LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.

INTRODUZIONE – Occorre ribadire che lo scopo fondamentale del viaggio di Matteo Ricci in Cina e più ancora della sua relazione scritta che ci fa conoscere la Cina con i suoi occhi, secondo il metodo dell’autopsia, è quello di seminare la parola evangelica, anche se nel modo stesso che Ricci ha di operare e poi di redigere la sua relazione, egli lascia questo obiettivo sullo sfondo. Preferisce cercare un approccio rispettoso con il mondo cinese, che egli deve riconosce costruito su una profonda e seria ricerca della saggezza, che fa ritenere i costumi cinesi degni di rispetto. Non si verifica uno scontro, ma si assiste ad un vero e serio confronto, che poi a Roma darà adito a qualche sospetto, come se Ricci volesse perseguire un certo sincretismo. La Controriforma, che si respirava in Europa, vedeva una rigida contrapposizione contro ogni altro credo religioso che non fosse il Cattolicesimo: esso si riteneva accerchiato, e reagiva in modo dogmatico e senza un vero spirito dialogico. Anzi, non lasciava molto campo di libertà per questo modo che aveva Ricci, e con lui, l’avanguardia missionaria gesuita, nel suo contatto con un mondo ritenuto lontano dal Cristianesimo e come tale considerato terra di “conquista”. Ricci, da missionario, non si poteva sottrarre al suo mandato; ma nel contempo non poteva neppure presentarsi con tutto il suo apparato dogmatico da imporre in un mondo già sospettoso e poco incline a “lasciarsi inglobare”, mentre era piuttosto teso ad “inglobare” il resto del mondo. Se in altre aree del mondo, dove sembrava fin troppo evidente la condizione di uno “status” ancora primitivo con usi e costumanze ritenute inadeguate, secondo una certa visione umanistica, acquisita e data per scontata in Europa, qui invece si respirava un mondo di natura filosofica e morale, con cui si poteva dialogare, come del resto era stato fatto già agli albori del Cristianesimo tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano. Così la componente religiosa, che si sarebbe dovuta ritenere prioritaria, affiorava non soltanto perché Ricci era un prete con questo specifico incarico, ma perché la scoperta in Cina di una religiosità radicata doveva più che altrove richiedere particolare attenzione. Proprio questo spirito religioso va riconosciuto come essenziale nella storia cinese; si potrebbe dire che anche negli anni del furore persecutorio contro ogni forma religiosa e nel vano tentativo di mortificare ogni credo religioso, comunque questo spirito è radicato e come tale è da associare alla conoscenza storica della Cina.

LA RELIGIOSITA’ CINESE

E CONFUCIO

Il tramite con cui Ricci si fa strada nel mondo cinese, facendo leva sullo spirito religioso, è la figura di Confucio: bisogna riconoscere che questo personaggio è davvero determinante, perché lo stesso Ricci possa mettersi in dialogo serio e sincero con i Cinesi. Anzi, sono gli stessi Gesuiti, arrivati in Cina, a conoscere e a far conoscere questa figura “mitica”, che viene scandagliata nelle sue opere nell’intento di capire il senso religioso diffuso in Cina.

Questa entrata in scena di prim’ordine Confucio la deve a un fenomeno di grande ampiezza e di una portata che solo raramente è stata raggiunta dalla storia interculturale: la trasmissione di conoscenze operata dai missionari gesuiti che cominciarono ad arrivare a Canton nel 1582, sotto il regno dell’Imperatore Wanli della dinastia dei Ming. Si tratta degli italiani Michele Ruggieri (1543-1607) e Matteo Ricci (1552-1610). Appena arrivati in Cina, i Gesuiti, uomini pratici, applicano come di consueto la loro strategia di approccio, che consiste nel trovare in primo luogo un solido ancoraggio nella lingua e nei costumi della popolazione interessata, gettando così le prime basi di quella che diventerà poi la disciplina sinologica. Per essere più vicini agli autoctoni, essi tentano innanzitutto di identificarsi con i bonzi buddisti, ma capiscono rapidamente che guadagneranno in efficacia avvicinandosi all’èlite costituita dai letterati-ufficiali confuciani. Nel 1595, Ricci e i suoi compagni lasciano l’abito dei bonzi per rivestire quello dei letterati, ma è solo nel 1601 che verranno infine ammessi a risiedere a Pechino, capitale imperiale. (Cheng, p. 21-23)

La figura di Confucio, almeno per quello che noi conosciamo dalla segnalazione offerta dai Gesuiti giunti in Cina, e in particolare da Matteo Ricci, appare con i contorni che noi definiremmo mitici, come se si trattasse di un personaggio che si perde nella notte dei tempi; in realtà egli appartiene ad un periodo precedente l’era cristiana, quando in Occidente si stava formando la filosofia greca con i suoi primi rappresentanti, di cui possediamo frammenti d’opere, mentre le grandi figure dell’epoca classica devono ancora affermarsi. Confucio appare con le medesime caratteristiche di un filosofo occidentale coevo, e quindi più appartenente alla sfera filosofico-letteraria che non a quella religioso-morale.

Ma poi questa componente appare più importante, e per la conoscenza che noi abbiamo acquisita a partire dalla traduzione delle opere fatta dai Gesuiti che soggiornano in Cina, Confucio risulta essere un maestro nell’ambito religioso e soprattutto morale, finendo per assumere questo suo ruolo. Eppure Confucio non va riconosciuto come un capo religioso, come il fondatore di una particolare visione religiosa, per quanto alcuni tra i suoi detti possono essere considerati appartenenti alla sfera religiosa.

