In Africa le origini della Terra e dell’umanità

Il continente africano è sempre stato noto, se non altro per il suo stretto legame con il mondo europeo e con il mondo asiatico: prima della formazione del canale di Suez era di fatto unito all’Asia e le cosiddette colonne d’Ercole sono state considerate come un ponte creato fra l’Africa e l’Europa. Tuttavia non si sapeva nulla di quanto si sviluppava oltre il Sahara. L’Africa, conosciuta nella storia precristiana e anche nei primi anni del Cristianesimo, era di fatto il Nord Africa, perché oltre il deserto si sapeva dell’esistenza di un immenso territorio, in cui le carte geografiche mettevano la scritta: “Hic sunt leones”. La popolazione e la storia che lì si sviluppava non erano note e neppure interessavano, anche se la gente di “pelle nera” era conosciuta. E tuttavia era ben raro che ci si spingesse, anche per via di mare, più che per via di terra; si ipotizzava un certo limite ritenuto invalicabile, come lascia intendere il folle volo di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno dantesco. Era comunque definita “Africa”, cioè la terra degli Afri, la parte nord del continente, soprattutto sul versante del Mediterraneo occidentale, dove Roma si scontra con Cartagine, da cui probabilmente deriva il nome di Africa, che nella lingua locale significherebbe “colonia”, in quanto la città era sorta sulle coste dell’attuale Tunisia con l’arrivo di Didone, che fuggiva dalla Fenicia. Di fatto solo per l’attuale Magreb si usava il nome di Africa, mentre si escludevano di fatto la Libia e l’Egitto. La zona corrispondente all’Egitto nel Mediterraneo orientale, ha avuto una sua storia, dove i legami con la parte sud, quella oggi definita Sudan, si erano stabiliti con la popolazione “negroide”. Ma l’Egitto, sia per i commerci, sia per gli scontri, era maggiormente implicato con il cosiddetto Medio Oriente, dove si susseguirono imperi, e dove si ritiene che sia iniziata la storia. La convenzione vuole che la storia abbia inizio con i primi documenti scritti, e questi fanno la loro comparsa nella Mesopotamia tra il IV e il III millennio a.C. Sulla base di questo principio, solo in questa area vengono collocate le civiltà che appartengono alla storia, mentre le altre popolazioni senza documenti devono essere considerati appartenenti alla “preistoria”. Perciò laddove gli scritti risultano inesistenti, la storia non esiste, e quindi l’Africa subsahariana risulta essere “senza storia” o ancora nella preistoria.

Essa viene accolta nell’ambito della storia, quando arrivano gli Europei e ne fanno un loro dominio, come se fossero gli Europei a fornire la scrittura e con essa le condizioni perché anche gli Africani facciano parte della storia umana. Questo schema non funziona, soprattutto se si considera che nell’Africa subsahariana contano le fonti orali …

Le società africane sono infatti quasi tutte società della parola, e anche quando hanno usato la scrittura non hanno mai relegato l’oralità ad un uso minore. Inoltre la tradizione orale è presente in tutta l’Africa Nera, e non solo in certe zone ed in certe epoche come la scrittura. Sono molteplici le storie che sono state tramandate di padre in figlio e che hanno permesso di ricostruire molti avvenimenti (Paderi, p. 8)

Comunque, appare ancora oggi dominante lo schema che vuole l’Africa senza una storia. Essa risulterebbe emergere nel momento in cui il nostro mondo “occidentale” si interessa di questo continente e lo assorbe nella propria storia, come se neppure la parte settentrionale del continente, quella che già compariva nei millenni precedenti l’era cristiana, seppur associata ad altri centri di potere non avesse titoli per essere inserita nella storia comune dei popoli del Mediterraneo. Roma, quando inizia ad instaurare il suo impero ai danni di Cartagine, sua antagonista per eccellenza, designava quest’area geografica con il nome di Africa. Cartagine era la sola potenza sul suolo africano che potesse competere, e mancò il suo obiettivo per una visione che la rinchiudeva grettamente dentro schemi di natura economica. E tuttavia questa zona, entrando nell’orbita imperiale di Roma ne uscì rafforzata e in grado di giocare un ruolo decisivo. Se sotto il profilo geografico essa era totalmente africana, di fatto la partecipazione alle vicende di Roma, la facevano pensare dentro questa orbita e di fatto sempre più distante rispetto a ciò che si muoveva al di là del deserto. Per molti, comunque, l’Africa non era più quella che si estendeva dalle colonne d’Ercole fino al mar Rosso, e che si poteva considerare romana, anche perché, con i Severi nel campo politico e con le grandi figure cristiane del III secolo d. C., proprio questo territorio gioca un ruolo decisivo per la salvaguardia stessa della cultura romana. Rimane invece escluso il territorio che sta oltre il Sahara, come se nulla ci fosse, come se lì ci fossero solo le bestie feroci. Perciò passa il pregiudizio che in questa area geografica non ci sia stata storia o comunque la sua vicenda sia assolutamente irrilevante per l’Africa stessa e per il resto del mondo.

La posizione più radicale a questo riguardo è quella che consiste nel dire che la storia dell’Africa (nera) non esiste. Nella sua Filosofia della storia nel 1830 Hegel affermava: “L’Africa non è una parte storica del mondo, non offre alcun movimento o sviluppo, alcuno svolgimento storico proprio. Vale a dire che la parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente per Africa è lo spirito senza storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto nelle condizioni naturali, e di cui dovea solo farsi menzione qui sulle soglie della storia”. Nel suo manuale sulla storia dell’Africa Orientale, Coupland scriveva (nel 1928, però): “Sino a D. Livingstone si può affermare che l’Africa propriamente detta non aveva avuto storia. La maggior parte dei suoi abitanti era rimasta per tempi immemorabili sprofondata nella barbarie. Tale doveva essere stato il decreto della natura. Restavano stagnanti, senza progredire né regredire”. Un’altra citazione caratteristica: “Le razze africane propriamente dette – esclusa quella dell’Egitto e una parte dell’Africa minore – non hanno in pratica partecipato alla storia quale l’intendono gli storici …(Ki-Zerbo, p. 4)

Insomma, il pregiudizio a questo proposito è radicale e molto radicato ed è attribuito come colpa agli Africani stessi, che ne portano la responsabilità per il loro modo di contribuire alla vicenda umana, rimanendo senza scrittura, rimanendo senza memoria. Ovviamente si richiede una rilettura profonda che renda protagonisti gli stessi Africani, soprattutto quelli di razza nera, nella “scrittura” della loro storia e nella narrazione di ciò che costituisce il loro vissuto. Addirittura gli Africani sono mortificati con l’idea che l’Africa sia rimasta immobile per millenni, che nulla ci sia stato di così rivoluzionario da creare vicende, nelle quali si può misurare l’appor-to di novità che gli Africani portano a se stessi e all’umanità. Lo storico africano, che premette al suo lavoro di ricerca la questione fondamentale circa i requisiti per avere un’autentica visione storica anche in Africa, sostiene che non sempre e non dovunque si devono assumere i criteri qualificanti la storia secondo il mondo occidentale. Non possono bastare le consuete nozioni con cui si ritiene di costruire la storia, e cioè date, episodi straordinari, personaggi famosi, eventi chiave di passaggio da un’epoca all’altra; occorre anche valorizzare la tradizione orale, nella quale poi è necessario chiarire il problema linguistico: l’esistenza di diverse lingue e più ancora di svariatissimi dialetti, che sono alla base del parlare più che dello scrivere, dice come sia oltremodo problematico operare dentro la costruzione di una storia e di un storiografia africana.

E tuttavia questo particolare ci dice che la storia in Africa e la storia sull’Africa può risultare anche più interessante, perché offre altre forme di comunicazione e di tradizioni nient’affatto trascurabili.

A proposito dell’Africa bisogna anche affrontare il tema della concezione stessa della storia. Si è detto spesso che la storia è una scienza e che gli Africani non dovevano farne una passione: nel suo schematismo questa distinzione è straordinariamente limitata. La storia è una scienza umana alla ricerca di un certo grado di certezza detta morale o di probabilità che le per-mette di ricostruire e di spiegare il passato dell’uomo. (…) Il destino dell’uomo è di ricercare la verità e di avvicinarsi il più possibile a questo ideale. (…) Senza essere un mercante d’odio, lo storico dell’Africa deve dare all’oppressione della tratta dei negri e allo sfruttamento capitalista il ruolo che queste cose hanno realmente rappresentato nell’evoluzione del continente e che tanto spesso e tanto abilmente viene minimizzato da certi storici europei con conseguenze terribili per la mentalità dei giovani africani che sui banchi di scuola si sono nutriti di questi cibi avvelenati.(Ki-Zerbo, p. 28-29)

Si avverte qui la preoccupazione di fornire una visione della storia che sia di grande utilità anche per le nuove generazioni, soprattutto africane, le quali appaiono di fatto appiattite su un fronte che li fa coscienti delle proprie responsabilità a partire dal periodo dell’indipendenza, come se non ci fosse nulla prima, come se la coscienza africana fosse allora inesistente o morta. C’è anche il problema di creare una buona base con storici di origine africana di buona formazione e di alto profilo, nelle Università, come pure nelle scuole ai primi livelli.

La storia africana deve essere una fonte di ispirazione per le generazioni che crescono, per i politici, i poeti, gli scrittori, gli uomini di teatro, i musicisti, gli studiosi di tutti i campi e anche semplicemente per l’uomo della strada. Ciò che colpisce nei paesi europei è questo continuo autoinvestimento del passato nel presente: la continuità non è interrotta. Gli uomini politici citano autori del XVI secolo o addirittura gli scrittori grecolatini … Nello stesso modo, ridando vita al passato di questo continente, lo storico dell’Africa crea un capitale spirituale che costituirà una fonte di ispirazione multiforme e permanente. (…) La storia dell’Africa non verrà scritta veramente dai frenetici della rivendicazione, ancor meno da dilettanti senza simpatia, desiderosi soltanto, nella migliore delle ipotesi, di occupare il loro tempo libero di cittadini di paesi altamente sviluppati.

