La marcia su Roma : Verso la dittatura

VERSO LA DITTATURA

Il fascismo è abbinato alla dittatura, perché di fatto essa si è realizzata in Italia con gli uomini che venivano da quel partito e da quella impostazione, come pure dall’uso della violenza fisica, che in realtà non era un fenomeno e un mezzo gestiti in maniera esclusiva da quel partito. Del resto anche la forma dittatoriale di potere e di occupazione del governo non può essere considerato un obiettivo da raggiungere perseguito solo da quel partito, anche se per l’Italia, gli anni della dittatura hanno visto il fascismo dominare la scena politica. Eppure, come stanno a testimoniare gli inizi del governo di Mussolini, anche se il ricorso alla violenza non è mancato, anche se i progetti e i metodi usati facevano presagire un esito che conduceva verso il totalitarismo, i primi passi non possono essere considerati già manifestazione di un esercizio del potere in forma dittatoriale. Del resto qualcuno ancora sperava che il fascismo potesse essere assorbito dal sistema parlamentare, una volta fatto entrare in esso: anche i partiti di sinistra, i più ferocemente avversi al fascismo e all’uomo che lo rappresentava, non immaginavano che esso potesse prosperare, in presenza di elezioni che vedevano le forze di sinistra aumentare il numero dei loro rappresentanti, per quanto ancora in maniera insufficiente. Mussolini stesso era consapevole, che a ricercare il consenso popolare mediante le elezioni, non poteva coltivare la prospettiva di venirne fuori vincente, se non cambiando e adeguando ai suoi obiettivi la legge elettorale. Per questo motivo elaborò la Legge Acerbo, e con essa poté vincere le elezioni, senza per questo avere di fatto una Camera, in cui ci fosse un unico partito: solo così la Camera poteva essere esautorata e resa perfettamente inutile. Proprio nell’immediato periodo successivo alle elezioni si consumò la trasformazione, da parte di Mussolini, dello Stato italiano da regno costituzionale a dittatura di fatto. Dobbiamo definirla così, perché in realtà, almeno formalmente venne mantenuto lo Statuto albertino e l’Italia rimaneva ancora una monarchia: il Capo dello Stato era il Re, non il Duce; ma il Capo del governo, pur nominato dal Re, gestiva il potere in modo assoluto e senza limiti particolari, se non quello di avere una figura superiore, il sovrano, che era a capo delle forze armate. Si potrebbe parlare di una sorta di diarchia, che comunque risultava vantaggiosa per il capo del governo. I partiti, minoritari inizialmente nel Parlamento, per essere poi del tutto aboliti, speravano di poter trovare nel sovrano un punto di appoggio, a garanzia, non solo formale, dello Statuto; ma dal Re non venne a loro alcun appoggio, se non nel momento più drammatico della storia italiana, quando con la guerra ormai persa, si doveva uscirne in maniera dignitosa.

Ma anche in quella circostanza si dovette registrare la “fuga” del Re, che avvenne, certo, in una località più garantita, ma si rivelò anche un venir meno alle proprie responsabilità. Il periodo, ancora tumultuoso, che va dalle elezioni del 6 aprile 1924 fino al discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, richiede una attenta analisi perché qui si consuma il passaggio, ormai chiaro ed evidente a tutti, verso una forma istituzionale che si può ben definire “dittatoriale”. È indiscutibilmente fuori dubbio che l’obiettivo di Mussolini fosse l’instaurazione di un governo forte e di fatto totalitario; e tuttavia potevano esserci ancora le condizioni per far prendere una piega diversa agli avvenimenti, che invece precipitavano verso questa soluzione. Ovviamente Mussolini segue dei passaggi che gli consentono di avere in mano “la macchina dello Stato” in tutti suoi meandri, compresi quelli locali. Anzi, proprio da lì deve partire per costruire il “suo” totalitarismo. E di questo si accorge Amendola e lo denuncia.

L’esercizio più frequente della violenza fascista, dopo l’ascesa al potere, fu praticato contro le amministrazioni locali rette dagli altri partiti, per costringerli a dimettersi, facendo poi eleggere amministratori esclusivamente fascisti. Così protestò Amendola il 12 maggio, mentre Mussolini ripeteva il proposito di “ricondurre il fascismo nei limiti della legalità e della disciplina”, nel paese si ripeteva invece con cadenza settimanale l’illegalismo fascista per imporre le dimissioni dei consigli comunali o provinciali, seguite dalle “elezioni amministrative con relativa conquista di maggioranza e di minoranza da parte di fascisti o sedicenti fascisti”, che spesso erano stati militanti di partiti antifascisti prima della “marcia su Roma”, e dopo si erano precipitati a iscriversi al PNF, e a occupare rapidamente i vertici locali dei fasci, attratti dalla “promessa del dominio assoluto e dallo spadroneggia mento completo ed incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa”. (…) Riferendosi alla pratica elettorale imposta dai fascisti nelle frequenti elezioni amministrative che si svolgevano la domenica, Amendola commentò: “noi, che (…) incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarle con più verità “sistema totalitario”. Questa nuova espressione, appena coniata, appariva come titolo dell’editoriale pubblicato dal suo giornale il giorno dopo, dove erano citati altri esempi dell’applicazione del “sistema totalitario” nelle elezioni amministrative per assicurare la vittoria dei fascisti. (Gentile (II), p. 61-62)