Confucio fu il promotore di un pensiero originale, inedito nel panorama culturale cinese del  VI-V secolo a.C. Il suo insegnamento può essere sintetizzato come “il tentativo di elaborare una concezione etica dell’uomo nella sua integralità e universalità”, vale a dire che Confucio tentò di fornire una serie di indicazioni relativamente a quale sia il modo migliore in cui l’uomo può condurre la sua esistenza, tenendo conto di tutti gli aspetti più importanti della natura umana. Ciò comportò non soltanto l’individuazione e la ridefinizione del significato di che cosa possa significare di preciso “essere umani”, ma anche la proposta da parte di Confucio di un nuovo modello per la realizzazione di sé, giudicato compatibile con l’edificazione di una comunità umana prospera e armoniosa. L’insegnamento di Confucio si è rivelato determinante per lo sviluppo del pensiero cinese: è lecito affermare che dopo la sua morte nessuna delle scuole di pensiero, delle correnti filosofiche e dei pensatori che si susseguirono in Cina poté prescindere dal confrontarsi con quella che si presenta come una vera e propria “figura fondatrice”. Finché fu in vita Confucio poté contare su una discreta cerchia di discepoli, ma fu in particolare dopo la sua morte che i suoi insegnamenti attrassero una lunga serie di pensatori, letterati, studiosi, i quali approfondirono e rielaborarono i temi del suo insegnamento, dando vita a un movimento di pensiero che la storiografia cinese etichettò a posteriori come confucianesimo, una delle principali scuole filosofiche cinesi. L’insegnamento di Confucio ha avuto un grandissimo impatto sullo sviluppo della cultura, della storia e degli stili di vita di quei paesi asiatici in cui si diffuse, a partire dalla Cina per proseguire con la Corea, il Giappone e il Vietnam. Il principale testo di riferimento per avvicinarsi al pensiero di Confucio è costituito da “I Dialoghi”, una raccolta di aforismi e frammenti attribuiti al Maestro che in realtà è il frutto della selezione operata dai suoi discepoli delle generazioni successive. Il pensiero confuciano fu introdotto in Europa nel XVII secolo ad opera dei Gesuiti, che nel corso delle prime missioni in Cina si impegnarono nello studio della lingua cinese e nella traduzione di alcune opere della letteratura cinese classica. Al loro lavoro si deve la prima latinizzazione del nome cinese in  Confucius.

Prospero Intorcetta, gesuita italiano, trasferitosi in Cina nel 1659, fu tra i primi europei a tradurre l’opera di Confucio in latino e dopo appena tre anni pubblicò i suoi appunti relativi allo studio dei Quattro libri. (Wikipedia)

IL METODO DI “ACCOMODAMENTO”

Confucio viene ritenuto dai missionari gesuiti un personaggio fondamentale per l’obiettivo missionario che essi si prefiggevano di raggiungere: essi ritenevano che fosse necessaria una base, a partire dalla quale poi introdurre il messaggio evangelico, come se il rispetto della cultura cinese diventasse la condizione ideale per introdurre il “Verbo della vita”. Nessuno dei gesuiti che si affacciano al mondo cinese mette in discussione l’obiettivo di predicare il vangelo e di far conoscere il Cristo. E tuttavia è necessario studiare la strategia migliore, tenuto conto che la Cina presenta un livello culturale di notevole grandezza; e questo non è solo da rispettare, ma anche da valorizzare nel dialogo che è necessario intessere. Qui più che in altre aree geografiche i Gesuiti mettono in campo una strategia che privilegia l’adattamento alla situazione locale e quindi valorizza ciò che la cultura locale offre perché lì si innesti il messaggio evangelico. Esso non deve calare dall’alto, addirittura in contrapposizione pregiudiziale con la ricerca religiosa in atto, finendo per screditare o ignorare ciò che già esiste e risulta essere una buona base di partenza per introdurre il Cristianesimo. Del resto, anche l’apostolo Paolo, come risulta evidente nel suo discorso costruito e tenuto all’Areopago di Atene, aveva utilizzato il mondo culturale greco come base di partenza con cui introdurre il messaggio evangelico. Qui si vede un metodo molto simile che fa ricorso all’apparato di sapienza già presente, che i Gesuiti si propongono di conoscere mediante la traduzione dei testi, anche per far sapere in Europa il grande patrimonio di sapienza presente in Cina.

Subito dopo il loro arrivo, senza perdere tempo, i Gesuiti, incaricati di convertire i Cinesi alla fede cristiana secondo i dogmi della Controriforma, praticano una strategia detta di “accomodamento” (in inglese accomodation, termine inventato a posteriori per indicare questa maniera di abbordare e di evangelizzare l’impero cinese). In realtà si tratta di un metodo già sperimentato sulle grandi tradizioni dell’antichità, in particolare greco-latine, ma anche ermetiche ed egiziane.

La grande idea dei doni del Rinascimento del XVI secolo, ripresa da Ricci, è che doveva esistere una “prisca (o primaeva) theologica (o philosophia)”, una teologia o filosofia prima o naturale non ancora alterata o lontana dall’origine divina e trasmessa dai filosofi greci. I Gesuiti scoprono tuttavia che la civiltà cinese risale a tempi ben più antichi, addirittura all’epoca del Diluvio universale. Così Ricci e i suoi compagni non fanno che applicare metodi da lungo tempo messi alla prova dall’esegesi cristiana applicata alle fonti antiche. Per farlo agiscono su almeno tre fonti principali: il lavoro di conversione propriamente detto, che appare tuttavia condizionato da un duplice lavoro di mediazione consistente in traduzioni e in “relazioni”. Le traduzioni dei Gesuiti portano per la prima volta a conoscenza delle élites europee ciò che è al cuore e alla base della cultura delle élites cinesi: i classici confuciani, che costituiscono la base delle conoscenze richieste per passare gli esami detti “di mandarinato”, destinati a reclutare i migliori servitori dello Stato imperiale. D’altra parte, essendo sul terreno, i Gesuiti inviano ai loro corrispondenti europei, che fanno spesso parte delle élites intellettuali, delle “relazioni” (resoconti o testimonianze) contenenti informazioni sulla cultura e i costumi cinesi, così come essi apparivano, perlo-meno, dal loro punto di vista. (Cheng, p. 23-27)

La traduzione dei testi confuciani comporta ai missionari gesuiti una immersione profonda nella lingua e nella cultura cinese, soprattutto con quel senso di rispetto, per il quale non si giudica dall’alto del proprio impianto dogmatico la congruità o meno dei testi con l’essenziale della dottrina cristiana. Anche in questo campo, insomma, Ricci e compagni cercano quella forma di adattamento che dà risalto e valore alla cultura cinese, la quale va comunque integrata e portata a perfezione con il messaggio cristiano. Come nei primi tempi del Cristianesimo non si poteva prescindere dal mondo filosofico greco, non perché se ne condividesse totalmente l’impianto, ma perché un certo linguaggio appariva utile ad ac-compagnare l’evangelizzazione, così ora si riconosce che anche il pensiero confuciano può essere base di partenza con cui introdurre alla conoscenza del messaggio evangelico. E tuttavia il pensiero confuciano attiene al mondo filosofico e non è propriamente portatore di un messaggio religioso, e non si propone di costruire uno spirito religioso, non essendo questo il suo scopo principale. Ma può essere una buona base di partenza per avviare alla ricerca religiosa. Questo è ciò che pensano, e che si prefiggono di considerare, i missionari nel loro approccio con i Cinesi in vista della missione che hanno il compito di realizzare.