Sarà scritta dai non-africani che avranno deposto la livrea imperiale del “civilizzatore” per indossare quella più modesta, ma quanto più bella, dell’umanista. (…) Questa storia sarà scritta soprattutto dagli Africani che avranno capito che tanto la gloria quanto la miseria dell’Africa, tanto la fortuna quanto la malasorte, tanto i fasti quanto gli aspetti popolari e quotidiani costituiscono nell’insieme un humus sostanzioso nel quale nuove nazioni possono e devono attingere risorse spirituali e ragion d’essere. (Ki-Zerbo, p. 32-33)

L’AFRICA NELLA PANGEA

Prima di entrare nel percorso storico che ha come protagonista l’Africa, dobbiamo dare uno sguardo di carattere geografico, sempre sotto il profilo cronologico, per leggere quel fenomeno che va sotto il nome della “deriva dei continenti”. La teoria di Alfred Wegener, introdotto più di un secolo fa (nel 1912), sostiene che le terre emerse erano un unico blocco, definito “Pangea”.

LA PANGEA

Da questo unico blocco per movimenti “tellurici”, soprattutto di natura vulcanica, si sono staccati i diversi continenti. Per il modo stesso con cui si descrive la deriva dei continenti sembra che l’Africa sia rimasta al suo posto, mentre gli altri si sono allontanati da essa. In realtà essa pure era ed è soggetta a movimenti che hanno contribuito alla formazione di catene montuose, laddove lo spostamento delle terre conosceva una specie di attrito. Sulla base di questa visione, piuttosto suggestiva, si deve pensare ad una sorta di centralità del continente africano con tutto quello che ne deriva non solo per la sua composizione fisica, ma anche per quel processo che sta alla base della “nascita” dell’uomo.

L’Africa è la più antica e stabile massa di terra emersa del pianeta. Il 97 per cento del continente è rimasto, immutato, là dove si trovava più di 300 milioni di anni fa, ma in gran parte è stabile da più di 550 milioni di anni, e in certe zone addirittura da 3600 milioni. Il suo processo di crescita documenta un lungo e significativo tratto di storia della terra. Forze immani hanno plasmato il continente nel corso di milioni di anni. Su una simile scala temporale la vita dell’uomo è pressoché irrilevante … L’Africa ha conosciuto tutto questo e ne porta il segno. Qui gli eventi orogenetici (la formazione delle montagne) e le profonde dislocazioni geologiche che caratterizzano il paesaggio di altri continenti sono stati assai meno vistosi. (Reader, p.13-14)

Perciò sulla base di queste sommarie considerazioni, dovremmo pensare che l’Africa è il continente centrale, anche ad essere sotto il profilo storico quello più periferico ed essere di fatto per troppo tempo escluso dal cammino che invece l’Europa conduceva, aggregando a sé con le sue “scoperte” le altre terre del globo.

A Thomas Dick va il merito del primo riferimento documentato al concetto di deriva continentale; fu però Alfred Wegener a cercare le prove capaci di suffragare questa ipotesi. Wegener suggerì che in origine le masse emerse fossero unite in un solo grande supercontinente, che chiamò Pangea, ovvero “tutte le terre”. In seguito la massa si sarebbe scissa e sarebbe cominciata la deriva di due continenti distinti: Laurasia verso nord e Gondwana verso sud. Più tardi la Laurasia si sarebbe a sua volta suddivisa in due parti, mentre il Gondwana si sarebbe disgregato in più frammenti e a poco a poco i continenti avrebbero raggiunto le posizioni che occupano da ere geologiche più vicine a noi. (Reader, p.26)

Nei continenti, così formati e sempre in formazione, con processi evolutivi si ha il sorgere della vita fino all’ultimo anello della catena, che è costituito dagli animali mammiferi, tra cui si distingue l’Homo sapiens.

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L’AFRICA, PATRIA DELL’UOMO

Dovrebbe essere assodato che il racconto biblico della creazione non è la descrizione “esatta” di ciò che è effettivamente successo nel momento stesso in cui compare quel primate che noi oggi definiamo col nome di uomo. Qui non interessa dedicarsi alla discussione fra il “creazionismo” e l’“evoluzionismo”, per giungere ad una presa di posizione, che spesso si pensa possa far superare e mettere da parte il racconto biblico della crea-zione. Quest’ultimo non ha nulla di scientifico e non lo potrebbe neppure avere, perché il racconto è nato con ben altra finalità. Le varie ricerche, non ancora concluse, hanno rivelato che il primo uomo, definito nella Bibbia con il nome di Adamo, che significa appunto “uomo”, propriamente come maschio, è nato in Africa, ove, evidentemente, le condizioni climatiche, migliori rispetto a ciò che si verificava più a nord, potevano far evolvere la situazione perché l’uomo potesse affermarsi e divenire il dominatore del creato.

Dove si è svolto questo grandioso primo atto di un dramma non ancora concluso? Quasi certamente in Africa, perché qui esistevano le condizioni più favorevoli e perché qui è stata scoperta la serie più numerosa, completa e continua di resti preistorici, nonostante la prospezione archeologica sia ai suoi primi passi e la conservazione dei resti fossili permanga molto difficile a causa dell’aridità del suolo. È in Africa, e qui soltanto, in particolare sugli altopiani orientali e meridionali che si ritrovano ancora gli “antenati”, o piuttosto i presunti progenitori dell’uomo … Darwin affermava già: “E’ probabile che i nostri primi progenitori siano vissuti in Africa piuttosto che altrove”. Questa intuizione viene confermata ogni giorno da nuove scoperte. Da parte sua, Teilhard de Chardin scrive: “E’ dal cuore dell’Africa che l’uomo ha dovuto emergere la prima volta”. (Ki-Zerbo, p. 50)

Una simile considerazione viene fatta anche sulla base di continue ricerche che hanno condotto a ipotizzare la presenza di carnivori, i quali trovavano nel consumo della carne le proteine per poter rafforzare il proprio ciclo evolutivo e costituire così un primate sempre più forte, evoluto e capace di competere e soprattutto di sopravvivere.

Alcuni hanno pure pensato a forme di cannibalismo, che poi spiegano le espressioni di violenza con cui viene caratterizzato il vivere umano. Comunque, nonostante questi fenomeni e i contenziosi aperti con altri mammiferi, pure carnivori, i primi uomini si affermano e si consolidano, e il loro raggio di azione e di sussistenza spazia lungo la dorsale orientale dell’Africa nello spazio di depressione che corrisponde all’odierna Rift Valley, presso la quale sono stati rinvenuti dei fossili che fanno pensare alla presenza di colui che noi oggi definiamo il primo uomo.

Si calcola che, se anche la densità di popolazione dei primi ominidi fosse stata pari a quella degli attuali licaoni, ognuno dei dieci crani fossili trovati sulla riva est del lago Turkana non rappresenterebbe che uno su 100.000 individui vissuti nel milione di anni coperto dai vari depositi geologici. I giacimenti del Turkana sono eccezionalmente ricchi, ma fossili di ominidi sono stati rinvenuti anche in siti sparpagliati in tutta l’Africa subsahariana a est del bacino del Congo dalla depressione dell’Afar a nord, giù lungo l’intera lunghezza della Rift Valley in Africa orientale e attraverso le savane e le boscaglie dell’Africa centrale, per più di 500 chilometri, fino alle aride propaggini meridionali del Kalahari. (Reader, p.71)

LA RIFT VALLEY

Essa ha inizio già nella valle del Giordano, che risulta essere una depressione dal lago di Galilea fino al Mar Morto, dislocato a 394 metri sotto il livello del mare. La Rift Valley prosegue nel golfo di Aqaba-Eilat fino a comprendere il Mar Rosso. Nella parte più meridionale del Mar Rosso essa si dirama in due direzioni diverse: verso est e verso sud. La zona della diramazione è chiamata “triangolo di Afar” o depressione della Dancalia e si trova in Etiopia. La diramazione verso est forma il golfo di Aden e da questo punto in poi la Rift Valley continua come dorsale oceanica fino ad unirsi, in corrispondenza della zona di frattura di Owen, con la dorsale di Carlsberg, estremità nord-occidentale della dorsale medio-indiana. La diramazione verso sud è spesso indicata come sistema di rift dell’Africa orientale e fino a poco tempo fa essa stessa veniva chiamata essa stessa Great Rift Valley. Tra la depressione di Afar e la depressione del lago Turkana in Kenya, si sviluppa la cosiddetta Rift Valley etiopica, che separa l’altopiano etiopico, a ovest, da quello somalo, a est. Più a sud il rift dell’Africa orientale si divide in due rami, quello orientale e quello occidentale.

Il ramo occidentale della Rift Valley è chiamato “faglia albertina” e si estende dall’estremità settentrionale del lago Alberto all’estremità meridionale del lago Tanganika. È delimitato da alcune montagne più alte dell’Africa, inclusi i Monti Virunga (vulcani posti tra il Rwanda e il Congo), i Monti Mitumba (altra catena vulcanica tra il Congo, il Rwanda e il Burundi) e Ruwenzori (catena tra il Congo e l’Uganda) e contiene alcuni dei grandi laghi africani, che includono tra i laghi più profondi del mondo, come il lago Tanganika, profondo fino a 1470 metri.