Con l’accaparramento delle realtà locali sarebbe stato più facile controllare sul territorio tutto l’apparato dello Stato, e ci sarebbero state tutte le premesse per influire anche sulle elezioni generali. Già l’uso di quella espressione “totalitario”, fatto da Amendola, dice che l’apparato fascista ormai divenuto apparato statale, cerca non solo di conquistare la maggioranza, ma di fatto di raggiungere quel tipo di percentuale che consente di avere con sé tutti, o quasi. Insiste Amendola:

In che cosa consiste questo metodo è presto detto. Si costituisce, prima, grazie all’azione combinata del prefetto e del segretario politico fascista, la lista di maggioranza composta per tre quarti o quattro quinti o cinque sesti, o comunque si voglia, di lupi fascisti, e per la rimanente quarta parte di fiduciose pecore non rognose; quanto alla minoranza si provvede diffidando con mezzi che variano a seconda dei casi, tutti coloro che potrebbero farne parte, come candidati, dal commettere la grave imprudenza di lasciarvisi includere.

(Gentile (II), p. 62)

LE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924

Oltre alla Legge elettorale, che poteva favorire il partito di maggioranza, quando questo aveva raggiunto un quorum stabilito, al fine di evitare l’eccessiva frammentazione, dovuta al notevole numero di partiti in gara, Mussolini aveva bisogno di far colpo non solo sull’opinione pubblica, ma anche su quelle realtà, istituzionali e non, che avevano un certo peso. Il suo atteggiamento verso la Chiesa si rivelò molto diverso da quello fin qui tenuto, e il nuovo Papa guardava con benevolenza a un uomo con cui si poteva discutere e raggiungere l’obiettivo di risolvere l’ormai annosa questione romana. Anche sul versante dell’economia, occorreva assicurare il mondo dell’imprenditoria, dopo i mesi drammatici degli scioperi e della marea montante “rossa”. Anche sul fronte della carta stampata, in modo particolare quella estera, Mussolini giocava le sue carte per accreditarsi come l’uomo giusto da guardare in modo favorevole. Ed anche gli interventi in politica estera rivelarono un uomo che cercava il prestigio del Paese, che pur aveva vinto la guerra e che meritava di più e di meglio: pretendeva di affrontare la questione turca a Losanna alla pari con Francia ed Inghilterra, ma al di là di generiche affermazioni non ebbe; nella questione poi di Corfù con i Greci ci furono pretese che non otten-nero la debita considerazione; qualcosa in più si ebbe con la soluzione della questione di Fiume, riconosciuta italiana.

Con le elezioni si riteneva che i problemi aperti circa il nuovo assetto dell’Italia si potessero chiarire una volta per tutte: la “stanchezza” portava a cercare una decisione che di fatto poi si rivelò vincente per il fascismo, anche se le strade per altre soluzioni apparivano ancora aperte. Ognuno voleva giocare le sue carte e chi le ha giocate meglio di fatto risulta essere Mussolini, non senza attraversare momenti non facili. Le opposizioni, come sempre succede in questi casi, erano divise, non solo perché si presentavano in ordine sparso, ma perché anche al loro interno c’erano contrasti sia nel frangente elettorale, sia nella prospettiva di poter formare un governo; di contro si era creato invece il cosiddetto “listone” con altre liste di appoggio laddove si riteneva necessario. A sinistra il Partito comunista continuava a ipotizzare una vera e propria rivoluzione, e ad esso si accodavano i massimalisti dell’area socialista. Puntando poi sul fatto che comunque non sarebbe stato loro possibile vincere, si preoccupavano su come gestire la fase successiva.

Tipico sarebbe stato a quest’ultimo proposito l’atteggiamento di Matteotti. La sua massima preoccupazione era rappresentata dal disorientamento e dal disfacimento del suo partito, dal continuo riemergere nel suo seno di posizioni possibiliste e collaborazioniste. (…) In un primo tempo anche lui non fu contrario all’idea di un’astensione di massa. Poi però l’abbandonò … l’astensione avrebbe finito per essere solo “un mezzo per scappare, per sottrarsi alla realtà”. Meglio dunque la lotta, inacerbendola anche: per vincere occorreva infatti “gente di volontà e non degli scettici”.

(De Felice (I), p. 565-6)

Anche il partito popolare si trovava in alto mare: la sua partecipazione al governo, nella componente di destra, l’aveva visto diviso. Non erano mancate le espulsioni e nello stesso tempo si era pure incrinata la fiducia nei confronti del fondatore, che puntava alla contrapposizione netta con il fascismo. Mussolini, invece, da parte sua, cercava una sorta di plebiscito popolare nei suoi confronti e nei confronti del fascismo: ovviamente non doveva solo vincere e assicurarsi la maggioranza, ma per lui era necessario che questa maggioranza mettesse alle corde gli altri partiti: li voleva “svuotati”, in modo tale che fosse svuotato lo stesso Parlamento. Riuscì per questo a convincere molti della vecchia guardia liberale ad entrare a far parte del “listone”, per dare al suo apparato una impronta di carattere nazionale, come se essi divenissero una specie di fronte nazionale con cui difendere e rafforzare lo Stato unitario. La campagna elettorale si sarebbe dovuta svolgere nella calma e nell’ordine, come risultava dagli auspici del capo del governo.