Di qui la conoscenza e l’analisi dei testi confuciani, soprattutto mediante il lavoro di traduzione, che permette l’introduzione di Confucio nel mondo occidentale e nello stesso tempo la dimostrazione che i missionari europei si propongono nei confronti dei Cinesi di conoscere più da vicino il loro mondo.

Le traduzioni effettuate dai Gesuiti (dal cinese in latino e dal latino in cinese) costituiscono la seconda esperienza di trasmissione culturale e linguistica dopo il grande cantiere di traduzione dei testi buddisti indiani, che ha occupato gran parte del primo millennio dell’era cristiana. Nel 1588, Michele Ruggieri, appena pochi anni dopo il suo arrivo in Cina, si pone come primissimo compito quello di avviare una traduzione in latino dei Quattro Libri, poco prima di essere richiamato a Roma. Cinque anni più tardi, Matteo Ricci ne realizza una parafrasi che utilizza come manuale d’introduzione al cinese, sia classico che vernacolare, destinato a formare le nuove reclute della missione e a permettere loro di discutere alla pari con gli “omologhi” eruditi cinesi. Tra il 1588, anno in cui Ruggieri porta a termine il primo getto della sua traduzione dei Quattro Libri, e il 1687, anno della pubblicazione del famoso Confucius Sinarum Philosophus di cui si tratterà più oltre, si estende un secolo di lavori di traduzione che approderà a inglobare l’insieme dei Classici confuciani, ritenuti capaci di servire da vettori potenziali della fede cristiana. Queste fonti confuciane sono utilizzate nella forma e nella condizione stabilite dalla dinastia mongola degli Yuan, per costituire la prima forma vera ortodossia di Stato. Per quanto possa sembrare paradossale, è, infatti, una dinastia non cinese che, nel XIV secolo, fece dei Quattro Libri … la base del curriculum richiesto per gli esami civili di reclutamento dei servitori dello Stato. I gesuiti si servono in particolare dell’edizione commentata e recente di Zhang Juzheng (1525-83), precettore del giovane Wanli, all’epoca principe ereditario, che salirà al trono nel 1573. Le traduzioni sono realizzate attraverso il prisma della terminologia e delle problematiche proprie alla teologia e alla filosofia morale del Rinascimento europeo cui i Gesuiti erano stati formati. (Cheng, p. 27-29)

L’ASPETTO RELIGIOSO

DEL CONFUCIANESIMO

Lo stesso Ricci introduce Confucio non come maestro nell’ambito religioso, ma lo presenta come maestro di moralità: egli fa uso di sentenze che hanno il pregio di essere ragionevoli e come tali possono valere ovunque, nel tempo e nello spazio e, quindi, non solo nel mondo cinese. Questa ricchezza sapienziale appartiene alla Cina molto tempo prima delle venuta di Cristo.

La scientia di che hebbero più notitia fu della morale. Ma conciosia cosa che non sappino nessuna dialectica, tutto dicono e scrivono non in modo scientifico, ma confuso per varie sententie e discorsi, seguindo quanto col lume naturale potettero intendere. Il magiore Philosofo che ha tra loro è il Confutio, che nacque cinquecento e cinquanta uno anni inanzi alla venuta del Signore al mondo, e visse più di settanta anni assai buona vita, insegnando con parole, opre e scritti questa natione; là onde da tutti è tenuto e venerato per il più santo huomo che mai fusse nel mondo. E nel vero in quello che disse e nel suo buon modo di vivere conforme alla natura, non è inferiore ai nostri antichi filosofi excedendo a molti. Per questa causa nes-suno de’ letterati pone in dubio nessuna cosa di quelle che egli disse o scrisse, e tutti i Re, sino adesso, lo riveriscono e mostrano grati al beneficio della doctrina che da lui ricevettero. Per tutti questi secoli passati sino ai suoi discendenti furno tenuti in grande conto, et il Re diede un titulo molto grande al Capo della sua familia, che va sempre in sedia, con molto stato, rendita e grandi privilegij. Oltre di ciò, in ogni Città e scuola, dove si congregano i letterati, per lege antica vi è il tempio del Confutio molto sumptuoso, dove sta la sua statua e il suo nome et titulo; et tutti i novilunij e plenilunij e quattro tempi dell’anno o letterati gli fanno una certa sorte di sacrificio con profumi et animali morti che gli afferiscono, sebene non riconoscono in lui nessuna divinità, né gli chiedono niente e così non si può chiamare vero sacrificio.

(Ricci, p. 28-29)

È dunque affermato con chiarezza che per quanto possa essere venerabile e di fatto venerato, Confucio non va affatto confuso con un dio. E del resto non è neppure un personaggio che abbia voluto introdurre un credo religioso: egli è solo maestro di moralità, riconosciuta dai Cinesi ma riconoscibile e applicabile anche nel mondo occidentale: con la sua sapienza, utile al vivere, egli tocca il cuore di ogni uomo. E Ricci lo riconosce e lo propone in questo modo.

A partire da questo rapporto di Ricci dell’inizio del XVII secolo, “la Cina” si confonde con la dottrina e l’eredità di Confucio, che è il primissimo e in pratica (anche in seguito) l’unico nome latinizzato, sulla base del cinese Kong fuzi (“Maestro Kong”) … La figura di Confucio assume una dimensione universale nella strategia di conversione dei primi missionari gesuiti che vogliono dimostrare il monoteismo potenziale, secondo loro, della religione cinese. In una lettera del 1595, Ricci rileva una convergenza tra, da un lato, i testi canonici confuciani e, dall’altro, gli insegnamenti della fede cristiana. L’obiettivo è ritrovare – alla lettera “rivelare” – nei testi canonici confuciani l’idea del Dio unico, che sarebbe stata al cuore di un monoteismo antico. Si fa qui riferimento al culto del “Sovrano in alto” (shangdi) e al culto del Cielo (tian) di cui Ricci ha notato le ricorrenze frequenti nelle fonti cinesi classiche.