Il lago Vittoria invece non è direttamente parte del sistema della Rift Valley, anche ad essere posizionato tra i rami orientale e occidentale. Il ramo orientale, chiamato “Rift di Gregory”, si sviluppa in Kenya e Tanzania. Ad esso è associata la montagna più alta dell’Africa, il Kilimangiaro (m. 5895) ed altri rilievi principali, come il monte Kenya (m. 5199). I laghi del ramo orientale sono meno profondi rispetto a quelli del ramo occidentale e sono caratterizzati da un’alta concentrazione di sali minerali dovuti alle piogge, che portano i sali minerali dai vicini vulcani, e alla forte evaporazione dell’acqua. I due rami si riuniscono nella parte meridionale terminale, formando il lago Nyassa, il terzo corpo d’acqua dolce più profondo del mondo, fino a 706 metri e disperdendosi poi nella valle dello Zambesi, nel Mozambico centrale. La Rift Valley è stata una ricca sorgente di scoperte paleo-antropologiche. Gli abbondanti sedimenti della valle, provenienti dalla rapida erosione degli altopiani circostanti, hanno creato un ambiente favorevole alla preservazione dei resti umani. Sono infatti state trovate numerose ossa di omi-nidi, antenati della moderna specie umana. (da Wikipedia

SULLO SFONDO IL LAGO TURKANA 

Si notino il paesaggio brullo e i sassi di natura vulcanica

Sulla base di queste recenti scoperte si dovrebbe ritrascrivere molta parte della storia umana, al di là della distinzione che ancora si conserva fra preistoria e storia. Comunque l’essere umano al suo primo apparire trova come suo habitat questa parte, molto estesa dell’Africa, anche a non lasciare quel genere di traccia che noi continuiamo a pensare essenziale per avere una storia e quindi quelle forme scritte che servono a “raccontare” il cammino fatto e l’evoluzione vissuta nella piena coscienza di sé. Eppure ci sono sempre anche altre forme comunicative che noi spesso ignoriamo o non vogliamo prendere in sufficiente e seria considerazione.

Indubbiamente il cuore della Rift Valley si estende in Kenya e appare, al visitatore meravigliato, come una depressione, che si può ammirare da “terrazze”, in cima alle quali si ha un’ampia veduta sottostante, con un precipizio di circa 2000 metri: nelle vicinanze di Nairobi durante la guerra i soldati italiani fatti prigionieri hanno costruito una strada che faceva scendere verso il fondo di questa depressione, per poter ammirare la par-te bassa. Essa divide il Kenya, perché discende dalla costa meridionale del lago Turkana ed arriva nella zona ad ovest di Nairobi, proseguendo fino a penetrare nella vicina Tanzania, divisa dal Kenya da un linea retta tracciata sulle cartine dai colonizzatori inglesi. Questo grande spazio de-ve essere stato in gran parte teatro della storia inziale dell’umanità, anche a non risultare affatto sui libri di storia.

Il lago Turkana si trova nel torrido e inospitale scenario del Kenya settentrionale. È lungo più di 250 chilometri da nord a sud, con una lunghezza massima di 50 chilometri. In alcuni punti è profondo fino a 240 metri. Tre coni vulcanici ne emergono come isole. Il lago ha diversi immissari (il più importante dei quali, l’Omo, raccoglie le acque degli altipiani etiopici) ma è privo di emissari. L’eccessiva evaporazione trasforma le sue acque in una soluzione ricca di sali, che gli animali bevono senza conseguenze, e che per gli uomini è sgradevole, oltre che lassativa. Quasi ogni giorno il lago è spazzato da un forte vento da est, provocato dalle correnti ascendenti di aria calda originatesi sul torrido bacino lacustre, e le acque sono agitate da onde irregolari. I coccodrilli che frequentano le secche, nutrendosi in prevalenza di pesce, sono sempre pronti a catturare una zebra o un’antilope che, incauta, si inoltri nell’acqua. Sulla regione cadono di rado più di 100 millimetri annui di pioggia. Poiché l’acqua potabile sgorga da rare sorgenti naturali molto distanti fra loro, la popolazione umana si riduce a piccoli gruppi di pastori nomadi, benché i pascoli siano sufficienti a nutrire un’abbondante fauna selvatica. Tuttavia la regione è abitata da milioni di anni e i sedimenti che costituiscono gran parte del territorio intorno al lago hanno conservato tracce fossili dei nostri antenati. (Reader, p.77)

NEI PRESSI DI LOYANGALANI SUL LAGO TURKANA

Si notino le “maniatte”, abitazioni dei pescatori

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Qui si inseriscono le esperienze personali vissute in numerosi viaggi fatti negli anni recenti. La località di sosta è Loyangalani, che appartiene al di-stretto di Marsabit, collocata sulla costa meridionale del lago Turkana. c’è Qui c’è una missione della Consolata, che ha una buona recettività per chi si avventura da queste parti – e non è infrequente trovare studiosi in ricerca, provenienti da tutto il mondo -. Qui sono in prevalenza comunità della etnia turkana, che sono spesso in lotta con i Samburu, il cui distretto, che ha come capoluogo Maralal, è confinante. Qui rimangono pure due villaggi abitati da una tribù che si sta estinguendo: si tratta degli El Molo.

BAMBINI EL MOLO PRESSO IL LAGO TURKANA

Su un terreno arido e di fatto isolati

Essi vivono isolati su alcuni isolotti del lago, distanti dal centro abitato e di fatto senza cure specifiche e con una alimentazione priva delle necessarie calorie. Vivono di sussistenza, nutrendosi del pesce pescato nel lago, e non hanno nessuno prospettiva di sviluppo, se non allontanandosi di lì. Sono ben visibili i segni delle debolezze fisiche dovute a malnutrizione e non hanno assistenza alcuna, se non dai missionari. L’arrivo dei bianchi, portati dai missionari, è per loro l’occasione per vendere quanto riescono a fabbricare con le loro mani.

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Nell’area circostante Loyangalani domina un quadro di sedimenti vulcanici con ben rara vegetazione e sulle colline circostanti è stata creata una rete di numerose pale eoliche per sfruttare il vento sempre presente e spesso molto impetuoso. È un habitat che solo da poco ha richiamato l’attenzione e la presenza di studiosi, evidentemente alla ricerca, anche in questo spazio, di segni della presenza umana, precedente i tempi nei quali noi abbiamo fissato di dare origine alla storia, che si sostiene sia da collocare in altri luoghi e in altri tempi, più vicini a noi.

LE PALE EOLICHE SULLA STRADA PER LOYANGALANI

Il rinvenimento dei primi resti fossili di un essere umano anatomicamente moderno, l’Homo sapiens sapiens, è una delle più celebri scoperte della paleoantropologia: si trattava dell’uomo di Cro-Magnon, trovato nel 1868. Quell’esemplare aveva occupato una grotta della Dordogna, nel Sud della Francia, circa 30.000 anni fa, ma i suoi antenati si erano evoluti in Africa, grazie a un cervello altamente sviluppato e a un elaborato sistema di termoregolazione. Le più antiche prove fossili della loro esistenza provengono dalle grotte montane dello Zululand, dai ripari delle falesie costiere sull’Oceano Indiano, in Sudafrica, e dalle savane della Rift Valley in Etiopia, Kenya e Tanzania. (…)

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I fossili africani hanno circa 100.000 anni, mentre quelli dei loro parenti non africani sono molto più giovani. Ciò significa che gli uomini anatomica-mente moderni dell’Africa sono i capostipiti di tutti quelli non africani e dei loro discendenti moderni. L’antropologo tedesco Günter Bräuer studiò a fon-do la questione prima di rendere nota la sua “ipotesi del sapiens afroeuropeo”, nel 1984. (…) Bräuer individuò una linea evolutiva e giunse alla conclusione che gli esseri umani anatomicamente moderni si erano evoluti in Africa orientale da un ceppo preesistente di ominidi non meno di 150.000 anni fa e che si erano poi diffusi rapidamente nell’intero continente. Piccoli gruppi di coloro che sfruttavano le risorse della valle del Nilo, e ne avevano raggiunto il delta, si erano in seguito spostati lungo le coste del Mediterraneo fino al Medio Oriente, arrivando poi in Europa, Asia, Australasia ed Estremo Oriente. (…) Queste scoperte dimostrano che in Africa le mutazioni risalivano a epoche molto lontane nel tempo, mentre tutti gli altri esseri umani condividevano mutazioni in gran parte accumulatesi in un passato piuttosto recente. Basandosi su queste differenze e sul ritmo con cui avvengono le mutazioni, gli studiosi sono giunti alla conclusione che l’intera popolazione del mondo moderno discende da un gruppo relativamente piccolo di individui che lasciò l’Africa intorno a 100.000 anni fa. Grazie a ulteriori estrapolazioni sono giunti ad affermare che l’essere umano moderno è comparso in Africa tra 140.000 e 290.000 anni fa.

(Reader, p.95-97)

Una simile analisi della “preistoria”, proprio perché non viene fatta su testi scritti, documenti ritenuti necessari per leggere e fare la storia, ci porta comunque ad una scoperta che rivoluziona quanto finora abbiamo acquisito e soprattutto comunicato nelle aule scolastiche, dove si insiste in una visione che appare superata. Gli stessi studiosi avvertono che le nuove prospettive costituiscono un rivolgimento notevole, analogo a ciò che l’uomo ha dovuto constatare nelle varie scoperte fatte durante il cammino, rifuggendo da un impianto di tipo autoritario, fondato su affermazioni che venivano accolte in maniera indiscussa e indiscutibile. Qui siamo stimolati ad una ricerca più approfondita, riconoscendo che i documenti sono ancora da ricercare, da analizzare, da studiare. Ed è ammirevole che gli storici, sempre aperti alla ricerca, si rendano conto delle continue novità che anche nel loro campo è possibile scoprire.

Le testimonianze fossili, genetiche e linguistiche, confermano che gli esseri umani viventi discendono da una popolazione di uomini anatomicamente moderni che vissero in Africa fino a circa 100.000 anni fa.