Ma ovviamente così non fu, anche perché nel gruppo dei fascisti ci furono i soliti facinorosi che cercavano l’occasione propizia per contrastare fisicamente gli avversari e l’impulso veniva loro dai ras locali. Contro qualcuno di essi Mussolini si mostrò duro …

Ma le violenze, personali e collettive, non riguardarono solo i fascisti dissidenti. Un po’ tutti gli oppositori ne furono vittime, in particolare i popolari e i democratici dell’opposizione costituzionale. Quasi tutte le regioni ne furono teatro ed ebbero le loro vittime, centinaia di feriti e non pochi morti. Senza dire dei circoli, delle sezioni, delle sedi di organizzazioni di opposizione, invasi, devastati, distrutti, dei comizi disturbati e sciolti con la forza, degli oratori ai quali fu impedito di parlare. Particolare clamore suscitarono alcuni episodi. Come l’aggressione – nella fase ancora di pre-scioglimento della Camera –, ma chiaramente collegata alla preparazione del futuro schieramento elettorale – di Amendola a Roma, il 26 dicembre 1923. (De Felice (I), p. 583-584)

Il risultato che si ebbe in questo clima piuttosto acceso e turbolento, fu di una partecipazione del 63,8%; rispetto alla tornata elettorale precedente ci fu un aumento del 5,4%. Non un plebiscito, quindi, ma comunque, tenuto conto del clima di intimidazione, fu pur sempre un discreto risultato. Sulla base dei risultati il listone ebbe 374 deputati su 535 e le liste “parallele” ebbero 15 eletti. All’opposizione, frammentata, andò il resto.

Solo i repubblicani e i comunisti migliorarono, sia in assoluto sia in percentuale, le loro posizioni. Il dato è eloquente: repubblicani e comunisti erano stati, nell’ambito dei rispettivi settori politici, i partiti più coerenti nell’opposizione al fascismo e avevano dato l’impressione all’elettorato di non soffrire di divisioni interne … I repubblicani ebbero 7 deputati, i comunisti 19. In crisi, invece – pur affermandosi come il principale partito di opposizione – si dimostrarono irrimediabilmente i popolari, falcidiati dai clerico-moderati e dalla destra a favore del “listone” (dei 108 deputati del 1921 ne tornarono a Montecitorio solo 39), e i massimalisti, che ebbero 22 eletti, mentre il PSU ne ebbe 24, dimostrando ancora una notevole vitalità. (De Felice (I), p. 587)

Indubbiamente queste elezioni sono il “capolavoro” di Mussolini, non solo perché ora lo consacrano come il capo del governo più votato e, secondo questa logica, il più popolare, ma perché a partire da questo risultato si avvia a costruire il suo disegno che non può non essere totalitario: la Camera eletta, secondo lui, non poteva avere altra ragion d’essere se non quella di ratificare le decisioni del governo, e il numero dei deputati era tale che questo obiettivo poteva essere facilmente raggiunto. Di qui ha inizio una decisa, quanto inane, opposizione di coloro che non si adattavano ad un tale sistema. Tra questi spicca la figura di Giacomo Matteotti (1885-1924).

IL DELITTO MATTEOTTI

Evidentemente il clima intimidatorio, nel quale erano avvenute le elezioni, denunciato da Matteotti nel suo intervento alla Camera, aveva favorito il listone e aveva messo in piedi un sistema che lasciava ben poco spazio alla minoranza parlamentare, del resto divisa al suo interno. Matteotti nell’ottobre 1922 era diventato segretario del PSU, una frangia staccata dal Partito Socialista, mentre al suo interno prevaleva la parte massimalista, e riconoscendo che il socialismo era di fatto allo sbando. Tuttavia egli riteneva che si dovesse combattere, mai con la violenza, perché i tempi erano particolarmente duri. Già nel discorso alla Camera di Mussolini del novembre 1922 egli aveva riconosciuto la natura totalitaria del fascismo: lo era già nella piazza ed ora lo diventava anche nel cuore delle istituzioni. Di qui un’opposizione intransigente, che ha lasciato il segno in Mussolini stesso, preoccupato delle conseguenze che potevano derivare dai ragionamenti di Matteotti. Già prima delle elezioni il futuro deputato denunciava il male rappresentato dal fascismo e nel contempo la corresponsabilità del comunismo (per questa sua presa di posizione Matteotti sarà radiato dalla considerazione del partito comunista). Così egli si esprimeva 

Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà; tutto ciò che esso ottiene lo spinge a nuovi arbitri, a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige. Perciò un partito di classe e di netta opposizione non può raccogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta a un fine, la libertà del popolo italiano. D’altro canto bisogna tornare a considerare la posizione del PSI. Purgato dai terzomondialisti (che dopo la scissione di Livorno erano passati con i comunisti) e nettamente discorde da Mosca, ormai non è diviso da noi che da minori divergenze teoriche. Ora per tali divergenze, tutte astratte e proiettate nel più lontano futuro, non è permesso tenere divisa la classe lavoratrice italiana. Il nemico attualmente è uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro. I lavoratori italiani, ammaestrati dalle dure esperienze del dopoguerra, devono riunirsi concordi, contro il fascismo che opprime e contro l’insidiosa discordia comunista. Se non possono muoversi i Partiti ufficialmente, i socialisti dell’uno e dell’altro campo devono porre la questione e risolverla. Senza ritardo. Le cose non avvengono da sé, ma ad opera degli uomini. Il ritardo serve solo a diffondere un più largo scetticismo nelle masse, Le obiezioni sono facili, e le sento; ma bisogna superarle ad ogni costo, per agire rapidamente.