(Cheng, p. 33-35)

Se consideriamo quanto scrive Ricci a proposito di religione e della missione che i Gesuiti hanno di proporre la religione cristiana e di convertire i Cinesi ad essa, si deve riconoscere che il cammino prefissato di annunciare il vangelo appare piuttosto lungo ed elaborato. Un po’ come è successo all’apostolo Paolo: costui, sempre nel discorso di Atene, cita il poeta Arato e, a partire da lui, cercava di introdurre gli Ateniesi al Dio Creatore, colui che può essere riconosciuto così da tutti, essendo il Creatore di tutto. Altrettanto fa Ricci: egli non parte direttamente dalla Rivelazione e da ciò che essa dice di Dio, ma si propone di far emergere la figura di Dio da ciò che la stessa ragione umana può concepire e capire. In fondo egli riconosce che a stare sui testi confuciani già si poteva essere introdotti a Dio; poi la Rivelazione faceva pervenire in maniera più illuminata e completa. Introducendosi nel capitolo X del suo I libro, e volendo parlare di religione, Ricci riconosce che la Cina è da tempo immemorabile aperta al discorso religioso e così può essere aperta anche al messaggio cristiano.

Di tutte le gentilità venute a notitia della nostra Europa non so di nessuna che avesse manco errori intorno alle cose della religione di quello che ebbe la Cina nella sua prima antichità. Percioché ritruovo ne’ suoi libri, che sempre adororno un suppremo nume che chiamano Re del Cielo, o Cielo e terra, parendo forsi a loro che il Cielo e la terra erano una cosa animata, e che con il suppremo nume, come sua anima, facevano un Corpo vivo. Veneravano anco varij spiriti protectori de’ Monti e de’ fiumi e di tutte le quattro parti del mondo.

Fecero sempre mo0lto caso di seguire in tutte le loro opere il dettame della ragione che dicevano aver ricevuta dal Cielo, e mai cedettero del Re del Cielo e degli altri spiriti, suoi ministri, cose tanto sconcie, quanto cedettero i nostri Romani, i Greci, gli Egittij, e altre strane nationi. Di dove, si può sperare della Imensa bontà del signore, che molti di quegli antichi si salvassero nella legge naturale, con quello agiuto particolare che suole Iddio porgere, a quegli che di sua parte fanno quanto possono per riceverlo. E di ciò danno assai chiaro inditio le loro croniche di più di quattro milia anni addietro, dove si contano le buone opere che fecero quei primi Cinesi per amore della patria, del ben pubblico et utilità del popolo. Si può anco questo cavare da molti belli libri, che restano sino a questi tempi di quei loro Philosofi antichi (il riferimento è a Confucio e al suo seguace Mencio), pieni di molta pietà e buoni avisi per la vita humana et acquistare le virtù, senza niente cedere ai più famosi dei nostri philosophi antichi.

Ma conciosia che la natura corrotta, se non viene agiutata dalla grazia Divina, sempre da se stessa se ne corre al basso, vennero poi questi miseri hu0mini puoco a puoco spengendo tanto di quel primo lume et ad allargarsi in una libertà sì grande che dicono e fanno già quanto vogliono de dritto e di torto senza nessuna paura; a talché quei che in questi tempi scappano dall’Idolatria, puochi sono che non cadano nell’Atheismo. (Ricci, p. 90-91)

Ricci è convinto che la Cina abbia coltivato una religiosità “naturale”: questa è la base, a partire dalla quale può essere introdotta la Rivelazione cristiana, che viene a portare a perfezione uno spirito religioso innato.

Ricci avanzò un ragionamento in due fasi, semplice quanto radicale: nell’antichità i saggi cinesi avevano conosciuto e adorato il vero Dio, ma questa conoscenza era stata sovvertita dai letterati delle epoche successive, in particolare con l’introduzione del buddismo in Cina. Servendosi della ragione naturale e facendo appello all’autorità dei testi confuciani, Ricci mirava a dimostrare l’esistenza di un Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra, chiamato dai gesuiti Signore del Cielo, Tianzhu, ma detto Dio dall’Alto, Shangdi, o semplicemente Cielo, Tian, nei testi classici antichi. Dall’epoca in cui si era stabilito a Nanchino, nel 1599, Ricci aveva già sviluppato la prima parte della sua dottrina, la sintesi di confucianesimo e cristianesimo; la seconda, quella antibuddista, si costituì progressivamente dopo i dibattiti con l’abate Hong’en a Nanchino, di cui si è già parlato, e con Huang Hui, un letterato dell’accademia di Hanlin. (…)

Huang Hui, riluttante all’idea d’incontrare di persona l’antibuddista occidentale, si fece dare una copia manoscritta di un’opera di Ricci, probabilmente una versione del Vero significato del Signore del Cielo, grazie all’amico mandarino Cai del ministero dei Riti: sulla descrizione del Dio del Cielo non prese posizione, mentre le critiche di Ricci al buddismo lo mandarono su tutte le furie. Poco tempo dopo Ricci ricevette la copia del manoscritto con confutazioni e note al margine di Huag Hui. Non volendosi mettere in urto o offendere un uomo di così grande prestigio, Ricci ne incluse le osservazioni nella versione finale del Vero significato del Signore del Cielo … Diviso in otto capitoli, il Vero significato del Signore del Cielo è redatto in forma di dialogo tra un occidentale e un erudito cinese. Il dialogo, uno dei generi prediletti sia nell’Europa rinascimentale che nella Cina dei Ming, rifletteva in parte le conver-sazioni erudite; nel caso di Ricci il testo dialogico rappresentava una sinossi ordinata delle varie conversazioni che aveva avuto con i letterati cinesi. Il lettore cui intendeva rivolgersi era lo studioso di confucianesimo, come viene reso manifesto dal richiamo ai principi confuciani nell’introduzione del libro:

Tutte le dottrine riguardanti la pace mondiale e il giusto governo di un paese sono incentrate sul principio di unicità. Quindi gli uomini virtuosi e saggi hanno sempre consigliato ai ministri di essere savi, il che significa non avere un secondo (signore nella loro mente). Tra le Cinque Relazioni Umane, la più importante è quella che riguarda il re, e il primo dei Tre Legami nelle Relazioni Umane è quello tra il re e i suoi ministri. Un uomo giusto deve comprendere ciò e comportarsi di conseguenza.