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Erano nomadi e presto si sparsero nel mondo. Nel giro di 4000 generazioni aveva rioccupato le regioni in cui l’Homo erectus e l’Homo sapiens arcaico si erano estinti, avevano sostituito popolazioni preesistenti e colonizzato territori non raggiunti dai loro simili. Oggi gli uomini dominano la terra e sono arrivati sulla luna. Sanno immaginare il futuro e tradurre queste immagini in realtà grazie alle capacità e ai talenti sviluppati durante l’evoluzione in Africa.

(Reader, p.98)

Lo storico africano in presenza delle nuove scoperte offre una lettura della storia africana che diventa per lui lo strumento per una coscienza più chiara e per un impegno più serio nel dare futuro all’Africa stessa, fin troppo vilipesa soprattutto nella sua condizione di territorio colonizzato e sfruttato. La revisione più che una contrapposizione polemica assume piuttosto la caratteristica della rivendicazione di una pari dignità che indubbiamente spetta di diritto all’Africa nel suo insieme, ma soprattutto agli Africani delle nuove generazioni, nate nel post colonialismo che è ancora da superare, perché l’Africa stessa possa godere di un suo ruolo dentro il cammino che abbiamo da affrontare.

Così, circa quindicimila anni fa gli uomini preistorici in Africa e altrove hanno conosciuto uno sviluppo notevole che costituisce uno dei cardini della storia; ma per gli individui che hanno vissuto o provocato questi cambiamenti non si è trattato tanto di una rottura con il passato quanto di un’accelerazione delle scoperte iniziate già nell’Epipaleolitico. Queste trasformazioni provocheranno una differenziazione ancora più accentuata di tipi di vita e di razze, e di nuovi modi di espandersi dell’umanità, al punto che, a seconda delle regioni, in Africa coesisteranno civiltà più o meno avanzate. Ma la tendenza generale è tuttavia verso gli utensili microlitici, la pietra levigata, la scoperta dell’allevamento e dell’agricoltura, l’habitat fisso. (…) In effetti, secondo molti autori, in particolare Murdoch e il botanico A. Chevalier, i negri della savana hanno inventato l’agricoltura in modo autonomo, ma parallelamente agli abitanti della Mesopotamia, dell’Asia orientale e degli altopiani del Messico e del Perù: fin dal VI o dal V millennio questi abitanti dell’alta valle del Niger hanno selezionato e coltivato piante quali il sorgo, il miglio, determinate varietà di riso, il sesamo, il fonio e più a meridione l’igname, il gombo per le foglie e le fibre, la palma da olio, la cola e forse una qualità di cotone. (…)

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Le località di Nakuru e del fiume Nyoro in Kenya starebbero persino a indicare un inizio di cerealicoltura, per cui, prima dell’apporto americano avviato tramite i Portoghesi l’Africa aveva conosciuto un tale moltiplicarsi di scoperte agricole che si può a buon diritto parlare di rivoluzione. Sotto forme più o meno progredite, alcuni di questi tuberi o cereali continuano a nutrire gli Africani di oggi: essi hanno reso possibile la sedentarizzazione degli uomini senza la quale non esisterebbe alcuna civiltà in evoluzione. (…) Queste trasformazioni tecniche e sociali si sono accompagnate necessariamente a dei sommovimenti nella coscienza e nel pensiero: il concetto di proprietà non è forse legato all’occupazione permanente e al lavoro di un pezzo di terra? Di questa rivoluzione spirituale testimoniano le sepolture accurate dei negri della Karthum neolitica, nelle quali si trova sotto il capo del defunto un grosso blocco di ceramica a guisa di cuscino, o nella stessa tomba, posti di fronte, il neonato e la sua giovane madre.

(Ki-Zerbo, p. 59. 62-63)

CONCLUSIONE

Sulla base di questi dati, che appaiono oggi consolidati nell’ambito scientifico, dobbiamo ritrascrivere la storia, o comunque integrarla con i nuovi apporti della ricerca e insieme dello studio dei dati acquisiti. Se finora l’Africa è stata considerata come “asservita”, e di fatto schiavizzata, nella visione che il mondo occidentale fa della storia umana, adesso è neces-sario ricreare le basi per una lettura più ampia e completa. Non si può non riconoscere che nel corso del camino dell’umanità il nostro mondo europeo si è fatto strada nel continente africano, indubbiamente con la rapacità di chi vuol occupare e sottrarre energie locali, e insieme, però, apportando tutte quelle tecniche e quelle scoperte che consentono pure lo sviluppo; ma va altresì segnalato che fin dalle origini c’è stato il cammino inverso per cui l’Homo erectus, divenuto sapiens, è uscito dall’Africa per raggiungere gli altri continenti, che già erano alla “deriva”, dopo essere stati un unico blocco. Abbiamo allora da fare ancora molto per una visione più completa e più giusta, tale da consentire una lettura più ampia della storia, ed offrire una prospettiva sul futuro che rimanga in linea con quanto la storia insegna, anche in mezzo a tanti errori. La conoscenza dell’Africa, soprattutto nella sua storia, ancora prima dell’arrivo degli Europei con i loro condizionamenti è quantomai da operare con larghezza di vedute, lasciandoci anche guidare dagli storici locali, che hanno strumenti più adatti per questa operazione.

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BIBLIOGRAFIA

1.

Francesco Paderi

L’ALTRA AFRICA

Regni ed imperi nell’Africa nera precoloniale

Il Cerchio – 2004

2.

Joseph Ki-Zerbo

STORIA DELL’AFRICA NERA

Un continente tra la preistoria e il futuro

Ghibli – 2016

Joseph Ki-Zerbo (1922-2006) è originario dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso. È nato da una famiglia di poveri contadini, divenuti cristiani (sembra che il padre sia stato il primo battezzato del Paese). Allievo di alcune scuole delle missioni cattoliche della regione, studia anche in Mali e riceve una buona formazione. Si trasferisce a Dakar, dove insegna e insieme svolge altri lavori. Scrive anche per il settimanale cattolico “Afrique Nouvelle”. Consegue la maturità a 27 anni e, grazie all’elevato punteggio, ottiene una borsa di studio che gli consente di recarsi a Parigi. Arrivato qui nel 1949, studia storia alla Sorbona e presso l’Institut d’Etudes Politiques. Al termine degli studi sostiene un concorso che opera una selezione di insegnanti per le scuole di grado superiore francesi. Ancora studente avvia la propria attività politica: è cofondatore e presidente dell’associazione degli studenti dell’Alto Volta in Francia (1950-1956) e, successivamente, dell’associazione degli studenti cattolici africani, antillesi e malgasci. Matura una coscienza anticolonialista che propugna l’indipendenza dei Paesi africani dalla Francia. A Bamako, in Mali, conosce la sua futura sposa, Jacqueline Coulibaly, figlia di un sindacalista maliano. Costui lo coinvolge anche nel sindacalismo. Diventa professore di storia a Orleans e a Parigi, prima di insegnare in un liceo a Dakar. Nel 1957 fonda il Movimento di Liberazione Nazionale, presentando il manifesto a Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana: vuole l’indipendenza immediata, la creazione degli Stati Uniti d’Africa e come ideologia di fondo il socialismo. La Guinea francese ottiene l’indipendenza e il presidente Sékou Touré affida a Ki-Zerbo e alla moglie il compito di sostituire gli insegnanti francesi con personale locale, che doveva essere formato per questo. Nel 1960 però rientra in Alto Volta, volendo perseguire i disegni politici nel suo Paese d’origine. Nella capitale diventa insegnante per le scuole secondarie del Paese. Nel 1965 viene nominato direttore generale dell’Educazione, della Gioventù e dello Sport.

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E insieme è professore universitario nella capitale. Ki-Zerbo si dedica inoltre alla composizione di libri, soprattutto nell’ambito storico, che rimangono pietre miliari nel settore e aprono una visione migliore sul continente: nel 1972 esce la pubblicazione “Histoire de l’Afrique noire, des origines à nos jours”, in cui espone concetti innovativi e in antitesi con la descrizione riduttiva, discriminante e razzista in auge al tempo nella cultura europea. Qui egli sostiene e comprova che l’Africa ha raggiunto un elevato sviluppo sociale, politico e culturale prima del declino del continente determinato in buona parte anche dalla tratta degli schiavi, prima, e dal colonialismo, poi. Nel medesimo periodo Ki-Zerbo si dedica anche alla politica con il suo Movimento di Liberazione Nazionale, anche se il colpo di Stato del 1974 vanifica tutti suoi sforzi per una democrazia più solida. Tra il 1972 e il 1979 è membro del consiglio dell’UNESCO e lavora per conto della stessa organizzazione alla stesura di una nuova storia dell’Africa, pubblicata in otto volumi con il titolo “Histoire générale de l’Afrique”. Nel 1980 fonda il “Centro studi per lo sviluppo africano” (CEDA) e sulla base di una attenta analisi critica dell’imperialismo conia il concetto di “sviluppo endogeno”. Tra il 1983 e il1992 trascorre un periodo in esilio, in quanto maggior oppositore del governo di Thomas Sankara, insediatosi nel 1983 e ucciso poi nel 1987 durante un colpo di Stato. Ki-Zerbo e moglie vengono condannati a due anni di detenzione per frode fiscale e la loro biblioteca viene incendiata. Nel periodo di esilio fonda il “Centro di ricerca per lo sviluppo endogeno” e si dedica all’insegnamento e alla ricerca presso l’Istituto fondamentale dell’Africa nera a Dakar. Rientra nel Burkina Faso nel 1992 e fonda il “Partito per la democrazia e il progresso” che è il maggior patito di opposizione. Nel 2000 viene insignito della Laurea honoris causa a Padova. Muore a Ouagadougou, il 4 dicembre 2006.

