e che di fatto permane nel dopoguerra, in cui la vittoria delle democrazie sulle dittature non vede del tutto debellato quel male oscuro che continua a fare danni. Il vero antidoto al male è la solidarietà: contro gli egoismi esasperati che si sono prodotti, soprattutto in Europa, nel Novecento, è necessario costruire quel senso di solidarietà umana, che si poteva immaginare di riscontrare nell’ideologia comunista, dalla quale però lo scrittore si allontana decisamente, quando anche lì vede allignare un sistema dittatoriale, che considera inaccettabile. La peste corrosiva dei sistemi totalitari che sembrava sconfitta con la guerra, insiste e dilaga quando si presentano altri “ratti”, che diffondono il morbo devastatore, soprattutto con una concezione del vivere che rinchiude sempre più in quella forma di difesa che si trasforma presto in offesa, come succede a chi per difendere i propri interessi comprime la libertà altrui, mentre in precedenza per la propria e l’altrui libertà aveva combattuto. L’autore non è affatto diretto nel tracciare queste linee di pensiero, ma lascia intendere che la vicenda da lui narrata è di fatto una metafora di quanto è già in corso d’opera, non appena è stata conclusa una guerra devastatrice, e si pensa di comprimere la barbarie disumanizzante con metodi e mezzi che sono altrettanto violenti e brutali. È ben nota la reazione molto forte che lo scrittore ebbe all’indomani delle bombe atomiche sganciate sul Giappone ormai sconfitto da parte degli Stati Uniti d’America: così la pestilenza, invece di essere bloccata, divampa e rovina sempre più. Lo potremmo allora definire uno scritto profetico in relazione a quanto stava avviandosi in Europa e nel mondo anche solo pochi anni dopo il conflitto mondiale. Come possono sempre insorgere le epidemie che scoppiano qua e là e a cui si pensa di far opera di contenimento, chiudendo chi ne è colpito in un campo di concentramento a cielo aperto, senza contatti con l’esterno, così c’è sempre il rischio che “ratti di fogna” si moltiplichino, senza che alcuno se ne avveda, con il loro carico di morte. È una denuncia molto forte, ma trattata con la maestria di chi vuol far riflettere senza ideologismi di parte, senza schemi precostituiti. Il fatto poi che si tratti di un racconto può favorire la diffusione anche oltre una certa cerchia di lettori, per suscitare un po’ in tutti domande, riflessioni, prese di posizione che interpellino le coscienze circa la reazione più corretta da avere nei confronti di un male subdolo, e comunque sempre operante. La società, stanca del conflitto, sicura di sé dopo il pericolo passato, si immagina di non dover reagire nella maniera giusta in presenza di un male oscuro e strisciante. Per lo scrittore è sempre necessario riflettere da parte di tutti, e, più ancora, di agire e di reagire, perché la responsabilità di far fronte al male non è solo competenza di alcuni addetti ai lavori, ma è obbligo morale di tutti e di ciascuno.
LA TRAMA DEL ROMANZO
La storia è ambientata nella città algerina di Orano, allora colonia francese, in un imprecisato momento degli anni quaranta. Tutti i cittadini si dedicano al lavoro e agli affari molto intensamente. Lasciati gli uffici si va al caffè, si passeggia lungo i viali o si sta affacciati sui balconi. Protagonista è Bernard Rieux, medico francese, residente a Orano; e il romanzo appare come una cronaca scritta in terza persona dallo stesso Rieux. La storia ha inizio con Rieux che accompagna la moglie, gravemente malata, alla stazione di Orano, dove prenderà un treno per raggiungere una non meglio località per curarsi.
Poco dopo la partenza della donna, scoppia un’improvvisa moria di ratti. Gli animali vengono trovati morti a migliaia a ogni angolo della città, ma nessuno vi presta più di un ragionevole stupore. È, in realtà, la prima avvisaglia del terribile flagello che sta per abbattersi su Orano. Dopo la sospetta morte di Michel, anziano portiere del condominio ove risiede Rieux, in città si diffondono casi analoghi: i malati pre-sentano febbre alta, noduli e rigonfiamenti all’inguine e alle ascelle, macchie scure sul corpo e muoiono dopo una delirante, ma breve agonia. Rieux e il collega Castel riconoscono nei sintomi i segni della peste bubbonica. Inizialmente nessuno vuol dar retta ai due medici, neppure le autorità che non vogliono creare il panico e che nel contempo temono la reazione scomposta della gente. Quando però l’epidemia esplode in tutta la sua violenza devastatrice, da Parigi viene ordinato di chiudere la città con un cordone sanitario, al fine di impedire il propagarsi del contagio. Gli abitanti di Orano reagiscono ognuno a modo suo. Alcuni non rinunciano ai piaceri della vita di ogni giorno: i bar e i ristoranti restano aperti, così come continuano a funzionare cinema e teatri dove però si ripetono gli spettacoli. Altri invece si barricano nelle case. Rieux non si tira indietro dal prestare le cure agli appestati e viene aiutato da Jean Tarrou, figlio di un pubblico ministero francese, disgustato anche dal modo con cui il padre gestisce la giustizia. Lasciando la Francia vorrebbe conoscere il mondo per capire se è ancora possibile la giustizia e proprio per questo vuole annotare tutto ciò che vede. Così egli si trova a descrivere la peste e a dare una mano istituendo un corpo di volontari, per assistere gli appestati. Con i due protagonisti si incontrano altri personaggi: Joseph Grand, impiegato comunale impegnato nella stesura di un’opera letteraria sulla cui prima frase non riesce a convincersi; Cottard, un commerciante che, dopo aver tentato il suicidio, si arricchisce lucrando sulla carenza di generi di prima necessità; il padre gesuita Paneloux, che nelle sue prediche parla della peste come di una punizione mandata da Dio a causa delle colpe degli uomini; e, infine, Raymond Rambert, un giovane giornalista francese che cerca disperatamente da Rieux un aiuto per tornare in Francia e ricongiungersi alla donna che ama; ma, colpito dall’esortazione di Tarrou, decide di restare e si unisce al corpo dei volontari. L’epidemia intanto dilaga. All’arrivo dell’estate, la peste degenera dalla forma bubbonica a quella pol-monare, molto più grave e altamente contagiosa. Nelle scuole, attrezzate prov-visoriamente a ospedali, gli appestati aumentano in numero esponenziale. E cresce sempre di più anche il numero dei morti: centinaia di persone periscono ogni giorno e le autorità cittadine devono cercare nuovi siti ove scavare fosse comuni. In autunno, si accende una speranza: il dottor Castel sviluppa un antidoto che potrebbe contrastare il morbo e guarire gli ammalati.