(e aggiunge Gianpaolo Romanato, l’autore della sua biografia)

Ma il rifiuto totale del comunismo da parte di questo riformista coerente e intransigente va valutato più a fondo, anche per capire le origini delle barriere invalicabili che hanno spaccato la sinistra italiana fino alla caduta del muro di Berlino e forse anche oltre quell’evento. (Romanato, p. 246-7)

Forse più ancora che non verso il fascismo Matteotti è stato molto chiaro nei confronti dei comunisti per la deriva totalitaria che era già in atto nel mondo sovietico e che l’avvento di Stalin aveva già fatto aprire gli occhi a qualcuno, come Silone. La tragica scomparsa che venne in seguito al discorso della Camera, dove segnalava i brogli e le violenze, lo ha fatto diventare un martire del fascismo, mentre era evidente in lui la lotta contro ogni forma di totalitarismo. Gramsci lo aveva definito “pellegrino del nulla”, perché voleva una riforma invece che la rivoluzione, e questa, secondo gli schemi della violenza.

In una ricerca sul fascismo, come questa, per scoprirne la sua natura totalitaria fin dalle origini, va segnalato ciò che Matteotti aveva colto del fenomeno, che non doveva registrare solo in Italia e solo sul versante della destra politica. Indubbiamente era neces-saria una riforma radicale dello Stato, se non altro perché la guerra stessa aveva cambiato molte cose nella società civile.

Era la via che aveva sempre cercato di seguire Matteotti, non senza contraddizioni e ambiguità prima del fascismo, in forma più chiara e definita dopo l’inizio del regime mussoliniano, quando aveva compreso l’importanza decisiva e pregiudiziale a tutto del rispetto della legalità, delle libertà costituzionali, delle garanzie politiche. La morte, che affrontò con piena consapevolezza, ne fece una figura diversa, unica, nel panorama del suo partito e del socialismo italiano.

(Romanato, p. 250)

Che cosa si successo nell’episodio storico del delitto Matteotti è ben noto e comunque può essere ricostruito, come un atto di sopraffazione da parte di individui appartenenti al fascismo, i quali, anche senza ordini diretti in tal senso da Mussolini, sono arrivati al rapimento; ad esso seguì, per il pestaggio, anche la morte e di conseguenza l’occultamento del cadavere. Se Mussolini non viene indicato come il mandante esplicito e diretto, comunque diventa, per sua stessa ammissione, il responsabile di azioni violente, come lui stesso afferma alla Camera, quando si sente sicuro di poter dire anche questo. Nelle ore che seguono il rapimento, e prima ancora che se ne scopra il cadavere, Mussolini appare frastornato dalla piega degli eventi e cerca di correre ai ripari …

Mussolini, ovviamente, ha sempre negato ogni responsabilità diretta ed indiretta. Per lui, come avrebbe detto il 13 giugno, solo un suo “nemico” avrebbe potuto pensare a un così diabolico piano per metterlo in difficoltà. (De Felice (I), p. 587)

Per quanto egli cerchi di estraniarsi dal delitto, che tale viene avvertito ancor prima che si trovi il cadavere, Mussolini appare sempre più invischiato, anche se non esistono prove, nelle indagini che vengono fatte. Tutta l’opposizione è compatta nel denunciare il sistema della illegalità, della violenza, delle uccisioni, anche perché ogni partito e molte delle personalità che vi militavano aveva sperimentato lo squadrismo più scatenato. Il coinvolgimento di Mussolini venne dichiarato in un memoriale da Cesare Rossi (1887-1967), che nei giorni successivi al sequestro di Matteotti si era tenuto nascosto e poi si costituì.

Egli scriveva accusando direttamente Mussolini come responsabile, per il fatto che gli avrebbe palesato il desiderio che quell’uomo non dovesse più circolare. Rossi fu prosciolto nella prima istruttoria, e, nella seconda, dopo la guerra, fu assolto per insufficienza di prove. Nel frattempo cadde in disgrazia del fascismo e fu addirittura rinchiuso in carcere. Proprio la rivelazione di quel memoriale (27 dicembre 1924) obbligò Mussolini a prendere posizione, perché si era trovato contro i fascisti oltranzisti e nel contempo l’opposizione aventiniana che insisteva a sostenere ormai morente il fascismo.

L’AVENTINO

All’indomani del sequestro di Matteotti (10 giugno 1924) e per tutto il resto dell’anno, l’opposizione parlamentare scelse di astenersi dal frequentare la Camera, sperando che una simile scelta favorisse la caduta del governo, travolto dallo scandalo. Evidentemente si sperava che il Re intervenisse, approfittando dello stallo dell’attività parlamentare; ma il Re non intervenne, così come il fascismo stesso non rinunciò affatto a lasciare gli spazi di potere acquisito. Gli oppositori, soprattutto sul versante di quelli più moderati, si proponevano di aspettare un collasso del regime, senza la necessità di dover intervenire con prove di forza.