Nell’intestazione della sua opera principale sulla storia dell’Africa, Ki-Zerbo cita una frase di Patrice Lumumba (1925-1961), primo ministro congolese, ucciso sei mesi dopo la raggiunta indipendenza ad opera di mercenari belgi.

Un giorno la storia dirà la sua … L’Africa scriverà la propria storia.

3.

John Reader

AFRICA

Biografia di un continente

Mondadori – 2022

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STORIA DELL’AFRICA

Ghibli – 2016

3.

John Reader

AFRICA

Biografia di un continente

Mondadori – 2022

4.

John Fage

STORIA DELL’AFRICA

Sulle tracce di una leggenda

Odoya, 1995

5.

Gian Paolo Calchi Novati – Pierluigi Valsecchi

Il continente africano è sempre stato noto, se non altro per il suo stretto legame con il mondo europeo e con il mondo asiatico: prima della formazione del canale di Suez era di fatto unito all’Asia e le cosiddette colonne d’Ercole sono state considerate come un ponte creato fra l’Africa e l’Europa. Tuttavia non si sapeva nulla di quanto si sviluppava oltre il Sahara. L’Africa, conosciuta nella storia precristiana e anche nei primi anni del Cristianesimo, era di fatto il Nord Africa, perché oltre il deserto si sapeva dell’esistenza di un immenso territorio, in cui le carte geografiche mettevano la scritta: “Hic sunt leones”. La popolazione e la storia che lì si sviluppava non erano note e neppure interessavano, anche se la gente di “pelle nera” era conosciuta. E tuttavia era ben raro che ci si spingesse, anche per via di mare, più che per via di terra; si ipotizzava un certo limite ritenuto invalicabile, come lascia intendere il folle volo di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno dantesco. Era comunque definita “Africa”, cioè la terra degli Afri, la parte nord del continente, soprattutto sul versante del Mediterraneo occidentale, dove Roma si scontra con Cartagine, da cui probabilmente deriva il nome di Africa, che nella lingua locale significherebbe “colonia”, in quanto la città era sorta sulle coste dell’attuale Tunisia con l’arrivo di Didone, che fuggiva dalla Fenicia. Di fatto solo per l’attuale Magreb si usava il nome di Africa, mentre si escludevano di fatto la Libia e l’Egitto. La zona corrispondente all’Egitto nel Mediterraneo orientale, ha avuto una sua storia, dove i legami con la parte sud, quella oggi definita Sudan, si erano stabiliti con la popolazione “negroide”. Ma l’Egitto, sia per i commerci, sia per gli scontri, era maggiormente implicato con il cosiddetto Medio Oriente, dove si susseguirono imperi, e dove si ritiene che sia iniziata la storia. La convenzione vuole che la storia abbia inizio con i primi documenti scritti, e questi fanno la loro comparsa nella Mesopotamia tra il IV e il III millennio a.C. Sulla base di questo principio, solo in questa area vengono collocate le civiltà che appartengono alla storia, mentre le altre popolazioni senza documenti devono essere considerati appartenenti alla “preistoria”. Perciò laddove gli scritti risultano inesistenti, la storia non esiste, e quindi l’Africa subsahariana risulta essere “senza storia” o ancora nella preistoria.

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Essa viene accolta nell’ambito della storia, quando arrivano gli Europei e ne fanno un loro dominio, come se fossero gli Europei a fornire la scrittura e con essa le condizioni perché anche gli Africani facciano parte della storia umana. Questo schema non funziona, soprattutto se si considera che nell’Africa subsahariana contano le fonti orali …

Le società africane sono infatti quasi tutte società della parola, e anche quando hanno usato la scrittura non hanno mai relegato l’oralità ad un uso minore. Inoltre la tradizione orale è presente in tutta l’Africa Nera, e non solo in certe zone ed in certe epoche come la scrittura. Sono molteplici le storie che sono state tramandate di padre in figlio e che hanno permesso di ricostruire molti avvenimenti (Paderi, p. 8)

Comunque, appare ancora oggi dominante lo schema che vuole l’Africa senza una storia. Essa risulterebbe emergere nel momento in cui il nostro mondo “occidentale” si interessa di questo continente e lo assorbe nella propria storia, come se neppure la parte settentrionale del continente, quella che già compariva nei millenni precedenti l’era cristiana, seppur associata ad altri centri di potere non avesse titoli per essere inserita nella storia comune dei popoli del Mediterraneo. Roma, quando inizia ad instaurare il suo impero ai danni di Cartagine, sua antagonista per eccellenza, designava quest’area geografica con il nome di Africa. Cartagine era la sola potenza sul suolo africano che potesse competere, e mancò il suo obiettivo per una visione che la rinchiudeva grettamente dentro schemi di natura economica. E tuttavia questa zona, entrando nell’orbita imperiale di Roma ne uscì rafforzata e in grado di giocare un ruolo decisivo. Se sotto il profilo geografico essa era totalmente africana, di fatto la partecipazione alle vicende di Roma, la facevano pensare dentro questa orbita e di fatto sempre più distante rispetto a ciò che si muoveva al di là del deserto. Per molti, comunque, l’Africa non era più quella che si estendeva dalle colonne d’Ercole fino al mar Rosso, e che si poteva considerare romana, anche perché, con i Severi nel campo politico e con le grandi figure cristiane del III secolo d. C., proprio questo territorio gioca un ruolo decisivo per la salvaguardia stessa della cultura romana. Rimane invece escluso il territorio che sta oltre il Sahara, come se nulla ci fosse, come se lì ci fossero solo le bestie feroci. Perciò passa il pregiudizio che in questa area geografica non ci sia stata storia o comunque la sua vicenda sia assolutamente irrilevante per l’Africa stessa e per il resto del mondo.

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La posizione più radicale a questo riguardo è quella che consiste nel dire che la storia dell’Africa (nera) non esiste. Nella sua Filosofia della storia nel 1830 Hegel affermava: “L’Africa non è una parte storica del mondo, non offre alcun movimento o sviluppo, alcuno svolgimento storico proprio. Vale a dire che la parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente per Africa è lo spirito senza storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto nelle condizioni naturali, e di cui dovea solo farsi menzione qui sulle soglie della storia”. Nel suo manuale sulla storia dell’Africa Orientale, Coupland scriveva (nel 1928, però): “Sino a D. Livingstone si può affermare che l’Africa propriamente detta non aveva avuto storia. La maggior parte dei suoi abitanti era rimasta per tempi immemorabili sprofondata nella barbarie. Tale doveva essere stato il decreto della natura. Restavano stagnanti, senza progredire né regredire”. Un’altra citazione caratteristica: “Le razze africane propriamente dette – esclusa quella dell’Egitto e una parte dell’Africa minore – non hanno in pratica partecipato alla storia quale l’intendono gli storici …

(Ki-Zerbo, p. 4)

Insomma, il pregiudizio a questo proposito è radicale e molto radicato ed è attribuito come colpa agli Africani stessi, che ne portano la responsabilità per il loro modo di contribuire alla vicenda umana, rimanendo senza scrittura, rimanendo senza memoria. Ovviamente si richiede una rilettura profonda che renda protagonisti gli stessi Africani, soprattutto quelli di razza nera, nella “scrittura” della loro storia e nella narrazione di ciò che costituisce il loro vissuto. Addirittura gli Africani sono mortificati con l’idea che l’Africa sia rimasta immobile per millenni, che nulla ci sia stato di così rivoluzionario da creare vicende, nelle quali si può misurare l’appor-to di novità che gli Africani portano a se stessi e all’umanità. Lo storico africano, che premette al suo lavoro di ricerca la questione fondamentale circa i requisiti per avere un’autentica visione storica anche in Africa, sostiene che non sempre e non dovunque si devono assumere i criteri qualificanti la storia secondo il mondo occidentale. Non possono bastare le consuete nozioni con cui si ritiene di costruire la storia, e cioè date, episodi straordinari, personaggi famosi, eventi chiave di passaggio da un’epoca all’altra; occorre anche valorizzare la tradizione orale, nella quale poi è necessario chiarire il problema linguistico: l’esistenza di diverse lingue e più ancora di svariatissimi dialetti, che sono alla base del parlare più che dello scrivere, dice come sia oltremodo problematico operare dentro la costruzione di una storia e di un storiografia africana.

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E tuttavia questo particolare ci dice che la storia in Africa e la storia sull’Africa può risultare anche più interessante, perché offre altre forme di comunicazione e di tradizioni nient’affatto trascurabili.

A proposito dell’Africa bisogna anche affrontare il tema della concezione stessa della storia. Si è detto spesso che la storia è una scienza e che gli Africani non dovevano farne una passione: nel suo schematismo questa distinzione è straordinariamente limitata. La storia è una scienza umana alla ricerca di un certo grado di certezza detta morale o di probabilità che le per-mette di ricostruire e di spiegare il passato dell’uomo. (…) Il destino dell’uomo è di ricercare la verità e di avvicinarsi il più possibile a questo ideale. (…) Senza essere un mercante d’odio, lo storico dell’Africa deve dare all’oppressione della tratta dei negri e allo sfruttamento capitalista il ruolo che queste cose hanno realmente rappresentato nell’evoluzione del continente e che tanto spesso e tanto abilmente viene minimizzato da certi storici europei con conseguenze terribili per la mentalità dei giovani africani che sui banchi di scuola si sono nutriti di questi cibi avvelenati.

(Ki-Zerbo, p. 28-29)

Si avverte qui la preoccupazione di fornire una visione della storia che sia di grande utilità anche per le nuove generazioni, soprattutto africane, le quali appaiono di fatto appiattite su un fronte che li fa coscienti delle proprie responsabilità a partire dal periodo dell’indipendenza, come se non ci fosse nulla prima, come se la coscienza africana fosse allora inesistente o morta. C’è anche il problema di creare una buona base con storici di origine africana di buona formazione e di alto profilo, nelle Università, come pure nelle scuole ai primi livelli.