Rieux lo sperimenta sul figlioletto del giudice Othon, colpito dalla peste in maniera assai grave: la cura, tuttavia, non ha effetto e il bambino, al cui capezzale si stringono Rieux, Tarrou e padre Paneloux, che invoca l’aiuto divino per salvarlo, muore dopo atroci sofferenze. La città sembra ormai rassegnata al disastro. Gli abitanti si chiudono nelle case, mentre anche padre Paneloux muore. Gli stessi Rieux e Tarrou sembrano aver perso le speranze. Si giunge a Natale e anche Grand viene contagiato: quando l’impiegato sembra ormai prossimo alla fine, Rieux tenta il tutto per tutto, somministrandogli un nuovo siero. La nuova cura funziona: Grand guarisce e, nel frattempo, la peste incomincia a perdere virulenza. Ricompaiono alcuni ratti, mentre il numero degli appestati e dei morti diminuisce sempre di più. Nella sua ultima fase, però, l’epidemia uccide Othon e, soprattutto, Tarrou. Quest’ultimo, convinto che ormai l’epidemia fosse alla fine, aveva omesso le quotidiane abluzioni nelle sostanze disinfettanti, venendo così contagiato: Rieux, nel frattempo raggiunto dalla notizia della morte della moglie, tenta disperatamente di salvare l’amico somministrandogli il siero, ma ogni sforzo risulta vano. A breve, comunque, l’epidemia giunge al suo epilogo. A febbraio, finalmente, il cordone è levato e la città esplode in festa. L’unico a non gioire è Cottard, che, deluso dalla fine della situazione a lui vantaggiosa, cade vittima di un raptus di follia e, da una finestra della propria abitazione, dà luogo a una sparatoria sulla folla, prima di essere arrestato dalla gendarmeria. Ma anche Rieux è cauto. Mentre esamina i taccuini lasciatigli da Tarrou, sulla base dei quali stenderà il racconto, ammonisce le autorità sulla necessità di una prevenzione contro un eventuale futuro ritorno della peste, i cui bacilli possono restare inerti per anni prima di colpire ancora.
METAFORA DELLA GUERRA
E DELL’ASSURDITA’ DEL VIVERE
Naturalmente non basta sapere la trama, per avere il senso di ciò che lo scrittore vuol proporre con il suo racconto. Camus non sta certo descrivendo nulla di ciò che ha visto, perché, non ci sono epidemie in corso di questo genere né a Orano né in altre parti della sua terra natia. È in corso piuttosto una guerra, che è l’esplosione di un male, neppure sanato del tutto, quando la guerra si conclude. Ed è il male che corrode l’esistenza umana: esso la conduce ad una totale assurdità, quella per cui chi prima combatteva contro le forme più brutali di dittatura, fa ricorso ai medesimi strumenti di ingiustizia, come è, del resto, la pena di morte, la somma dell’ingiustizia, se si arriva ad uccidere legalmente, quando già la vita è votata alla morte. Non volendo essere così diretto, lo scrittore ricorre alla metafora della pestilenza, che intacca il corpo e l’anima, che costringe al totale isolamento, che mette in discussione tutti gli schemi su cui si cerca di costruire il senso sociale. Qua e là nel suo racconto, l’autore fa emergere il suo pensiero, in riferimento a tematiche decisive per un vivere che possa essere effettivamente più umano. L’esistenza appare indubbiamente una assurdità; e tuttavia c’è pur sempre spazio per una ricerca che tenti, nella lotta contro il male, una via salutis … Colui che narra in terza persona è protagonista della trama e rappresenta lo stesso scrittore, che guarda e nel contempo partecipa alla vicenda: si mette dalla parte del medico, che rimane sul posto, a combattere l’epidemia, anche a dover risultare incapace di far evitare il male e poi di contenerlo nella sua opera devastante. Nella conclusione lo scrittore svela chi è il vero protagonista della storia, che racconta, come se ne dovesse fare il diario di quanto vede, di quanto egli fa, di quanto passa nell’animo degli attori della vicenda. Camus vuol fare intendere che la relazione è comunque oggettiva, perché non sembra voler concedere spazio ai sentimenti, che pur ci sono, se non altro in coloro che egli vuol fare entrare nella cronaca di quei mesi di pestilenza. Se c’è spazio per i sentimenti altrui, non per questo, come testimone oculare, deve lasciarsi andare lui ai propri sentimenti, anche perché egli come dottore, e quindi come uomo di scienza, deve prendere posizione sul genere di male e cercarne i rimedi …
Era quindi nella posizione migliore per riferire quello che aveva visto e sentito. Ma ha voluto farlo con il debito ritegno. In linea di massima, si è impegnato a non riferire più cose di quante ne ha potute vedere, a non attribuire ai propri compagni di peste pensieri che, a conti fatti, non erano obbligati a formulare, e a servirsi soltanto dei testi che il caso o le avversità gli avevano messo a disposizione. Chiamato a testimoniare in occasione di una sorta di crimine, ha mantenuto un certo riserbo, come si addice a un testimone di buona volontà. Ma nello stesso tempo, secondo la legge di un cuore giusto, ha preso deliberatamente le parti della vittima e ha voluto essere vicino agli uomini, i suoi concittadini, nelle sole certezze che hanno in comune, e che sono l’amore, la sofferenza e l’esilio. Non vi è perciò angoscia dei suoi concittadini che non abbia condiviso né situazione che non abbia anche lui conosciuto … Quando era tentato di unire una confidenza personale alle mille voci degli appestati, lo fermava il pensiero che non c’era una sola delle sue sofferenze che non fosse anche quella degli altri, e che in un mondo in cui il dolore è tanto spesso solitario, questo era un vantaggio. Decisamente, doveva parlare per tutti.(p. 318-9)