Amendola non era il solo a prevedere una prossima fine del fascismo. Ne era convinto anche Gramsci, che il 15 novembre pubblicava un articolo intitolato La caduta del fascismo. Quello stesso giorno, alla Camera, Giolitti passò all’opposizione, con una breve dichiarazione in difesa della libertà, rivolgendo un appello al presidente del Consiglio: “On. Presidente, per carità di Patria, non tratti il popolo italiano come se fosse un popolo che non merita la libertà che ha sempre avuto nel passato”. Il 22 novembre anche Salandra svolse un ordine del giorno nel quale si chiedeva al governo di “assicurare la pace pubblica mediante la rigorosa osservazione della legge”, e nel suo discorso, pur continuando a manifestare fiducia nel presidente del Consiglio e nel fascismo stesso, deplorò la politica del partito fascista, citando fatti e portando argomenti che erano gli stessi che da quasi due anni esponevano coloro che avevano per primi denunciato il sistema totalitario dello Stato-partito … (Gentile (II), p. 159-160)

I deputati dell’opposizione, il 27 giugno 1924, avevano deciso di abbandonare l’aula per protesta e di trovarsi ad esprimere la propria opposizione, con l’auspicio di avere dalla propria parte il popolo italiano in un sussulto morale, che in realtà non ci fu. E neppure ci fu la reazione del Re a loro sostegno.

Era di fatto una sorta di secessione, che, si richiamava a quella “mitica” della plebe di Roma vissuta sul colle Aventino e che divenne famosa con l’apologo di Menenio Agrippa, intervenuto per convincere a rientrare. Per questo sarà definita “dell’Aventino”. Non ne sortì alcune effetto. Il governo, per quanto sembrasse travolto dallo scandalo derivato dal rapimento e dall’uccisione di Matteotti, si rafforzò, e, in seguito al memoriale di Cesare Rossi, Mussolini decise di intervenire con un discorso, prima che il Re manovrasse per far decadere il governo. L’opposizione aventiniana fu di fatto sterile, anche perché al suo interno era divisa: i deputati comunisti decisero ad un certo punto di rientrare alla Camera, così come nel gennaio 1926 molti erano tornati per la commemorazione della Regina Margherita, da poco defunta. Qualcuno poi manovrava perché si passasse all’azione, che avrebbe dovuto prevedere anche una insurrezio-ne armata. Ma non se ne fece nulla. Di fatto l’Aventino durò fino al no-vembre 1926, quando, dopo l’attentato a Mussolini, con l’introduzione di leggi speciali, i deputati aventiniani furono dichiarati decaduti.

IL DISCORSO DEL 3 GENNAIO 1925

Il clima piuttosto infuocato nell’autunno 1924 portava a credere che la situazione potesse precipitare: molti dell’Aventino si illudevano che il fascismo avesse i giorni contati e nell’ambito stesso dei fascisti c’era pure chi temeva il collasso. Chi stava attorno a Salandra e a Giolitti si preparava ad un ipotetico nuovo governo per uscire da una impasse foriera di scontri di piazza, piuttosto pericolosi. Mussolini dava l’impressione di non saper trovare una onorevole via d’uscita, anche a temere che potesse risultare incriminato, soprattutto dopo la denuncia del memoriale di Cesare Rossi.

Che Mussolini non volesse lasciare il potere è pacifico. Al punto in cui erano arrivate le cose, lasciarlo avrebbe voluto dire esporsi al rischio di un procedimento giudiziario: gli aventiniani non gli avrebbero certo dato tregua e un simile procedimento avrebbe sanzionato, certamente, la sua fine politica e, molto probabilmente, la sua condanna, troppi essendo gli addebiti che gli sarebbero stati mossi per sperare di poter uscire indenne dalla prova. Nulla però autorizza a credere che Mussolini il 30 dicembre pensasse ad un vero e proprio colpo di stato. Del resto, con lo stesso discorso del 3 gennaio egli non avrebbe fatto che un mezzo colpo di stato, incentrato molto più sul piano politico che non su quello giuridico. Se, fino alla mattina del 31 dicembre, Mussolini pensò ad un colpo di stato, pensò al colpo di stato del 20 dicembre; pensò cioè a una grande operazione trasformistica … che gli permettesse di rabberciare la situazione e salvare se stesso, buttandosi nella selva delle manovre e dei compromessi a lui tanto cari e sacrificando in pratica il fascismo intransigente. (De Felice (I), p. 704-705)

L’esplicito riferimento che lo storico fa ad un “colpo di Stato” in corso d’opera, lascia intendere che la situazione era davvero molto seria, per non dire drammatica. Il pericolo di un pronunciamento proveniva dalle file più esasperate del fascismo stesso che avvertiva il venir meno dello spirito rivoluzionario. Del resto esso non era mai esploso, perché nessuna azione era stata fatta per accaparrarsi dello Stato e per farlo divenire “fascista”, cioè uno Stato-Partito. Così Mussolini si vede costretto ad anticipare coloro che già si muovevano in maniera minacciosa e che potevano travolgere anche e soprattutto la sua persona.

Nella notte dal 30 al 31 anche nel capoluogo toscano come in altre località … si era sparsa la voce che nella riunione del Consiglio dei ministri fossero state decise le dimissioni del governo. Ciò aveva provocato la reazione degli intransigenti, che avevano stampato un manifesto in cui si affermava che il governo fascista era pronto ad applicare tutte le misure necessarie a tutelare gli interessi del paese e avevano mobilitato i fascisti del contado … “La adunata – avrebbe riferito in un suo rapporto l’ispettore generale di PS Valenti qualche giorno dopo – era impressionante, a tinta prettamente rivoluzionaria, ed i fascisti fiorentini, non dilaniati come in altre regioni, da lotte interne, mostravano di essere in piena efficienza, agguerriti, più forti di quanto non fossero alla vigilia della marcia su Roma e pronti a qualsiasi evento”.