Ricci continua: “Ogni stato o paese ha un suo signore; è dunque possibile che solo l’universo non abbia un signore? Un paese deve essere unito sotto un signore, è possibile che l’universo abbia due signori? Quindi un uomo superiore non può disconoscere la fonte dell’universo e l’artefice di tutte le creature, e non innalzare la mente a lui”. Eppure, osserva, esistono usurpatori che si ribellarono al Signore del Cielo (Tiandi), il quale punisce gli esseri umani dispensando disastri e sofferenze, perciò fin dalla giovinezza ha voluto riportare coloro che sono stati deviati al vero Dio, ed è per questo motivo che ha viaggiato fino in Cina, apprendendone la lingua e i costumi. Dopo questa introduzione, Ricci usa la ragione naturale per dimostrare l’esistenza di un Creatore onnipotente. Nel primo capitolo, Dibattito sulla creazione del cielo, della terra e di tutte le cose da parte del Signore del Cielo, e su come lui eserciti la sua autorità su di esse e le sostenga, afferma che la vera dottrina non si limita a un paese, ma è universale e riguarda quindi tutti gli uomini. Essi sono infatti dotati di ragione, un segno che li distingue dagli animali, e l’unica cosa che è dato loro di fare è la ricerca della verità.

C’è qualcuno che non abbia alzato gli occhi e osservato il cielo, e che non abbia silenziosamente sospirato dentro di sé, fissando la volta celeste, dicendo:

Deve esserci sicuramente Qualcuno nel mezzo di esso che vi eserciti il suo controllo”. Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus.

Ricci continua nella sua dimostrazione dell’esistenza di Dio: per prima cosa, in ogni paese del mondo la gente venera un essere supremo, rivolgendosi a lui per trovare conforto e temendo la sua punizione per i peccati commessi; in secondo luogo, i fenomeni naturali, non dotati di anima, non possono muoversi da soli, e quindi i movimenti del vento, dell’acqua e delle stelle devono venire da una forza esterna, che regola le enormi complessità dei moti del mondo fisico; e infine, come possono gli animali, esseri viventi senz’anima, cercare istintivamente la vita e nutrire i loro piccoli senza il disegno di un dio supremo?

(Po-Chia, p. 271-273)

IL DIALOGO RELIGIOSO

Proprio perché cerca il dialogo con il mondo culturale cinese, e lo cerca sul terreno religioso, Ricci deve trovare la base comune ed essa si raggiunge mediante il dialogo. Del resto la ricerca che pur si sviluppava in quegli anni in Europa veniva condotta facendo ricorso alla forma dialogica, e i testi usati anche nell’ambito scientifico e filosofico, secondo la tradizione classica venivano redatti in questo modo. Con questa modalità era possibile raggiungere il denominatore comune …

Il senso reale del ‘Signore del Cielo’”, redatto in cinese da Ricci e pubblicato nel 1603, intende spiegare la fede cristiana ai letterati cinesi. Fa dialogare un “letterato occidentale (che potrebbe essere lo stesso Ricci) con un letterato confuciano. Ricci mette da parte tutti i dati della religione rivelata per impegnarsi in un’indagine razionale, appoggiandosi al tempo stesso alla filosofia scolastica e sui testi classici cinesi. Esso dimostra che la fede cristiana è compatibile con la più autentica tradizione cinese. Secondo il Tianzhu shiyi, la morale dei Dialoghi di Confucio è simile a quella degli Stoici in due celebri massime dell’inizio del libro XII: “Vincere se stessi per fare ritorno allo spirito dei riti” e “Ciò che non vuoi venga fatto a te, non farlo agli altri”. Quest’ultima massima, identificata alla “regola d’oro” presente anche nel Levitico e nei Vangeli, sembra aver suscitato molto rapidamente l’attenzione dei Gesuiti, per i quali essa riassume perfettamente la filosofia morale dei letterati acquisita tramite la sola luce naturale.

(Cheng, p. 35-37)

Il dialogo, dunque, è la via maestra per introdursi e introdurre il Cristianesimo in Cina: con esso, come succede nel medesimo periodo per le que-stioni scientifiche, si fanno conoscere le diverse posizioni, in modo tale che chi legge o ascolta, possa farsi la propria idea e soprattutto possa operare la scelta conseguente. Non ci sono quindi forzature, imposizioni, forme di proselitismo. Ricci, poi, fa sapere che in Cina si sono introdotte diverse religioni (parla dei maomettani, di ebrei, e di adoratori della croce):

A tutti questi forastieri chiamano i Cinesi Hoeihoei (termine con cui si indica il popolo degli Hui, una minoranza etnica cinese costituita da discendenti di immigrati arabi e persiani, di religione musulmana. Per estensione, esso era usato anche per indicare sia tutti quanti i musulmani, sia, come attesta Ricci, le altre religioni straniere presenti in Cina, quali quella ebraica e quella cristiana), del qual nome non potessimo sapere l’origine. Ai Macomettani chiamano Hoeihoei di tre leggi, ai Giudei chiamano Hoeihoei che togliono i nervi della Carne che mangiano, ai Christiani chiamano Hoeihoei della lettera di dieci, perciocché la lettera di dieci nella Cina è una Croce perfetta, e qua non vi è né nome né uso della Croce. (Ricci, p. 93)

Comunque la filosofia confuciana risulta essere il solo strumento per con-sentire il dialogo con il Cattolicesimo, che i Gesuiti vogliono portare in Cina. Questa filosofia, anche a non essere propriamente una forma religiosa, viene chiamata la “legge dei letterati”.