In filigrana si può indubbiamente leggere la condizione esistenziale dell’uomo che è attanagliato dal male, sempre combattuto, sempre vinto, e nello stesso tempo sempre risorgente: questo male non è affatto determinato da movimenti astrali, che fanno pensare a qualcosa di misterioso e di ineluttabile, oppure da una casualità o da follie che si ripetono, da circostanze imponderabili. E tuttavia esso si presenta come l’assurdità che accompagna l’esistenza. Contro di esso si può e si deve combattere, non da santi e neppure da eroi, ma da uomini che proprio in presenza del male devono reagire con la solidarietà, che li rende maggiormente esseri umani.
Il fatto stesso che questa vicenda si svolge ad Orano, città algerina e in un anno che dobbiamo pensare sia legato al conflitto mondiale e alle sue immediate conseguenze, è determinante perché l’autore vuole in questa sua metafora pensare alla tragedia che l’Europa ha vissuto e le cui conseguenze si trascinano, coinvolgendo tutta quell’area geografica che è stata teatro della guerra. Di fatto però “questa” Orano, ben ritratta nel suo panorama non sembra neppure essere una città algerina, perché il mondo mussulmano qui non compare affatto, come se il grande malessere corrosivo della società debba appartenere alla vecchia Europa e riguardare solo quanti culturalmente vi fanno parte. Essa però coinvolge anche altre parti, perché il suo male, anche a volerlo circoscrivere e rinchiudere, anche a vincerlo, rimane latente per ricomparire. È dunque responsabilità della “vecchia” Europa non la peste, come morbo che attacca il fisico, ma quel male, di cui la peste è solo metafora, e che si potrebbe identificare nelle ideologie totalitaristiche, con le quali la vita, quella di ogni persona, quella concreta di ogni giorno, quella semplice di ogni individuo, viene “mortificata” in nome di un ideale superiore e supremo. Ma Camus non si limita a leggere e rileggere con questa metafora la follia che si è perpetrata in Europa ridotta ad un campo di concentramento da una guerra che ha fatto tanti morti; per lui l’assurdità di una esistenza ormai lasciata deflagrare senza una reazione che divenisse una specie di rivolta, continua ad esserci anche quando la guerra è finita. La rivolta, naturalmente non può essere quella delle armi contrapposte o dell’irrigidimento ideologico nell’attesa di un futuro migliore nell’al di là ultraterreno o nel “sol dell’avvenire”: è piuttosto quella della solidarietà nel dolore …
L’atteggiamento del dottor Rieux, che prende le mosse dell’assurdo e vi tiene fermo, apre alla rivolta, anzi la incarna pienamente, personificando quella che a conclusione de L’Homme révolté verrà definita come “rivolta autentica”, ossia la ribellione dell’uomo che prende atto del reale e della ragionevolezza che lo connota, lo accetta e sa che qualsiasi ideale che lo giustifichi, che ne smussi gli angoli, è per lui inaccettabile dal momento che il reale continua a essere tale, ma non vi si rassegna. Accettazione senza rassegnazione, da parte di una coscienza mantenuta sempre lucida, che riconosce pur sempre la vita come bene necessario, unico possesso irrinunciabile finché è possibile disporne. La constatazione dell’assurdo richiede una rivolta, aprendo al campo dell’agire umano entro e mai al di là della consapevolezza raggiunta. Rieux si appella al desiderio di continuare ad “ardere”, a “un capello di donna che vale più di tutte le certezze dell’al di là cristiano”, alla “lotta verso la cima che basta a riempire il cuore di uomo”: egli porta avanti la sua lotta, la sua rivolta, come uomo e come medico, contro ciò che di questa esistenza che difende non può accettare, perché “nel suo sforzo maggiore, l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore nel mondo”, con la consapevolezza che è un dolore che rimane. Alla fine del romanzo la peste viene debellata, ma l’assurdo non si elimina; il “disumano” dell’uomo consapevole di tale evidenza è l’accettare liberamente la propria schiavitù e qui, come Sisifo, trovare l’unica, vera profonda libertà. (Scaratti, p. 41-42)
ALCUNI MOMENTI E TEMI
L’IRRUZIONE DELLA MALATTIA
La descrizione sembra oggettiva e realistica, perché dopo aver narrato i primi fenomeni (il comparire dei ratti morti e poi il comparire dei primi esseri umani morti) colui che si è assunto il compito di tenere una specie di diario giornalistico della situazione, passa a segnalare la separazione delle persone e quindi l’incapacità a comunicare, nonostante che ora tutti si sentono toccati dalla malattia e obbligati a rimanere chiusi in città …
Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti. Finora, nonostante la sorpresa e la preoccupazione suscitate da questi eventi straordi-nari, ognuno dei nostri concittadini aveva continuato come poteva a dedicarsi alle proprie occupazioni, al proprio posto. E così doveva senz’altro essere in seguito. Ma dopo che furono chiuse le porte, tutti si accorsero, compreso il narratore, di essere nella stessa barca e di doversene fare una ragione. Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, sin dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio. Una delle conseguenze più vistose della chiusura delle porte fu infatti l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affron-tare una separazione temporanea, che si erano salutati ai binari della no-stra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi dopo qual-che giorno o qualche settimana, cullati dall’assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani, impossibilitati a ricongiungersi o a comunicare. La chiusura era infatti avvenuta qualche ora prima che il provvedimento prefettizio fosse reso pubblico ed era naturalmente impossibile prendere in considerazione i casi particolari. Si può dire che il primo effetto di questa brusca irruzione della malattia fu di obbligare i nostri concittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali. Sin dalle prime ore del giorno in cui l’ordinanza entrò in vigore, la prefettura fu assalita da una folla di persone che, al telefono o al cospetto dei funzionari, esponevano situazioni ugualmente interessanti e, insieme, ugualmente impossibili da esaminare. In verità, ci vollero parecchi giorni perché ci rendessimo conto di trovarci in una situazione in cui qualunque compromesso era impossibile, e che le parole “transigere”, “favore”, “eccezione” non avevano più alcun senso. (p. 77-8)
LA DISPERAZIONE E LA PASSIVITA’
Viene registrata l’incapacità a reagire: è il vero male che impedisce alla pestilenza diffusa di essere contenuta, arginata, e magari anche respinta. Sembra quasi che la sola assurdità non sia tanto il vivere, ma il lasciarsi vivere …
A quel punto coraggio, volontà e pazienza crollavano in modo talmente rovinoso da dar loro l’impressione che non sarebbero mai riusciti a risalire da quella voragine. Si imponevano allora di non pensare più alla data della liberazione, di non volgersi mai più verso il futuro e di tenere, per così dire, gli occhi bassi. Ma quella circospezione, quella tendenza a giocare d’astuzia con il dolore, a chiudere la guardia per sottrarsi al combattimento erano mal ripagate. Se così infatti riuscivano a evitare il crollo che non volevano a nessun costo, si privavano però dei momenti tutto sommato piuttosto numerosi in cui potevano dimenticare la peste nelle immagini del ricongiungimento futuro. Perciò, incagliati a mezza via tra quegli abissi e quelle vette, più che vivere galleggiavano, in balìa di giorni senza direzione e di ricordi sterili,
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ombre erranti che avrebbero trovato forza solo accettando di radicarsi nella terra del loro dolore. Provavano così la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli, che è quella di vivere con una memoria che non serve a niente. Persino il passato a cui pensavano in continuazione aveva solo il sapore del rimpianto. Avrebbero voluto, infatti, potergli aggiungere tutto ciò che si rammaricavano di non aver fatto, quando era ancora possibile, con colui o colei che aspettavano – così come a tutte le circostanze, anche relativamente felici, della loro vita di prigionieri rendevano partecipe l’assente, e ciò che erano allora non poteva bastargli. Insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro, eravamo come quelli che la giustizia o l’odio umani fanno vivere dietro le sbarre. Per finire, l’unico modo per sottrarsi a quella vacanza insopportabile era far ripartire i treni con l’immaginazione e riempire le ore con gli squilli ripetuti di un campanello pur ostinatamente silenzioso. (…)
Venendo infine più espressamente agli amanti, che sono i più interessanti e di cui forse il narratore può parlare con cognizione di causa, costoro erano tormentati da ulteriori motivi di angoscia, fra cui occorre menzionare il rimorso. La situazione, infatti, permetteva loro di considerare i propri sentimenti con una specie di febbrile obiettività. E in quei casi era raro che non emergessero nitidamente le loro mancanze. La prima occasione era offerta dalla difficoltà che avevano a immaginare con esattezza la vita quotidiana dell’assente. Si rammaricavano allora di essere del tutto ignari della sue occupazioni; si accusavano della leggerezza con cui avevano tralasciato di informarsene e finto di credere che le occupazioni dell’amato non sono la fonte di ogni gioia per colui che ama. Da lì, era facile allora ripercorrere il loro amore ed esaminarne le pecche. In tempi normali sapevamo tutti, più o meno consapevolmente, che non c’è amore che non possa migliorarsi, e tuttavia accettavamo, in maniera più o meno pacifica, che il nostro restasse mediocre. Ma il ricordo è più esigente. E ne conseguiva che quella tragedia venuta dall’esterno, e che colpiva un’intera città, non ci recava soltanto una sofferenza ingiusta di cui avremmo potuto indignarci. Ci induceva anche a infliggerci personalmente un’ulteriore sofferenza e ci faceva così acconsentire al dolore e confondeva le carte. (p. 83-85)
LA REAZIONE RELIGIOSA
Non poteva mancare l’attenzione all’aspetto religioso che l’autore riserva ai soli cristiani, lasciando fuori di fatto la gran parte della popolazione locale, che deve essere mussulmana, visto che ci troviamo in una città algerina, per quanto ancora colonia francese.