La storia africana deve essere una fonte di ispirazione per le generazioni che crescono, per i politici, i poeti, gli scrittori, gli uomini di teatro, i musicisti, gli studiosi di tutti i campi e anche semplicemente per l’uomo della strada. Ciò che colpisce nei paesi europei è questo continuo autoinvestimento del passato nel presente: la continuità non è interrotta. Gli uomini politici citano autori del XVI secolo o addirittura gli scrittori grecolatini … Nello stesso modo, ridando vita al passato di questo continente, lo storico dell’Africa crea un capitale spirituale che costituirà una fonte di ispirazione multiforme e permanente. (…) La storia dell’Africa non verrà scritta veramente dai frenetici della rivendicazione, ancor meno da dilettanti senza simpatia, desiderosi soltanto, nella migliore delle ipotesi, di occupare il loro tempo libero di cittadini di paesi altamente sviluppati.

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Sarà scritta dai non-africani che avranno deposto la livrea imperiale del “civilizzatore” per indossare quella più modesta, ma quanto più bella, dell’umanista. (…) Questa storia sarà scritta soprattutto dagli Africani che avranno capito che tanto la gloria quanto la miseria dell’Africa, tanto la fortuna quanto la malasorte, tanto i fasti quanto gli aspetti popolari e quotidiani costituiscono nell’insieme un humus sostanzioso nel quale nuove nazioni possono e devono attingere risorse spirituali e ragion d’essere.

(Ki-Zerbo, p. 32-33)

L’AFRICA NELLA PANGEA

Prima di entrare nel percorso storico che ha come protagonista l’Africa, dobbiamo dare uno sguardo di carattere geografico, sempre sotto il profilo cronologico, per leggere quel fenomeno che va sotto il nome della “deriva dei continenti”. La teoria di Alfred Wegener, introdotto più di un secolo fa (nel 1912), sostiene che le terre emerse erano un unico blocco, definito “Pangea”.

LA PANGEA

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Da questo unico blocco per movimenti “tellurici”, soprattutto di natura vulcanica, si sono staccati i diversi continenti. Per il modo stesso con cui si descrive la deriva dei continenti sembra che l’Africa sia rimasta al suo posto, mentre gli altri si sono allontanati da essa. In realtà essa pure era ed è soggetta a movimenti che hanno contribuito alla formazione di catene montuose, laddove lo spostamento delle terre conosceva una specie di attrito. Sulla base di questa visione, piuttosto suggestiva, si deve pensare ad una sorta di centralità del continente africano con tutto quello che ne deriva non solo per la sua composizione fisica, ma anche per quel processo che sta alla base della “nascita” dell’uomo.

L’Africa è la più antica e stabile massa di terra emersa del pianeta. Il 97 per cento del continente è rimasto, immutato, là dove si trovava più di 300 milioni di anni fa, ma in gran parte è stabile da più di 550 milioni di anni, e in certe zone addirittura da 3600 milioni. Il suo processo di crescita documenta un lungo e significativo tratto di storia della terra. Forze immani hanno plasmato il continente nel corso di milioni di anni. Su una simile scala temporale la vita dell’uomo è pressoché irrilevante … L’Africa ha conosciuto tutto questo e ne porta il segno. Qui gli eventi orogenetici (la formazione delle montagne) e le profonde dislocazioni geologiche che caratterizzano il paesaggio di altri continenti sono stati assai meno vistosi.

(Reader, p.13-14)

Perciò sulla base di queste sommarie considerazioni, dovremmo pensare che l’Africa è il continente centrale, anche ad essere sotto il profilo storico quello più periferico ed essere di fatto per troppo tempo escluso dal cammino che invece l’Europa conduceva, aggregando a sé con le sue “scoperte” le altre terre del globo.

A Thomas Dick va il merito del primo riferimento documentato al concetto di deriva continentale; fu però Alfred Wegener a cercare le prove capaci di suffragare questa ipotesi. Wegener suggerì che in origine le masse emerse fossero unite in un solo grande supercontinente, che chiamò Pangea, ovvero “tutte le terre”. In seguito la massa si sarebbe scissa e sarebbe cominciata la deriva di due continenti distinti: Laurasia verso nord e Gondwana verso sud. Più tardi la Laurasia si sarebbe a sua volta suddivisa in due parti, mentre il Gondwana si sarebbe disgregato in più frammenti e a poco a poco i continenti avrebbero raggiunto le posizioni che occupano da ere geologiche più vicine a noi. (Reader, p.26)

Nei continenti, così formati e sempre in formazione, con processi evolutivi si ha il sorgere della vita fino all’ultimo anello della catena, che è costituito dagli animali mammiferi, tra cui si distingue l’Homo sapiens.

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L’AFRICA, PATRIA DELL’UOMO

Dovrebbe essere assodato che il racconto biblico della creazione non è la descrizione “esatta” di ciò che è effettivamente successo nel momento stesso in cui compare quel primate che noi oggi definiamo col nome di uomo. Qui non interessa dedicarsi alla discussione fra il “creazionismo” e l’“evoluzionismo”, per giungere ad una presa di posizione, che spesso si pensa possa far superare e mettere da parte il racconto biblico della crea-zione. Quest’ultimo non ha nulla di scientifico e non lo potrebbe neppure avere, perché il racconto è nato con ben altra finalità. Le varie ricerche, non ancora concluse, hanno rivelato che il primo uomo, definito nella Bibbia con il nome di Adamo, che significa appunto “uomo”, propria-mente come maschio, è nato in Africa, ove, evidentemente, le condizioni climatiche, migliori rispetto a ciò che si verificava più a nord, potevano far evolvere la situazione perché l’uomo potesse affermarsi e divenire il dominatore del creato.

Dove si è svolto questo grandioso primo atto di un dramma non ancora concluso? Quasi certamente in Africa, perché qui esistevano le condizioni più favorevoli e perché qui è stata scoperta la serie più numerosa, completa e continua di resti preistorici, nonostante la prospezione archeologica sia ai suoi primi passi e la conservazione dei resti fossili permanga molto difficile a causa dell’aridità del suolo. È in Africa, e qui soltanto, in particolare sugli altopiani orientali e meridionali che si ritrovano ancora gli “antenati”, o piuttosto i presunti progenitori dell’uomo … Darwin affermava già: “E’ probabile che i nostri primi progenitori siano vissuti in Africa piuttosto che altrove”. Questa intuizione viene confermata ogni giorno da nuove scoperte. Da parte sua, Teilhard de Chardin scrive: “E’ dal cuore dell’Africa che l’uomo ha dovuto emergere la prima volta”.

(Ki-Zerbo, p. 50)

Una simile considerazione viene fatta anche sulla base di continue ricerche che hanno condotto a ipotizzare la presenza di carnivori, i quali trovavano nel consumo della carne le proteine per poter rafforzare il proprio ciclo evolutivo e costituire così un primate sempre più forte, evoluto e capace di competere e soprattutto di sopravvivere.

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Alcuni hanno pure pensato a forme di cannibalismo, che poi spiegano le espressioni di violenza con cui viene caratterizzato il vivere umano. Comunque, nonostante questi fenomeni e i contenziosi aperti con altri mammiferi, pure carnivori, i primi uomini si affermano e si consolidano, e il loro raggio di azione e di sussistenza spazia lungo la dorsale orientale dell’Africa nello spazio di depressione che corrisponde all’odierna Rift Valley, presso la quale sono stati rinvenuti dei fossili che fanno pensare alla presenza di colui che noi oggi definiamo il primo uomo.

Si calcola che, se anche la densità di popolazione dei primi ominidi fosse stata pari a quella degli attuali licaoni, ognuno dei dieci crani fossili trovati sulla riva est del lago Turkana non rappresenterebbe che uno su 100.000 individui vissuti nel milione di anni coperto dai vari depositi geologici. I giacimenti del Turkana sono eccezionalmente ricchi, ma fossili di ominidi sono stati rinvenuti anche in siti sparpagliati in tutta l’Africa subsahariana a est del bacino del Congo dalla depressione dell’Afar a nord, giù lungo l’intera lunghezza della Rift Valley in Africa orientale e attraverso le savane e le boscaglie dell’Africa centrale, per più di 500 chilometri, fino alle aride propaggini meridionali del Kalahari.

(Reader, p.71)

LA RIFT VALLEY

Essa ha inizio già nella valle del Giordano, che risulta essere una depressione dal lago di Galilea fino al Mar Morto, dislocato a 394 metri sotto il livello del mare. La Rift Valley prosegue nel golfo di Aqaba-Eilat fino a comprendere il Mar Rosso. Nella parte più meridionale del Mar Rosso essa si dirama in due direzioni diverse: verso est e verso sud. La zona della diramazione è chiamata “triangolo di Afar” o depressione della Dancalia e si trova in Etiopia. La diramazione verso est forma il golfo di Aden e da questo punto in poi la Rift Valley continua come dorsale oceanica fino ad unirsi, in corrispondenza della zona di frattura di Owen, con la dorsale di Carlsberg, estremità nord-occidentale della dorsale medio-indiana. La diramazione verso sud è spesso indicata come sistema di rift dell’Africa orientale e fino a poco tempo fa essa stessa veniva chiamata essa stessa Great Rift Valley. Tra la depressione di Afar e la depressione del lago Turkana in Kenya, si sviluppa la cosiddetta Rift Valley etiopica, che separa l’altopiano etiopico, a ovest, da quello somalo, a est. Più a sud il rift dell’Africa orientale si divide in due rami, quello orientale e quello occidentale.