Quella de’ letterati è la propria antica della Cina, e per questo sempre hebbe et ha hoggi dì il Governo di essa nelle mani; per questo è quella che più fiorisce, tiene più libri et è più stimata. Questa legge pigliano loro non per elettione, ma con lo studio delle lettere la bevono, e nessuno graduato né Magistrato lascia di professarla. Il suo Autore o restauratore e Capo è il Confuzo, del quale parlai sopra nel cap. 5. Questa legge non tiene Idoli, ma solo riverisce il Cielo e la terra o il Re del Cielo, come habbiamo già detto, per parergli che sostenta e governa tutte queste cose inferiori. Riverisce anco altri spiriti, ma non gli danno tanto potere quanto danno al signore del Cielo. I vari letterati niente parlano di quando fu creato questo mondo, né da chi né come hebbe il suo principio. E dissi i veri letterati, percioché alcuni di puoca autorità fanno certi suoi giudicij assai frivoli e mal fundati, di che si fa puoco caso tra essi. In questa legge si parla del Castigo divino e del premio che hanno da ricevere i Cattivi et i buoni; ma il più commune è pensare che ha d’essere in questa vita o nella stessa persona degli autori del bene e del male, o ne’ suoi descendenti. Dell’immortalità dell’anima pare che gli antichi dubitassero manco, anzi derono ad intendere che vivevano molti anni doppo la morte là nel Cielo, ma non parlorno punto di stare alcuno nell’inferno; solo i letterati di questo tempo estinsero a fatto l’anima doppo la morte, et non credono né Paradiso né inferno nell’altra vita. (Ricci, p. 94)

LA FIGURA DI DIO

Questa forma religiosa, ridotta all’essenziale, più che di un Dio personale tratta di una suprema autorità che, proprio per il fatto che sta in alto, viene a corrispondere al cielo e perciò viene definita “il Cielo”.

I letterati, se bene riconoscono questo suppremo nume del Cielo, non gli fanno però nessun Tempio, né gli hanno diputato nessun luogo per adorarlo; e per il conseguente non hanno sacerdoti né ministri della religione, né riti solenni per guardarsi da tutti, né precetti o comandamenti dati per osservare, né Prelato che habbi il carico di dichiarare, promulgare la loro dottrina, o gastigare quei che fanno qualche cosa contro essa; per questo mai recitano niente né in commune né in particolare. Anzi vogliono che a questo Re del Cielo solo il Re gli deva servire e sacrificare, e se altri lo volessero fare sarebbono gastigati come usurpatori della iurisditione regia, e per questo il Re tiene Tempi assai suntuosi nelle due corti di Pacchino e di Nanchino, del Cielo e della terra, dove egli in persona gli soleva sacrificare, a certi tempi dell’anno, e adesso manda altri Mandarini gravi, che in suo luogo faccino questo ofitio, amazando per questo molti bovi e pecore, e facendo molte altre cerimonie in questi doi Tempi. (Ricci, p. 95-96)

Ricci sostiene che ci possa essere compatibilità fra questa forma religiosa essenziale e il Cristianesimo, se non altro perché …

Hanno molto espresso in tutti i loro libri il 2° Precetto della Carità, che fare ad altri quello che vogliamo che gli altri ci faccino a noi. E ingrandiscono molto la obedientia de’ figliuoli a suo Padre e Madre, e la fidelità de’ Vassalli a suoi sudditi e maggiori. E conciossia che loro né comandino né proibiscano niente di quello che si ha da credere delle cose dell’altra vita, e molti di loro seguono insieme con questa sua le altre due sette, venessimo a conchiudere che non è questa una legge formata, ma solo è propriamente un’Academia, instituita per il buon governo della Republica, e così ben possono essere di questa Academia e farsi Christiani, poscia ché nel suo essenziale non contiene niente contro l’essenzia della fede Catholica; né la fede Catholica impedisce niente, anzi ajuta molto alla quiete e pace della Rebublica che i suoi libri pretendono. (Ricci, p. 98)

Concludendo il libro I e il capitolo sulla questione religiosa, Ricci accenna al rapporto che in questo campo si ha con il potere politico del momento in Cina e cioè la dinastia Ming. Essa si dimostra favorevole con la religione, perché la avverte come un aiuto alla dinastia stessa e al Paese. L’imperatore non prende posizione per una religione piuttosto che per un’altra; le donne di cui si circonda si rivelano pietose, soprattutto con le loro elemosine e con le preghiere d’invocazione. Ma se anche la religione appare favorita, o comunque non ostacolata, se di fatto essa appare radicata nella gente, Ricci deve amaramente concludere che ci sono in giro parecchi idoli e che perciò, pur nella diffusa religiosità, ognuno cerca ciò che maggiormente lo potrebbe favorire nelle diverse circostanze. E in questa religiosità, piuttosto sfumata, rimane lo spazio perché l’incredulità alligni e con essa si arrivi addirittura all’ateismo.

L’autore di questa casa (si riferisce all’imperatore Hongwu, fondatore della dinastia Ming) che adesso regna sulla Cina, pretendendo aggradare a tutti lasciò legge che tutte le tre leggi si conservassero nella Cina per agiuto del Regno, dando a tutte i suoi privilegi, con tanto che le due fossero soggette a quella de’ letterati, che aveva da governare la Cina, e per questo nessuno tratta di estinguere nessuna di esse. Il Re della Cina ordinariamente fa caso e si agiuta di tutte, renovando i tempij di essi et alle volte facendo di altri novi. Le sue regine sono più divote de’ Pagodi e gli fanno molte limosine, sostentando fuora del palazzo molti ministri di ambedue le sette, acciocché preghino per loro. Quello che difficilmente si può credere è la moltitudine degli Idoli che sono in questo regno, non solo dentro ne’ tempij, che stanno pieni di essi, perché in alcuni ve ne sono fatti molte migliaia di essi, ma anco nelle Case de’ Particolari ve ne sono assai, in un luogo dedicato a questo, nelle piazze e nelle strade, ne’ monti, nelle barche e ne’ palazzi pubblici non si vede altra cosa che questa abominatione; se bene nel vero puochi sono che credono molto nissuna cosa che di essi si conta, e sola cosa pensano che, se non fanno bene, al manco non gli può fare nessun male il venerarli esteriormente.