Sembra quasi che il male intacchi di fatto il mondo occidentale. Ovviamente per quel genere di peccato che si registra nella tiepidezza di un vivere che non corrisponde affatto al vivere stesso di Dio. E’ così contestata una concezione del vivere cristiano che riduce la religiosità ad assicurare l’al di là, in una visione della vita terrena, estremamente negativa, da cui liberarsi, come una sorta di carcere “platonico”, sempre provvisorio, da cui evadere …
La figura centrale è il padre gesuita Paneloux, che viene presentato come un prete dedito alle ricerche scientifiche, ma nello stesso tempo cultore di filosofia. Di fatto appare come il rappresentante di un cristianesimo definito esigente, ben lontano dalle forme tradizionali che sono bollate come “oscurantiste”.
La fine del primo mese di peste fu in effetti adombrata da una significativa recrudescenza dell’epidemia e da una veemente predica di padre Paneloux, il gesuita che aveva assistito il vecchio Michel all’inizio della malattia. Padre Paneloux era già noto per le frequenti collaborazioni al bollettino della Società geografica di Orano, dove le sue ricostruzioni epigrafiche facevano autorità. Si era però conquistato un pubblico più vasto rispetto a quello di uno specialista con una serie di conferenze sull’individualismo moderno. Qui si era mostrato acceso sostenitore di un cristianesimo esigente, distante tanto dal libertinismo moderno quanto dall’oscurantismo dei secoli passati. In quel frangente non aveva risparmiato all’uditorio alcune dure verità. Da ciò la sua reputazione. Verso la fine del mese, dunque, le autorità ecclesiastiche della nostra città decisero di combattere la peste con i mezzi a loro disposizione, organizzando una settimana di preghiere collettive. Le manifestazioni della pietà pubblica dovevano concludersi la domenica con una messa solenne dedicata a san Rocco, il santo appestato. E per quell’occasione era stato chiesto a padre Paneloux di prendere la parola. Da una quindicina di giorni costui aveva quindi messo da parte i lavori su sant’Agostino e la Chiesa africana che gli erano valsi un posto di primo piano nel suo ordine. Uomo di natura focosa e appassionata, aveva accettat0 senza indugi l’incarico affidatogli. Ben prima della predica, in città se ne parlava già ed essa segnò a suo modo una data importante nella storia di quel periodo. La settimana fu seguitissima. In tempi normali non si può dire che gli abitanti di Orano siano particolarmente devoti. La domenica mattina, ad esempio, i bagni al mare fanno una seria concorrenza alla messa. E non erano neppure stati illuminati da una improvvisa conversione. Ma, da una parte, al mare era ormai impossibile andare per via della città chiusa e del porto inaccessibile e, dall’altra, essi vivevano in uno stato d’animo particolare, in cui, pur senza aver accettato dentro di sé gli avvenimenti sorprendenti che li colpivano, sentivano che indubbiamente qualcosa era cambiato. Molti continuavano tuttavia a sperare che l’epidemia si sarebbe fermata e che sarebbero stati risparmiati insieme con i famigliari. Perciò non avvertivano ancora nessun obbligo. Per loro, la peste era solo un’ospite sgradita che prima o poi se ne sarebbe andata come era venuta. Spaventati, sì, ma non disperati, non erano ancora giunti al momento in cui avrebbero guardato alla peste come alla forma stessa della loro vita, dimenticando l’esistenza che avevano condotto prima della sua apparizione. In buona sostanza, erano in attesa. Relativamente alla religione, come a molte altre questioni, la peste aveva destato in loro un atteggiamento singolare, ugualmente distante dall’indifferenza come dalla passione, e che si poteva sintetizzare nella parola “obiettività”. La maggior parte di coloro che seguirono la settimana di preghiera, per esempio, avrebbero sottoscritto la frase pronunciata davanti al dottor Rieux da uno dei fedeli: “Comunque sia, male non può fare”. (…)
La predica di P. Paneloux va a segnalare la peste come castigo di Dio: essa è tale per i suoi nemici, come è detto nel libro dell’Esodo; essa è per coloro che dimenticano Dio e lo trascurano, essa appare come l’angelo sterminatore nei confronti di coloro che pur si sono accontentati delle poche pratiche per tenere buono Dio. Dio è esigente e vuole un amore sempre più grande, perché il suo amore è davvero più grande …
Come che fosse, per tutta la settimana i fedeli riempirono quasi per intero la cattedrale della nostra città. Nei primi giorni molti cittadini si limitavano a stazionare nei giardini di palme e di melograni che si estendevano davanti al portale, per ascoltare il fiume di invocazioni e di preghiere che giungevano fino in strada. Pian pano, complice l’emulazione, quegli stessi uditori si decisero a entrare e a unire la propria timida voce ai responsori del pubblico. E la domenica una folla considerevole invase la navata dilagando fin sul sagrato e sugli ultimi scalini. Dal giorno precedente il cielo si era coperto, e pioveva a dirotto. Coloro che erano all’esterno avevano aperti gli ombrelli. Aleggiava nella cattedrale un odore di incenso e di stoffe bagnate quando padre Paneloux salì sul pulpito. Era un uomo di statura media, ma dal fisico massiccio. Quando si appoggiò al bordo del pulpito, stringendo il legno fra le grosse mani, si vide di lui solo una forma tozza e nera sormontata dalla due chiazze rubiconde delle guance sotto gli occhiali dei metallo. Aveva una voce forte e appassionata, che arrivava lontano, e nell’istante in cui affrontò l’uditorio scandendo un’unica frase veemente:“Fratelli, la sventura vi ha colpito, fratelli, ve lo siete meritato”, un mormorio percorse il pubblico fino al sagrato. Ciò che seguì non parve avere sulle prime alcun nesso logico con questo drammatico esordio. Solo dal resto del discorso i nostri concittadini si resero conto che con un abile stratagemma oratorio il prete aveva dato in una sola stoccata, quasi assestasse un colpo, l’argomento dell’intera predica. Subito dopo quella frase, infatti, Paneloux citò il testo dell’Esodo relativo alla peste in Egitto e disse: “La prima volta in cui questo flagello compare nella storia, è per colpire i nemici di Dio. Il faraone si oppone ai disegni eterni e la peste lo costringe allora a inginocchiarsi. Sin dagli albori del mondo, il flagello di Dio mette ai suoi piedi gli orgogliosi e i ciechi. Meditate questo e inginocchiatevi”. (…)