(De Felice (I), p. 715)

In questo clima surriscaldato e con il timore che intervenisse pure il Re, Mussolini decide di fare il “suo colpo di Stato”, con il discorso alla Camera, mediante il quale egli chiarisce i suoi intendimenti, se ancora ci fosse stato bisogno di esplicitare la sua concezione di Stato. Si tenga conto che l’opposizione non è presente e tuttavia egli parla con forza contro di essa, ma nel contempo sta pure dicendo che non la farà mancare all’interno dello stesso partito, perché il governo è forte!

Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre. Un discorso di siffatto genere può condurre e può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: «La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia.» Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo, e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire. Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo. Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle 150.000 alle 160.000 persone, se-condo attestano le statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutte le classi borghesi e sui membri singoli della borghesia, una Ceka che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione. Ma la Ceka italiana non è mai esistita. Nessuno mi ha mai negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto corag-gio ed un sovrano disprezzo del vile denaro.

(Qui, per provare che non è affatto l’organizzatore di una struttura come quella in uso in Russia, dove si eliminano fisicamente gli avversari, ricorda i suoi interventi dopo il rapimento di Matteotti)

Ricordo e ho ancora ai miei occhî la visione di questa parte della Camera, ove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita ed avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta.

Come potevo, dopo un successo — lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie — dopo un successo così clamoroso che tutta la Camera ha ammesso, comprese le oppo-sizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario (Matteotti) che io stimavo perché aveva una certa «crânerie», un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? Che cosa dovevo fare? Sono cervellini di grillo quelli che pretendevano da me in quell’occasione gesti di cinismo che io non sentivo di fare, perché ripugnano al più profondo della mia coscienza, oppure dei gesti di forza.

(Ricorda in effetti interventi di forza, come quello in occasione della crisi di Corfù, per dire che, certo, in alcune occasioni, la forza è necessaria, ma …)

Fu alla fine di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: Voglio che ci sia la pace per il popolo italiano, e volevo stabilire la normalità della vita politica. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale e nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali. C’era veramente un accesso di necrofilia. Si facevano inquisizioni anche su quello che succedeva sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva lo stesso! Io sono stato sempre tranquillo e calmo in mezzo a questa bufera che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. C’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno volle vendicare l’ucciso (Matteotti) e sparò su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca (fa riferimento al deputato Armando Casalini che fu ucciso in tram a Roma).Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione o di normalità. Reprimo gli illegalismi. Non è menzogna quando dico che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti.

(Qui Mussolini rivendica di avere sempre lasciato fare all’inchiesta, di volere leggi discusse in parlamento mentre dall’Aventino si inveisce con accuse infamanti e con il richiamo alla questione morale)

Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa!

Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi. In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandano: c’è un Governo? Questi uomini hanno una dignità come uomini? Ne hanno una anche come Governo? Sono stato io che ho voluto che le cose giungessero a questo determinato punto estremo. È ricca la mia esperienza di vita di questi sei mesi. Io ho saggiato il Partito. Come per sentire la tempra di certi metalli bisogna batterli con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini. Ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento quando il vento è infido, scantonano per la tangente. Ho saggiato me stesso. E guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della Nazione. Un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere. Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, ed il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: basta! La misura è colma! Ed era colma perché? Perché la sedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano. Questa sedizione dell’Aventino ha avuto delle conseguenze perché in Italia oggi chi è fascista rischia ancora la vita! Nei soli mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, dei quali uno ha avuto la testa schiacciata fino ad essere ridotta un’ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio settantatreenne, è stato ucciso e gettato da un muraglione. Poi tre incendî si son avuti in un mese, tre incendî misteriosi nelle Ferrovie: uno a Roma, l’altro a Parma ed un terzo a Firenze. Quindi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento perché è necessario documentare attraverso i giornali di ieri e di oggi. (E qui Mussolini elenca una serie di episodi di violenza contro i fascisti) Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Ed allora viene il momento in cui si dice: basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora … Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario.

Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria.

Dopo una breve sospensione della seduta, la Camera approva la proposta di Mussolini di un rinvio e di una riconvocazione a domicilio. Era l’atto di nascita della dittatura, l’affossamento insieme delle velleità della “rivoluzione fascista” e delle forze politiche di opposizione. Suckert (Curzio Malaparte), dopo aver criticato le misure di polizia subito impartite da Federzoni , si chiese se il discorso del 3 gennaio fosse stato “un atto sincero di fede rivoluzionaria, o non piuttosto una mossa dell’abilissima tattica mussoliniana, una maschera rivoluzionaria gettata, per ingannare gli amici e gli avversari, sul viso della normalizzazione”. Sul fronte opposto toccò a “Rinascita liberale”, la rivista di Adolfo Tino e Armando Zanetti, cogliere in quella data la “Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare e l’esplicito inizio di una fase di reazione”. La stessa facilità con cui Mussolini avrebbe provveduto alla sostituzione, subito dopo il 3 gennaio, dei dimissionari Oviglio con Rocco alla Giustizia, Casati con Fedele all’Istruzione e Serrocchi con Giuriati ai Lavori pubblici, avrebbe dimostrato come lo stesso ruolo della monarchia andasse illanguidendosi e come il 3 gennaio avesse segnato un momento di rottura, se non ancora sul piano costituzionale, certo per la gestione del governo del Paese da parte del fascismo. (De Felice (II), p. 38)