La più commune opinione di adesso e de quei che credono esser più savij, è dire che tutte queste tre sette è una stessa cosa, e tutte se possono guardare insieme, con il che ingannano a se stessi et agli altri con grandissimo disordine, parendo a loro che in questa materia di religione, quanto più modi di dire vi sono, tanto più utilità porta al Regno, et al fine tutto gli viene contrario di quello che pretendono. Perché, volendo seguire tutte le leggi, vengono a restare senza nessuna, per non seguire nessuna di cuore. E così altri chiaramente confessando la loro incredulità, altri ingannati dalla falsa persuasione di credere, vengono la magior parte di questa gente a stare nel Profundo dell’Atheismo. (Ricci, p. 106)

Sulla base di queste parole che concludono il primo libro e, nello stesso tempo, il discorso circa la religiosità in Cina, si dovrebbe dire che Ricci offre un quadro piuttosto negativo del rapporto che c’è fra i Cinesi e la religione. Più che una fede radicata, per quanto possa essere generica, si dovrebbe sostenere, con la congerie di idoli presenti, che qui alligni la superstizione, e con essa sia pure diffusa una certa disaffezione nei confronti del mondo religioso, poi tradotto in incredulità e più ancora in un radicato ateismo. In presenza di una simile relazione si dovrebbe dire che non possa essere facile l’approccio di una nuova religione, come quella di cui sono portatori i missionari, in genere, e quelli gesuiti, a cui si affida il vasto terreno in cui seminare il vangelo. Eppure Ricci non abbandona il campo e più ancora non appare sconfortato da una simile visione della religiosità; certamente non ci si può accostare con metodi dogmatici, che possono dare origine a contrapposizioni sterili, ma è necessario puntare su ciò che potrebbe essere considerata una base comune, far leva su un denominatore comune, che riconosce la gran parte dei Cinesi in ricerca, e quindi aperti anche a nuovi contributi, che possano pure far leva su ciò che la buona tradizione offre a questo proposito. Occorre, insomma, mettersi sul terreno di coloro che si vogliono accostare; bisogna partire da una base comune e, facendo ricorso al dialogo aperto e sincero, condurre alla scoperta del Signore del Cielo, come colui che può essere identificato con il Dio di Gesù Cristo. Ricci, che si professa missionario, che si sente e si presenta come prete, non rinuncia alla sua fede, ma nel contempo non si pone con ostilità o atteggiamenti rigidi, che intendono imporre schemi indiscussi e indiscutibili. Ed anche nelle forme rituali con le quali fa conoscere la religiosità occidentale e cattolica in particolare, Ricci cerca di proporsi negli abiti cinesi, come se volesse in questo modo dimostrare di essersi posto a quel livello, usando anche un linguaggio nel quale i Cinesi stessi si possono riconoscere e possano meglio apprezzare la fede cattolica.

La lontananza da Roma e le comunicazioni non facili con essa non sembrano inizialmente creare difficoltà al tipo di approccio che si crea; e il sostegno reciproco dei compagni di missione permette di accampare un sistema da cui si sperano buoni frutti e da cui si ricavano pure delle conversioni, non di poco conto, anche per il genere di personaggi che fanno questa scelta. Più avanti – ma ormai Ricci è già scomparso – da Roma vengono sollevate varie questioni, fino a produrre interventi censori soprattutto sulla questione dei riti. Ma orami siamo già avanti negli anni e il metodo ricciano ha già prodotto i suoi effetti. Di fatto a Roma, senza arrivare mai a condanne postume, il suo nome viene taciuto e la sua opera messa in disparte, mentre in Cina continua ad essere considerato come l’occidentale che meglio si è integrato nel mondo cinese, con grande rispetto e disponibilità al dialogo.

Si percepisce senza difficoltà a cosa mira la strategia di accomodamento di Ricci, ma anche, d’altro canto, quanto potenzialmente pericolosa può essere questa morale naturale di Confucio per il dogma dei teologi cristiani, in quanto essa permette di sottrarre la virtù morale al dominio della religione. In effetti, il pericolo è tanto più reale che l’insegnamento di Confucio è recepito e inteso sullo sfondo della problematica europea del trionfo della “ragione” contro la religione: anche in questo caso i Gesuiti, presi tra l’autorità del Vaticano e il loro proprio progetto di accomodamento, sono ambivalenti. Da un lato, volendo far passare i letterati confuciani per i difensori di un monoteismo antico, essi piazzano maestro Kong, allora oggetto di un culto imperiale, su un piedistallo di profeta e di “santo”, termine che utilizzano per tradurre il qualificativo cinese di sheng. Ora nel vocabolario dei Gesuiti italiani del XVII secolo, il termine santo è riservato ai Padri della Chiesa come Agostino o Gerolamo mentre quello di sapientissimo si applica ai filosofi greci come Platone o Aristotile. Questa qualifica di “santo” attribu-ita a Confucio si ritroverà al centro della famosa disputa dei riti, che rag-giunse un’intensità parossistica intorno al 1700, con i sostenitori del dogma cattolico della Controriforma che argomentavano che non possono esistere santi non cristiani. D’altra parte, i Gesuiti presentavano il culto reso a Confucio come scevro di qualsiasi carattere religioso.

Come Ricci sottolinea nel suo Della entrata della Compagnia di Gesù e Christianità nella Cina, i Cinesi rendono sì un culto a Confucio “ma nella maniera riservata ai mortali e non in quella in cui essi adorano una qualche divinità” e precisa poi: “in lui non riconoscono nessuna divinità e non gli domandano niente”. (Cheng, p. 37-41)

Ricci comunque insiste sulla sua opera, credendo fortemente nella sua missione, ma anche nel suo metodo missionario. Se va alla ricerca delle persone e tiene forti contatti con loro, se scrive libri, anche in cinese, lo fa per comunicare la sua fede: questo è l’obiettivo che lui si è prefisso di raggiungere e che certamente ha pure dato i suoi frutti. Più ancora egli prega Colui che sta in alto, colui che in Cina può essere conosciuto come il Signore del Cielo, il solo che possa effettivamente chiamare alla sua luce coloro che non lo conoscono come il Padre di Gesù Cristo. Lo afferma con chiarezza il suo biografo, quando ormai Matteo Ricci è già morto.