“Se oggi la peste vi guarda, è perché è arrivato il momento di riflettere. Nulla hanno da temere i giusti, ma che i malvagi tremino! Nell’immenso granaio dell’universo, l’implacabile flagello batterà la messe umana finché la paglia non sarà separata dal grano. Ci sarà più paglia che grano, ci saranno più chiamati che eletti, ma non fu Dio a volere questa sventura. Troppo a lungo il mondo è sceso a patti con il male, troppo a lungo si è affidato alla misericordia divina. Era sufficiente pentirsi, e tutto era permesso. E per il pentimento chiunque si sentiva forte. Giunto il momento, lo si sarebbe provato senz’altro. Nel frattempo la cosa più facile era lasciarsi andare, la misericordia divina avrebbe fatto il resto. Ebbene, questo non poteva durare. Dio, che per tanto tempo ha mostrato agli uomini di questa città il suo volto di misericordia, stanco di aspettare, deluso nella sua speranza eterna, ha distolto lo sguardo. Privati della luce di Dio, ora saremo a lungo immersi nelle tenebre della peste!” (…)
“Fratelli – disse con forza – la stessa caccia mortale avviene oggi nelle nostre strade. Guardatelo, questo angelo della peste, bello come Lucifero e fulgido come il male, in piedi sui tetti, la mano destra a stringere lo spiedo rosso all’altezza della testa e la mano sinistra a indicare una delle vostre case. Forse in questo momento tende il dito verso la vostra porta, lo spiedo risuona sul legno; in questo momento la peste entra nella vostra casa, si siede in camera da letto e aspetta il vostro ritorno. È lì, paziente e attenta, inconfutabile come l’ordine del mondo. E nessuna potenza terrena, né tanto meno, sappiatelo, la vana scienza umana, potrà farvi evitare la mano che tenderà verso di voi. Così battuti sull’aia sanguinosa del dolore, sarete gettati via con la paglia.” (…)
Con voce più sorda, ma in tono accusatore: “Sì, è giunto il momento di riflettere. Pensavate che fosse sufficiente far visita a Dio la domenica per avere le giornate libere. Credevate di poterlo ripagare della vostra criminale indifferenza con qualche genuflessione. Ma Dio non è tiepido. Il suo amore divorante non si accontentava di questi sporadici incontri. Voleva vedervi di più, e questo è il suo modo di amarvi ed è invero l’unico modo di amare. Ecco perché, stanco di aspettare la vostra venuta, ha permesso che il flagello vi visitasse come ha visitato tutte le città del peccato da che mondo è mondo. Adesso sapete cos’è il peccato, come l’hanno saputo Caino e i suoi figli, quelli prima del diluvio, quelli di Sodoma e Gomorra, il faraone e Giobbe e tutti i riprovati. E come costoro, dal giorno in cui la città ha chiuso le proprie mura su di voi e sul flagello, rivolgete uno sguardo nuovo agli uomini e alle cose. Ora finalmente sapete che bisogna venire all’essenziale”. (p. 103-9)
LA BANALITA’ DEL MALE
Non c’è spazio per l’eroismo. E nemmeno per la spettacolarità. Ecco perché viene registrato qualcosa che può avere anche l’aspetto del banale, come è stato detto a proposito di quanto è successo nella II guerra mondiale. Come se, anche nel corso di una tragedia, ci si abituasse, e si avvertisse che quanto succede appare monotono. Chi ne deve raccontare deve semplicemente registrare, dando così l’immagine di qualcosa di oggettivo, come se la cosa non lo tocchi, non lo riguardi. Non c’è propriamente la rassegnazione, ma l’assuefazione al male …
Al riguardo è un peccato, e il narratore lo sa bene, non poter riferire qui nulla di realmente spettacolare, le gesta di un qualche eroe rassicurante o una certa azione clamorosa, analoghe a quelle che si trovano nelle cronache antiche. Si dà il caso che non c’è niente di meno spettacolare di un flagello e le grandi tragedie, per la loro stessa durata, sono monotone. Nel ricordo di coloro che le hanno vissute, le terribili giornate della peste non appaiono come grandi fiammate sontuose e crudeli, ma semmai come un interminabile scalpiccio che annientava tutto al suo passaggio. No, la peste non aveva nulla delle grandi immagini esaltanti da cui il dottore era stato ossessionato all’inizio dell’epidemia. Era in primo luogo un’organizzazione attenta e scrupolosa, dal funzionamento impeccabile. Per questo, sia detto fra parentesi, per non tradire nulla e soprattutto per non tradire se stesso, il narratore ha scelto l’obiettività. (…)
I nostri concittadini, quelli almeno che più avevano sofferto nell’essere se-parati, si abituavano forse alla situazione? Non si tratta di questo. Sarebbe più esatto dire che tanto nel morale quanto nel fisico soffrivano di disincarnazione. Al principio della peste ricordavano benissimo la persona che avevano perduto, e la rimpiangevano. Ricordavano nitidamente il volto amato, il suo riso, quel giorno che riconoscevano a posteriori come un giorno felice, e tuttavia avevano difficoltà a immaginare cosa potesse fare l’altro nell’istante in cui lo rievocavano e in luoghi divenuti ormai lontani. In quei momenti, insomma, possedevano la memoria, ma era l’immaginazione a far loro difetto. Nella seconda fase della peste persero anche la memoria … Alla fine di quel lungo periodo di separazione non riuscivano più a immaginare com’era stata la loro intimità, né come avesse vissuto accanto a loro un essere umano sul quale portavano in qualsiasi momento posare la mano … Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso. E del resto il dottor Rieux, per esempio, riteneva che fosse proprio questa la tragedia, e che l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. (…)