È IL POTERE DI UN UOMO SOLO

Ovviamente non basta una data e neppure un discorso, per quanto inequivocabile, a decidere che qui si sia passato il “famoso Rubicone”, per dare origine ad una dittatura, così come al tempo di Cesare quel gesto fu ritenuto un atto “sacrilego” e contro il fragile equilibrio “costituzionale” della Roma antica. Mussolini non diventa dittatore solo per le parole dette alla Camera in quella circostanza. Ma indubbiamente a partire da qui ogni forma di opposizione fu messa a tacere, sia nei parlamentari, sia nei giornali, sia in tutte quelle forme di aggregazione che solitamente si reggono sul libero dibattito. Si addivenne al silenzio con una serie di provvedimenti legislativi, che divennero particolarmente stringenti all’indomani del fallito attentato del 31 ottobre 1926. Va riconosciuto che comunque le basi di un simile sistema dittatoriale sono gettate con questo discorso che Mussolini tenne ad una Camera che era già sua, se sugli scranni mancavano gli oppositori. La durezza del suo linguaggio che certamente aveva come obiettivo i transfughi dell’Aventino, andava comunque a colpire anche il fascismo intransigente, che lui avvertiva come un pericolo e che sembrava propenso ad una specie di colpo di Stato nel quale travolgere il governo presieduto dallo stesso Mussolini.

Così colui che poi vorrà farsi chiamare “Duce” si impadronisce dello Stato, il suo obiettivo finale, essendosi impadronito del partito, il suo mezzo, necessario per raggiungere il fine prefissato. Nello stesso tempo va pure chiarito che in realtà lo Stato che Mussolini vuol occupare è il Governo del Paese, tenuto conto che in relazione a questa sua finalità politica, da una parte deve rispettare la monarchia, la quale viene comunque usata per ottenere quanto era nei piani di Mussolini. Una lettura più attenta di quel che è successo mostra all’evidenza che non ci fu un vero e proprio totalitarismo, se effettivamente c’è da spartire lo Stato con il Re; ma costui era comunque stato ridotto al grimaldello per raggiungere ciò che più conta. A questo punto nasce per Mussolini l’esigenza di costruire uno Stato che sia davve-ro secondo la sua impostazione e la sua visione e proprio per questo dovrà creare strutture adeguate perché lo Stato sia ridotto a divenire il suo partito, allo stesso modo con cui il partito era servito a dare la scalata allo Stato. Sulla base di una simile visione va ritenuto che il solo obiettivo di governare da solo, e di farlo con la forza bruta, dice chiaramente la pochezza del sistema, perché manca di una visione politica, di un’alta scuola di democrazia e più ancora di sistemi istituzionali adeguati a reggere …

nella scuola politica fascista, la sola idea fondamentale era l’antidemocrazia “in mezzo alla congerie di luoghi comuni e di filosofemi che forma il bagaglio dottrinario di essa”; ma neppure l’idea dell’antidemocrazia aveva un fondamento teorico, anche se era diffusa fra le giovani generazioni, e si sarebbe esaurita per propria inconsistenza, in quanto contraria al progresso della civiltà moderna che era democratica, se “non si fosse instaurata una dittatura, la cui origine di dominio è solo nella forza materiale”, anche se gli intellettuali della dittatura ora fornivano al partito che aveva conquistato il governo improvvisate dottrine per conservarlo”. “Il guaio è – soggiunge con evidente rammarico Ingrosso (Gustavo Ingrosso è un giurista napoletano, sindaco e presidente della Corte dei Conti e insegnante universitario, anti-fascista) – che queste dottrine politiche esso non afferma e proclama con gli scritti e con la parola solamente. Ahimè! Esso le attua, anzi le costruisce teo-ricamente, dopo averle attuate, o meglio, perché le ha attuate. Ed è qui il vero pericolo della nuova scuola politica”.

(Gentile (II), p. 179-180)

I rilievi che lo storico Gentile apporta a proposito della rivendicazione che Mussolini fa di voler creare uno Stato totalitario, inteso soprattutto come Stato forte vengono prodotti dalla contestazione che il giurista Gustavo Ingrosso (1877-1968) aveva già avanzato in quel medesimo periodo per segnalare quanto fosse inconsistente il quadro culturale di riferimento da cui si pensava di derivare la costruzione dello Stato fascista. È una contestazione di carattere culturale ed è tale da rendere evidente il particolare vuoto che stava dietro l’azione di Mussolini e la costruzione del suo appa-rato. Il giudizio appare netto e particolarmente impietoso.

Appena conquistato il governo, ben presto “lo Stato fascista si è rivelato essere non lo Stato forte che gli incauti fiancheggiatori del fascismo avevano sognato, ma niente altro che Stato-Partito”. Ingrosso attribuisce il cambiamento non ad accidenti casuali e improvvisate decisioni, ma alla “logica conseguenziale” che si poteva riscontrare nell’operato del partito fascista, nonostante “un groviglio di contraddizioni” nei discorsi di Mussolini e i continui “contrasti, ricorsi e mobilità di propositi e incostanza di decisioni” nella sua azione di governo, perché erano “contraddizioni esteriori e formali”, dipendenti da “esigenze di tattica”, mentre “la linea fondamentale della sua politica è ferma, costante, ed è sempre drizzata come una lama ad un fine: la conquista prima, la conservazione dopo del Governo, per sé e per il partito”.