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Il ramo occidentale della Rift Valley è chiamato “faglia albertina” e si estende dall’estremità settentrionale del lago Alberto all’estremità meridionale del lago Tanganika. È delimitato da alcune montagne più alte dell’Africa, inclusi i Monti Virunga (vulcani posti tra il Rwanda e il Congo), i Monti Mitumba (altra catena vulcanica tra il Congo, il Rwanda e il Burundi) e Ruwenzori (catena tra il Congo e l’Uganda) e contiene alcuni dei grandi laghi africani, che includono tra i laghi più profondi del mondo, come il lago Tanganika, profondo fino a 1470 metri.

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Il lago Vittoria invece non è direttamente parte del sistema della Rift Valley, anche ad

essere posizionato tra i rami orientale e occidentale. Il ramo orientale, chiamato “Rift di Gregory”, si sviluppa in Kenya e Tanzania. Ad esso è associata la montagna più alta dell’Africa, il Kilimangiaro (m. 5895) ed altri rilievi principali, come il monte Kenya (m. 5199). I laghi del ramo orientale sono meno profondi rispetto a quelli del ramo occidentale e sono caratterizzati da un’alta concentrazione di sali minerali dovuti alle piogge, che portano i sali minerali dai vicini vulcani, e alla forte evaporazione dell’acqua. I due rami si riuniscono nella parte meridionale terminale, formando il lago Nyassa, il terzo corpo d’acqua dolce più profondo del mondo, fino a 706 metri e disperdendosi poi nella valle dello Zambesi, nel Mozambico centrale. La Rift Valley è stata una ricca sorgente di scoperte paleo-antropologiche. Gli abbondanti sedimenti della valle, provenienti dalla rapida erosione degli altopiani circostanti, hanno creato un ambiente favorevole alla preservazione dei resti umani. Sono infatti state trovate numerose ossa di omi-nidi, antenati della moderna specie umana. (da Wikipedia)

SULLO SFONDO IL LAGO TURKANA

Si notino il paesaggio brullo e i sassi di natura vulcanica

Sulla base di queste recenti scoperte si dovrebbe ritrascrivere molta parte della storia umana, al di là della distinzione che ancora si conserva fra preistoria e storia. Comunque l’essere umano al suo primo apparire trova come suo habitat questa parte, molto estesa dell’Africa, anche a non lasciare quel genere di traccia che noi continuiamo a pensare essenziale per avere una storia e quindi quelle forme scritte che servono a “raccontare” il cammino fatto e l’evoluzione vissuta nella piena coscienza di sé. Eppure ci sono sempre anche altre forme comunicative che noi spesso ignoriamo o non vogliamo prendere in sufficiente e seria considerazione.

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Indubbiamente il cuore della Rift Valley si estende in Kenya e appare, al visitatore meravigliato, come una depressione, che si può ammirare da “terrazze”, in cima alle quali si ha un’ampia veduta sottostante, con un precipizio di circa 2000 metri: nelle vicinanze di Nairobi durante la guerra i soldati italiani fatti prigionieri hanno costruito una strada che faceva scendere verso il fondo di questa depressione, per poter ammirare la par-te bassa. Essa divide il Kenya, perché discende dalla costa meridionale del lago Turkana ed arriva nella zona ad ovest di Nairobi, proseguendo fino a penetrare nella vicina Tanzania, divisa dal Kenya da un linea retta tracciata sulle cartine dai colonizzatori inglesi. Questo grande spazio de-ve essere stato in gran parte teatro della storia inziale dell’umanità, anche a non risultare affatto sui libri di storia.

SULLE RIVE DEL LAGO TURKANA

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Il lago Turkana si trova nel torrido e inospitale scenario del Kenya settentrionale. È lungo più di 250 chilometri da nord a sud, con una lunghezza massima di 50 chilometri. In alcuni punti è profondo fino a 240 metri. Tre coni vulcanici ne emergono come isole. Il lago ha diversi immissari (il più importante dei quali, l’Omo, raccoglie le acque degli altipiani etiopici) ma è privo di emissari. L’eccessiva evaporazione trasforma le sue acque in una soluzione ricca di sali, che gli animali bevono senza conseguenze, e che per gli uomini è sgradevole, oltre che lassativa. Quasi ogni giorno il lago è spazzato da un forte vento da est, provocato dalle correnti ascendenti di aria calda originatesi sul torrido bacino lacustre, e le acque sono agitate da onde irregolari. I coccodrilli che frequentano le secche, nutrendosi in prevalenza di pesce, sono sempre pronti a catturare una zebra o un’antilope che, incauta, si inoltri nell’acqua. Sulla regione cadono di rado più di 100 millimetri annui di pioggia. Poiché l’acqua potabile sgorga da rare sorgenti naturali molto distanti fra loro, la popolazione umana si riduce a piccoli gruppi di pastori nomadi, benché i pascoli siano sufficienti a nutrire un’abbondante fauna selvatica. Tuttavia la regione è abitata da milioni di anni e i sedimenti che costituiscono gran parte del territorio intorno al lago hanno conservato tracce fossili dei nostri antenati.

(Reader, p.77)

NEI PRESSI DI LOYANGALANI SUL LAGO TURKANA

Si notino le “maniatte”, abitazioni dei pescatori

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Qui si inseriscono le esperienze personali vissute in numerosi viaggi fatti negli anni recenti. La località di sosta è Loyangalani, che appartiene al di-stretto di Marsabit, collocata sulla costa meridionale del lago Turkana. c’è Qui c’è una missione della Consolata, che ha una buona recettività per chi si avventura da queste parti – e non è infrequente trovare studiosi in ricerca, provenienti da tutto il mondo -. Qui sono in prevalenza comunità della etnia turkana, che sono spesso in lotta con i Samburu, il cui distretto, che ha come capoluogo Maralal, è confinante. Qui rimangono pure due villaggi abitati da una tribù che si sta estinguendo: si tratta degli El Molo.

BAMBINI EL MOLO PRESSO IL LAGO TURKANA

Su un terreno arido e di fatto isolati

Essi vivono isolati su alcuni isolotti del lago, distanti dal centro abitato e di fatto senza cure specifiche e con una alimentazione priva delle necessarie calorie. Vivono di sussistenza, nutrendosi del pesce pescato nel lago, e non hanno nessuno prospettiva di sviluppo, se non allontanandosi di lì. Sono ben visibili i segni delle debolezze fisiche dovute a malnutrizione e non hanno assistenza alcuna, se non dai missionari. L’arrivo dei bianchi, portati dai missionari, è per loro l’occasione per vendere quanto riescono a fabbricare con le loro mani.

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Nell’area circostante Loyangalani domina un quadro di sedimenti vulcanici con ben rara vegetazione e sulle colline circostanti è stata creata una rete di numerose pale eoliche per sfruttare il vento sempre presente e spesso molto impetuoso. È un habitat che solo da poco ha richiamato l’attenzione e la presenza di studiosi, evidentemente alla ricerca, anche in questo spazio, di segni della presenza umana, precedente i tempi nei quali noi abbiamo fissato di dare origine alla storia, che si sostiene sia da collocare in altri luoghi e in altri tempi, più vicini a noi.

LE PALE EOLICHE SULLA STRADA PER LOYANGALANI

Il rinvenimento dei primi resti fossili di un essere umano anatomicamente moderno, l’Homo sapiens sapiens, è una delle più celebri scoperte della paleoantropologia: si trattava dell’uomo di Cro-Magnon, trovato nel 1868. Quell’esemplare aveva occupato una grotta della Dordogna, nel Sud della Francia, circa 30.000 anni fa, ma i suoi antenati si erano evoluti in Africa, grazie a un cervello altamente sviluppato e a un elaborato sistema di termoregolazione. Le più antiche prove fossili della loro esistenza provengono dalle grotte montane dello Zululand, dai ripari delle falesie costiere sull’Oceano Indiano, in Sudafrica, e dalle savane della Rift Valley in Etiopia, Kenya e Tanzania. (…)

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I fossili africani hanno circa 100.000 anni, mentre quelli dei loro parenti non africani sono molto più giovani. Ciò significa che gli uomini anatomica-mente moderni dell’Africa sono i capostipiti di tutti quelli non africani e dei loro discendenti moderni. L’antropologo tedesco Günter Bräuer studiò a fon-do la questione prima di rendere nota la sua “ipotesi del sapiens afroeuropeo”, nel 1984. (…) Bräuer individuò una linea evolutiva e giunse alla conclusione che gli esseri umani anatomicamente moderni si erano evoluti in Africa orientale da un ceppo preesistente di ominidi non meno di 150.000 anni fa e che si erano poi diffusi rapidamente nell’intero continente. Piccoli gruppi di coloro che sfruttavano le risorse della valle del Nilo, e ne avevano raggiunto il delta, si erano in seguito spostati lungo le coste del Mediterraneo fino al Medio Oriente, arrivando poi in Europa, Asia, Australasia ed Estremo Oriente. (…) Queste scoperte dimostrano che in Africa le mutazioni risalivano a epoche molto lontane nel tempo, mentre tutti gli altri esseri umani condividevano mutazioni in gran parte accumulatesi in un passato piuttosto recente. Basandosi su queste differenze e sul ritmo con cui avvengono le mutazioni, gli studiosi sono giunti alla conclusione che l’intera popolazione del mondo moderno discende da un gruppo relativamente piccolo di individui che lasciò l’Africa intorno a 100.000 anni fa. Grazie a ulteriori estrapolazioni sono giunti ad affermare che l’essere umano moderno è comparso in Africa tra 140.000 e 290.000 anni fa.