13. Egli abitò a Duanzhou per dieci anni. All’inizio non padroneggiava la lingua parlata e scritta, ma studiando con tutto il cuore e la mente, aiutandosi con disegni di figure delle persone e delle cose, e tramite le spiegazioni degli altri, gradualmente apprese la lingua parlata e scritta, non solo, ma perfino i Sei Classici, i testi di filosofia, di storia, ecc., e di essi ne comprese a fondo il senso. Cominciò a scrivere dei libri per diffondere la santa religione.

14. Ogni giorno pregava diligentemente, con lacrime e silenziosamente il Signore del Cielo, affinché aprisse il cuore degli uomini e li avviasse sul cammino verso la fede, senza sosta mattino e sera. In molti modi egli cercava di attirare tutti e condurli a conoscere il Grande Signore del Cielo e della terra, il Grande Padre-Madre di tutti i popoli. (Aleni p. 31)

CONCLUSIONE

Pur limitandoci al suo libro storico circa l’entrata dei Gesuiti in Cina, va riconosciuto che il testo più pertinente al tema religioso è quello de “Il senso reale del Signore del Cielo”, dove Ricci, intellettuale occidentale dialoga con il letterato cinese che rappresenta la tradizione confuciana. A ben considerare ciò che egli qui sostiene, si ha l’impressione che illustri un Cristianesimo piuttosto idealizzato, anche perché egli da questo dialogo, soprattutto scritto, intende ripromettersi l’avvio di una apertura al mondo cinese e l’accoglienza da parte di questo mondo del Credo cristiano.

L’opportunità gli è data al termine dello scritto, quando l’interlocutore, in presenza delle continue distrazioni dell’uomo, sempre tentato al male, sarebbe quanto mai conveniente che Dio stesso si facesse vedere vivo e operativo in mezzo agli uomini:

… “perché non scende Egli stesso sulla terra a guidare personalmente le masse che hanno perduto la via, in modo che le persone di tutte le nazioni siano in grado di riconoscere il vero Padre e, quindi, sapere che non ci sono altri dei. Non sarebbe la cosa più diretta da fare?”. Ricci gongola letteralmente di piacere: “Ho sperato a lungo che mi ponesse una domanda simile!” esclama, e comincia allora a spiegare in che cosa consistano l’Incarnazione, l’Immacolata Concezione, e la nascita di Gesù avvenuta circa 1603 anni prima, il secondo anno del regno di Yuanshou dell’imperatore Ai della dinastia Han. Solo a questo punto Ricci racconta come Adamo ed Eva avessero peccato e come, a dispetto della bontà naturale dell’uomo, l’umanità avesse avuto bisogno dell’intervento divino per ritrovare la retta via. L’avvento di Cristo fu predetto da molti profeti che lo precedettero. Gesù visse trentatré anni su questa terra, compiendo vari miracoli: guarendo i malati, curando i ciechi, i sordi e gli zoppi. Ricorrendo all’invenzione storica, Ricci racconta che, all’udire la novella della nascita di Gesù, l’imperatore Ai inviò un messaggero in Occidente, ma questi giunse per errore in India da dove riportò indietro gli insegnamenti eretici ed erronei di Buddha invece di quelli di Gesù. Che opportunità perduta per la Cina! Nel suo vivace riassunto della vita di Gesù, Ricci però omette qualsiasi allusione alla Crocifissione.

Siamo qui giunti al termine del lungo dialogo. Illuminato dalle spiegazioni di Ricci, dissipati i dubbi grazie alla logica gesuitica, lo studioso cinese vuole seguire gli insegnamenti del Signore del Cielo. Non resta altro che amministrargli il sacramento del battesimo nel finale pieno di speranza di questo trattato sulla dottrina cristiana. (Po-Chia, p. 290)

Anche questo colorito episodio riportato nel testo di Ricci ci rivela lo spirito con cui quest’uomo si accostava alla Cina, ma soprattutto alle persone con le quali voleva dialogare, e come nel dialogo egli cercasse le vie giuste per immettervi la proposta cristiana. Da parte sua teneva un approccio che aveva indubbiamente di mira l’annuncio del Vangelo, la proposta della Rivelazione cristiana; e tuttavia, nel rispetto dei suoi interlocutori, cercava l’opportunità migliore per introdursi, riconoscendo, da parte dei saggi cinesi, quella forma di apertura che rendeva anche più facile la comunicazione del vangelo e della sua proposta di vita.

I frutti non sono mancati, se effettivamente nei suoi viaggi ha potuto trovare adesioni che si sono conservate nel tempo e che hanno consentito di dissodare il terreno per continuare l’azione messa in campo per la prima volta, e quindi senza avere alle spalle dei trascorsi da seguire. Bisogna riconoscere che il metodo di Ricci è stato molto moderno ed ha aperto piste che sono ancora oggi da considerare di valore e da utilizzare un po’ ovunque, adattandosi alle realtà locali. Se gli insegnamenti della fede cattolica sono ben noti e la dottrina cristiana appare chiara – e in quel periodo risultava controllata dalle Congregazioni romane, vigilanti sulla ortodossia cattolica, per evitare, anche nell’approccio con lingue e mondi diversi, dei rischi di deviazione – rimane sempre aperta la questione del metodo di accostamento con i mondi nuovi, soprattutto in presenza di civiltà antiche e gloriose, come risultavano quelle che i missionari incontravano nel grande mondo orientale, non ancora del tutto esplorato per questi aspetti di natura religiosa e intellettuale. Se il nome di Ricci appare ancora a tanti piuttosto sconosciuto, altrettanto si deve dire del suo approccio missionario, che anche la Chiesa dovrebbe meglio considerare.

BIBLIOGRAFIA

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DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

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Gianni Criveller (a cura di)

LA VITA DI MATTEO RICCI Scritta da Giulio Aleni (1630)

Fondazione Internazionale P. Matteo Ricci – Macerfata

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Ronnie Po-chia HsiaLa Cina al tempo di Matteo Ricci: 

UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA

Matteo Ricci, 1552-1610

Il Mulino – 2012

4.

Anne Cheng

MATTEO RICCI E IL SENSO REALE DEL “SIGNORE DEL CIELO”

Il contesto storico e culturale

Conferenza alla Scuola della Cattedrale del Duomo di Milano

Book Time, 2017