Sì, bisogna proprio dirlo, la peste aveva tolto a tutti la disposizione all’amore e all’amicizia. Poiché l’amore richiede un po’ di futuro, e per noi c’erano solo istanti. (p. 192-5)
SOLO L’AMORE NELLA CONDIVISIONE
Sempre mettendo in bocca a P. Paneloux i tentativi per spiegare ciò che non si può affatto spiegare, lo scrittore cerca di entrare nel mistero del male. Non ha soluzioni da offrire: c’è solo da lottare ogni volta che il male si ripresenta e questa lotta dà sapore e valore alla vita stessa. L’unica proposta possibile è quella dell’amore stesso di Dio, un amore definito difficile, perché chiede il dono totale di sé. Dio condivide il suo amore proprio dentro il male e nella medesima situazione all’uomo non resta altro che la condivisione dello stesso amore …
Paneloux disse ad alta voce che riguardo a Dio c’erano cose che si potevano spiegare e altre che non si potevano spiegare. C’erano senz’altro il bene e il male, e in genere era piuttosto facile spiegarsi cosa li distinguesse. Ma la difficoltà cominciava all’interno del male. C’era per esempio il male apparentemente necessario e c’era il male apparentemente inutile. C’era don Giovanni sprofondato all’Inferno e c’era la morte di un bambino. Se infatti è giusto che il libertino sia folgorato, la sofferenza del bambino invece non si riesce a comprendere. E in verità non c’era in terra nulla di più importante della sofferenza di un bambino e dell’orrore che una tale sofferenza comporta e delle ragioni che occorre trovarle.
Nel resto della vita, Dio ci semplificava tutto e fino a lì la religione non aveva alcun merito. Qui, invece, ci metteva con le spalle al muro. E così eravamo, sotto le mura della peste, e nella loro ombra mortale dovevamo trovare il nostro bene. (p. 238)
Fratelli – disse infine Paneloux annunciando che si avviava a concludere – l’amore di Dio è un amore difficile. Chiede l’abbandono totale di se stessi e il disprezzo della propria persona. Ma è il solo a poter cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, il solo in ogni caso a renderla necessaria, perché è impossibile capirla e si può soltanto volerla. Questa è la difficile lezione che dovevo condividere con voi. Questa è la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, cui dobbiamo accostarci. Con tale immagine terribile noi dobbiamo misurarci. A quell’altezza tutto si confonderà e si eguaglierà, dall’apparente ingiustizia scaturirà la verità. Così, in molte chiese del sud della Francia, ci sono morti di peste che giacciono da secoli sotto le pietre del coro, e i sacerdoti parlano sopra le loro tombe, e lo spirito che diffondono sgorga da ceneri che cono anche ceneri di bambini”. (p. 242-3)
Lo scrittore non ha, dunque, soluzioni chiare e convincenti a proposito della vita e del suo senso, del male, che è sempre presente nella vita, e del suo “non-senso”. Proprio per questo non abbiamo propriamente un lavoro di tipo filosofico, un saggio che si propone una dottrina organica, riflessioni con cui elaborare un pensiero o delle teorie. Camus è piuttosto scrittore di romanzi e di opere teatrali, con cui egli entra nel vivere dell’uomo, immaginandosi che ognuno, nel suo momento e nel suo luogo di vita, cerchi, se non una ragione, almeno un impegno, una lotta, che consenta di arginare il male, di superare, se possibile, l’assurdità. Così ogni personaggio e ogni situazione dei suoi racconti ha qualcosa da dire, senza che se ne possa trarre una dottrina certa, apodittica, valida universalmente, magari addirittura da imporre come risolutiva. Ecco perché anche a risultare uomo di “sinistra” nella sua lotta contro il sistema dittatoriale e disumano del nazifascismo, non per questo egli sposa la causa che si configura nel sistema marxista come viene attuato nel cosiddetto “socialismo reale”. In tal modo non risulta di fatto “catalogabile” e proprio per questo viene configurato come un “anarchico”. Ma Camus è fuori di ogni sistema …
Spesso si fa di Camus un pensatore disperato e disperante, che così bene coglie l’angoscioso assurdo dell’esistenza e i flagelli che non lasciano scampo. Quello che, invece, si intende mostrare qui è quanto la filosofia di Camus sia una difesa appassionata della vita che tiene insieme – seppur giungendo a contraddizioni e incapace di offrire ricette risolutive – la bocca e la ferita che è la vita. Camus, prima di ogni definizione, al di là dei tentativi di collocamento in una corrente di pensiero e delle dispute o critiche sulla sua figura, è innanzitutto questo contatto terreno, questo attaccamento viscerale alla vita che vive qui e ora e che è sempre corporea, incarnata, esperita. (Scaratti, p. 7)
A noi poi non interessa propriamente il contributo filosofico di Camus, che richiederebbe un esame più attento di altri suoi scritti. Qui merita invece la considerazione del suo pensiero circa un fenomeno come quello della pestilenza, che è propriamente metafora di un male esistenziale, molto radicato e neppure riconducibile alle ideologie o alle forme politiche che si sono avvicendate nel corso del secolo definito “breve”. E più ancora dello stesso male, sia quello che corrode e corrompe il fisico, fino ad annientarlo, sia quello non meno rovinoso che porta alla assuefazione, al disimpegno, all’acquiescenza, si dovrebbe considerare quale sia la capacità reattiva dell’uomo che si arrabatta alla sopravvivenza e che, illuso, pensa di gioire se è scampato, mentre in realtà continua a vivere dentro un male mai del tutto sconfitto.
Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice (p. 325-6)
Così conclude il romanzo, lasciando ancora l’amaro in bocca di una esistenza, in cui il male, anche ad essere combattuto, non è mai, in nessuna generazione, completamente debellato, e che il vivere comporta una “lotta continua” nei confronti del male, dove si dispiega il vivere, che proprio per questo può essere davvero considerato umano.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Non è possibile esaurire in poche battute e in poche considerazioni il notevole contenuto di questo romanzo, che già al suo apparire fece scalpore, non tanto per il tema trattato con la descrizione di un luogo appestato in tempi moderni: chiunque si rendeva conto, e ancora oggi avverte, che Camus stava proponendo una metafora. E tuttavia c’è da restare stupiti anche per la modalità narrativa e descrittiva circa questo particolare fenomeno, che qua e là continua a manifestarsi. Il romanzo non è ovviamente una specie di prontuario per addestrarsi in presenza di fenomeni ciclici, che oggi potrebbero causare danni ancora più rilevanti con la notevole mobilità che ci ritroviamo. Un romanzo (tanto meno un racconto come quello di Camus) può essere considerato un diario utile soprattutto per far fronte a queste epidemie. Esso rappresenta piuttosto una riflessione su un male che serpeggia nell’animo e che continua a corrodere, anche quando il male fisico viene circoscritto, mai del tutto sconfitto. Dobbiamo sempre tener presente che, anche in presenza di una epidemia come l’attuale, e come altre già nel recente passato diffuse, anche se non in questa maniera e con questo genere di turbativa, c’è pure da affrontare quel genere di malessere, che noi immaginiamo a livello psicologico, soprattutto se si diffonde una specie di psicosi drammatica, la quale ingenera una paura, difficile da affrontare e da superare. Il male però non intacca solo il corpo, per il quale ci possono essere i rimedi sanitari; non intacca solo la psicologia, per la quale si possono e si debbono trovare i rimedi di una scienza ancora da sviluppare, soprattutto quando le paure aumentano in ciascuno e coinvolgono molti, anche in quei mondi che noi immaginiamo come se fossero paradisi presso i quali trovare rifugio. C’è piuttosto un male che si annida in ben altri livelli o che comunque non si può pensare di affrontare e di superare con i soli ritrovati della medicina e della scien-za psicologica. Camus si avventura tra ragione e religione, che lui ritiene comunque insufficienti a sconfiggere il male, proprio perché con la ragio-ne ci si ferma a cercare e a trovare i modi e i mezzi, perché il male che uccide possa essere circoscritto, senza essere del tutto estirpato, se alla fine si dice che esso rimane in attesa di riattivarsi. Nello stesso tempo la religione con la sua dichiarata impotenza a sconfiggere qui il male prospetta un mondo migliore nell’al di là, atteso e sperato, promesso e additato a chi è assorbito dal male stesso. Insomma, non se ne esce; e perciò il vivere assume quella componente di assurdo, per la quale si continua a procreare ben consapevoli che la morte non si può evitare, anche quando in presenza di una epidemia, finalmente esausta per il suo male, ci si la-scia andare alla gioia per una vittoria, che ha il sapore amaro di un armistizio. Questa lettura, pur sempre desolata e desolante, propria di uno scrittore definito “disperato e disperante”, dice che l’uomo aspira ad una visione della vita che vada sempre oltre questa “pestilenza”, o “male di vivere”, anche a non trovare risposta adeguata e convincente. Camus non ha facili soluzioni; non ha neppure una visione che dia speranza dentro il male, se non perché lancia la sfida contro il male stesso, affinché si continui a ricercare una “via salutis”, che permetta di sperare. Se anche non esiste al momento un esito risolutivo, comunque la speranza è sempre ultima a morire e proprio questo lascia intendere che nel corso della vita, anche ad essere breve, anche ad avere l’esito che sappiamo, all’uomo è data sempre l’opportunità di combattere, soprattutto quando il male è sovrastante e immanente in maniera da far sembrare che non si possa affatto sfuggire. Lì occorre un grande spirito di solidarietà, perché il male deve essere affrontato insieme, così come la vita ci lega gli uni agli altri, anzi, gli uni per gli altri. Non per nulla ci sono i protagonisti che agiscono, anche quando sono dominati dall’idea fissa di volersi salvare, perché legati da quelle relazioni umane, che sono la vera ricchezza del vivere umano. Lì si può dunque cercare e trovare ciò che permette quanto meno di affrontare il male, anche a dover constatare che il male può piegarci, ma non può spezzare totalmente questi vincoli.
BIBLIOGRAFIA
1.
Albert Camus
LA PESTE
Bompiani, 2017
2.
Albert Camus
LA PESTE
Gallimard, 1947 (testo francese)
3.
Marta Scaratti
ALBERT CAMUS. UNA INTRODUZIONE
Editrice Clinamen, 2015
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