(Gentile (II), p. 180-181)

Nella medesima direzione critica si muove anche De Felice, proprio a partire da questo momento nel quale noi dovremmo parlare di deriva autoritaria, di trasformazione dittatoriale del potere. E questo avveniva, ben diversamente da ciò che succede altrove negli stessi anni: se in URSS e nella Germania divenuta nazista è il partito a prevalere, qui da noi, invece, è un uomo solo ad occupare il Governo, mentre l’Italia continua, almeno formalmente, ad essere una monarchia, come se questo aspetto non avesse alcun peso per il dittatore, il quale si appoggiava lì per avere garantito il suo potere. Proprio quando viene gettata la maschera di questo “pasticcio”, si può dire che Mussolini può cercare di costruire il suo sistema di Stato; ma ormai, anche questo gli è impossibile, non solo perché c’è la guerra, già perduta, ma anche perché è più che mai prigioniero di colui che egli si illude sia il suo alleato. Insomma, qui nasce una dittatura anomala, che non ha solo prodotto i guai di un sistema violento, ma ha condotto alla guerra e più ancora a quel genere di vuoto e di inconsistenza, che non dà neppur la possibilità di riprodursi …

Nel suo cammino verso lì’instaurazione di un regime totalitario e autoritario di massa il fascismo avrebbe in effetti cercato di troncare tutti i ponti con il passato, si trattasse delle opposizioni “classiche”, degli stanchi residui dello Stato liberale o di quelle stesse forze politiche, economiche e sociali che ne avevano più o meno direttamente favorito il successo. In questa corsa all’affermazione del totalitarismo e al conseguimento di un monopolio del potere, il fascismo agì indubbiamente con mano pesante nei confronti di qualsiasi tipo di opposizione politica organizzata; ciò che comunque differenziò quel processo da quello già in atto in Unione Sovietica e da quello che si sarebbe verificato nella Germania nazionalsocialista fu il ruolo assegnato in esso al partito. Se infatti, sia in Unione Sovietica che nella Germania nazista, lo Stato sarebbe stato subordinato e quindi fagocitato dal partito, nell’Italia fascista si sviluppò un processo inverso: al centro del regime era lo Stato, con il partito confinato per certi versi in una posizione secondaria, pronto, se necessario, a essere del tutto sacrificato se le superiori esigenze della costruzione e della salvezza dello Stato lo avessero richiesto.

(De Felice (II), p. 39-40)

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La particolare lettura che già in quei frangenti, un secolo fa, si dava dell’esperienza dittatoriale mussoliniana – più che fascista – può servire a leggere meglio questa vicenda, uscendo anche dalle secche di contrapposizioni ideologiche che si trascinano. Il caso, tutto italiano, di Mussolini e della sua conquista e gestione del potere, anche a vedere attorno la struttura e la retorica di una organizzazione di partito, è in realtà una occupazione del governo, e una gestione di esso, da parte di Mussolini, e permessa del resto dal capo dello Stato, con cui il duce convive, fin quando la convivenza diventa possibile. Ciò che Mussolini costruisce poi nella Repubblica sociale dovrebbe essere la vera impostazione del fascismo, anche se la guerra in corso non consentiva l’elaborazione di uno Stato, come lui l’avrebbe desiderato. Così questa particolare dittatura è dovuta ad un uomo, che aveva questo obiettivo fisso da raggiungere nel suo avventuroso modo di concepire e di attuare i suoi progetti di vita. Evidentemente aveva bisogno di costruirsi un apparato, che però fu soltanto un mezzo di cui servirsi per raggiungere i suoi scopi. Nel concreto della situazione, tutta italiana, egli dovette tener conto della presenza del Re, che tuttavia fu relegato ad una figura di contorno rispetto alla centralità che, nella visione di Mussolini, doveva avere il governo, identificato con la sua persona, con il Duce. Colui che in quegli anni si considerava il suo discepolo, e cioè Hitler, ha seguito la medesima impostazione, senza avere comunque la necessità di condividere il governo con una personalità superiore.

Egli non istituì una “Republik”, alternativa a quella di Weimar, bensì un “Reich”, senza la necessità di costituirvi un “Kaiser”, visto che lui ne era divenuto il “Führer”. Anche ad avere subordinato un “Partei”, Hitler, come aveva fatto Mussolini, non riteneva che di lì venisse il suo potere (non per nulla scatenò la “notte dei lunghi coltelli”, per sbaragliare le SA, che avrebbe voluto alle sue dipendenze e che comunque potevano diventare imbarazzanti e antagoniste nel gestire il potere assoluto). Con questa impostazione dittatoriale questi due fenomeni non potevano avere eredità, se tutto era concentrato nella loro persona: caduti loro, tutto sarebbe crollato e quel che si pensa di voler costruire allo stesso modo, come se ne fosse la continuità, è di fatto ben altro. È diverso invece il caso della dittatura del proletariato, dove pure esistono personalità ingombranti, come quella di Stalin o di Mao: qui il partito continua con il suo apparato, anche quando vengono a mancare i capi, che pure si servono del partito per la gestione assoluta del potere. Si deve quindi arguire che il sistema dittatoriale di destra è costruito sulla personalità dominante del capo e che comunque costui ha come suo obiettivo il “governo”, esercitato e mantenuto con la violenza.

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