(Reader, p.95-97)

Una simile analisi della “preistoria”, proprio perché non viene fatta su testi scritti, documenti ritenuti necessari per leggere e fare la storia, ci porta comunque ad una scoperta che rivoluziona quanto finora abbiamo acquisito e soprattutto comunicato nelle aule scolastiche, dove si insiste in una visione che appare superata. Gli stessi studiosi avvertono che le nuove prospettive costituiscono un rivolgimento notevole, analogo a ciò che l’uomo ha dovuto constatare nelle varie scoperte fatte durante il cammino, rifuggendo da un impianto di tipo autoritario, fondato su affermazioni che venivano accolte in maniera indiscussa e indiscutibile. Qui siamo stimolati ad una ricerca più approfondita, riconoscendo che i documenti sono ancora da ricercare, da analizzare, da studiare. Ed è ammirevole che gli storici, sempre aperti alla ricerca, si rendano conto delle continue novità che anche nel loro campo è possibile scoprire.

Le testimonianze fossili, genetiche e linguistiche, confermano che gli esseri umani viventi discendono da una popolazione di uomini anatomicamente moderni che vissero in Africa fino a circa 100.000 anni fa.

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Erano nomadi e presto si sparsero nel mondo. Nel giro di 4000 generazioni aveva rioccupato le regioni in cui l’Homo erectus e l’Homo sapiens arcaico si erano estinti, avevano sostituito popolazioni preesistenti e colonizzato territori non raggiunti dai loro simili. Oggi gli uomini dominano la terra e sono arrivati sulla luna. Sanno immaginare il futuro e tradurre queste immagini in realtà grazie alle capacità e ai talenti sviluppati durante l’evoluzione in Africa.

(Reader, p.98)

Lo storico africano in presenza delle nuove scoperte offre una lettura della storia africana che diventa per lui lo strumento per una coscienza più chiara e per un impegno più serio nel dare futuro all’Africa stessa, fin troppo vilipesa soprattutto nella sua condizione di territorio colonizzato e sfruttato. La revisione più che una contrapposizione polemica assume piuttosto la caratteristica della rivendicazione di una pari dignità che indubbiamente spetta di diritto all’Africa nel suo insieme, ma soprattutto agli Africani delle nuove generazioni, nate nel post colonialismo che è ancora da superare, perché l’Africa stessa possa godere di un suo ruolo dentro il cammino che abbiamo da affrontare.

Così, circa quindicimila anni fa gli uomini preistorici in Africa e altrove hanno conosciuto uno sviluppo notevole che costituisce uno dei cardini della storia; ma per gli individui che hanno vissuto o provocato questi cambiamenti non si è trattato tanto di una rottura con il passato quanto di un’accelerazione delle scoperte iniziate già nell’Epipaleolitico. Queste trasformazioni provocheranno una differenziazione ancora più accentuata di tipi di vita e di razze, e di nuovi modi di espandersi dell’umanità, al punto che, a seconda delle regioni, in Africa coesisteranno civiltà più o meno avanzate. Ma la tendenza generale è tuttavia verso gli utensili microlitici, la pietra levigata, la scoperta dell’allevamento e dell’agricoltura, l’habitat fisso. (…) In effetti, secondo molti autori, in particolare Murdoch e il botanico A. Chevalier, i negri della savana hanno inventato l’agricoltura in modo autonomo, ma parallelamente agli abitanti della Mesopotamia, dell’Asia orientale e degli altopiani del Messico e del Perù: fin dal VI o dal V millennio questi abitanti dell’alta valle del Niger hanno selezionato e coltivato piante quali il sorgo, il miglio, determinate varietà di riso, il sesamo, il fonio e più a meridione l’igname, il gombo per le foglie e le fibre, la palma da olio, la cola e forse una qualità di cotone. (…)

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Le località di Nakuru e del fiume Nyoro in Kenya starebbero persino a indicare un inizio di cerealicoltura, per cui, prima dell’apporto americano avviato tramite i Portoghesi l’Africa aveva conosciuto un tale moltiplicarsi di scoperte agricole che si può a buon diritto parlare di rivoluzione. Sotto forme più o meno progredite, alcuni di questi tuberi o cereali continuano a nutrire gli Africani di oggi: essi hanno reso possibile la sedentarizzazione degli uomini senza la quale non esisterebbe alcuna civiltà in evoluzione. (…) Queste trasformazioni tecniche e sociali si sono accompagnate necessariamente a dei sommovimenti nella coscienza e nel pensiero: il concetto di proprietà non è forse legato all’occupazione permanente e al lavoro di un pezzo di terra? Di questa rivoluzione spirituale testimoniano le sepolture accurate dei negri della Karthum neolitica, nelle quali si trova sotto il capo del defunto un grosso blocco di ceramica a guisa di cuscino, o nella stessa tomba, posti di fronte, il neonato e la sua giovane madre.

(Ki-Zerbo, p. 59. 62-63)

CONCLUSIONE

Sulla base di questi dati, che appaiono oggi consolidati nell’ambito scientifico, dobbiamo ritrascrivere la storia, o comunque integrarla con i nuovi apporti della ricerca e insieme dello studio dei dati acquisiti. Se finora l’Africa è stata considerata come “asservita”, e di fatto schiavizzata, nella visione che il mondo occidentale fa della storia umana, adesso è neces-sario ricreare le basi per una lettura più ampia e completa. Non si può non riconoscere che nel corso del camino dell’umanità il nostro mondo europeo si è fatto strada nel continente africano, indubbiamente con la rapacità di chi vuol occupare e sottrarre energie locali, e insieme, però, apportando tutte quelle tecniche e quelle scoperte che consentono pure lo sviluppo; ma va altresì segnalato che fin dalle origini c’è stato il cammino inverso per cui l’Homo erectus, divenuto sapiens, è uscito dall’Africa per raggiungere gli altri continenti, che già erano alla “deriva”, dopo essere stati un unico blocco. Abbiamo allora da fare ancora molto per una visione più completa e più giusta, tale da consentire una lettura più ampia della storia, ed offrire una prospettiva sul futuro che rimanga in linea con quanto la storia insegna, anche in mezzo a tanti errori. La conoscenza dell’Africa, soprattutto nella sua storia, ancora prima dell’arrivo degli Europei con i loro condizionamenti è quantomai da operare con larghezza di vedute, lasciandoci anche guidare dagli storici locali, che hanno strumenti più adatti per questa operazione.

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BIBLIOGRAFIA

1.

Francesco Paderi

L’ALTRA AFRICA

Regni ed imperi nell’Africa nera precoloniale

Il Cerchio – 2004

2.

Joseph Ki-Zerbo

STORIA DELL’AFRICA NERA

Un continente tra la preistoria e il futuro

Ghibli – 2016

Joseph Ki-Zerbo (1922-2006) è originario dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso. È nato da una famiglia di poveri contadini, divenuti cristiani (sembra che il padre sia stato il primo battezzato del Paese). Allievo di alcune scuole delle missioni cattoliche della regione, studia anche in Mali e riceve una buona formazione. Si trasferisce a Dakar, dove insegna e insieme svolge altri lavori. Scrive anche per il settimanale cattolico “Afrique Nouvelle”. Consegue la maturità a 27 anni e, grazie all’elevato punteggio, ottiene una borsa di studio che gli consente di recarsi a Parigi. Arrivato qui nel 1949, studia storia alla Sorbona e presso l’Institut d’Etudes Politiques. Al termine degli studi sostiene un concorso che opera una selezione di insegnanti per le scuole di grado superiore francesi. Ancora studente avvia la propria attività politica: è cofondatore e presidente dell’associazione degli studenti dell’Alto Volta in Francia (1950-1956) e, successivamente, dell’associazione degli studenti cattolici africani, antillesi e malgasci. Matura una coscienza anticolonialista che propugna l’indipendenza dei Paesi africani dalla Francia. A Bamako, in Mali, conosce la sua futura sposa, Jacqueline Coulibaly, figlia di un sindacalista maliano. Costui lo coinvolge anche nel sindacalismo. Diventa professore di storia a Orleans e a Parigi, prima di insegnare in un liceo a Dakar. Nel 1957 fonda il Movimento di Liberazione Nazionale, presentando il manifesto a Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana: vuole l’indipendenza immediata, la creazione degli Stati Uniti d’Africa e come ideologia di fondo il socialismo. La Guinea francese ottiene l’indipendenza e il presidente Sékou Touré affida a Ki-Zerbo e alla moglie il compito di sostituire gli insegnanti francesi con personale locale, che doveva essere formato per questo. Nel 1960 però rientra in Alto Volta, volendo perseguire i disegni politici nel suo Paese d’origine. Nella capitale diventa insegnante per le scuole secondarie del Paese. Nel 1965 viene nominato direttore generale dell’Educazione, della Gioventù e dello Sport.

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E insieme è professore universitario nella capitale. Ki-Zerbo si dedica inoltre alla composizione di libri, soprattutto nell’ambito storico, che rimangono pietre miliari nel settore e aprono una visione migliore sul continente: nel 1972 esce la pubblicazione “Histoire de l’Afrique noire, des origines à nos jours”, in cui espone concetti innovativi e in antitesi con la descrizione riduttiva, discriminante e razzista in auge al tempo nella cultura europea. Qui egli sostiene e comprova che l’Africa ha raggiunto un elevato sviluppo sociale, politico e culturale prima del declino del continente determinato in buona parte anche dalla tratta degli schiavi, prima, e dal colonialismo, poi. Nel medesimo periodo Ki-Zerbo si dedica anche alla politica con il suo Movimento di Liberazione Nazionale, anche se il colpo di Stato del 1974 vanifica tutti suoi sforzi per una democrazia più solida. Tra il 1972 e il 1979 è membro del consiglio dell’UNESCO e lavora per conto della stessa organizzazione alla stesura di una nuova storia dell’Africa, pubblicata in otto volumi con il titolo “Histoire générale de l’Afrique”. Nel 1980 fonda il “Centro studi per lo sviluppo africano” (CEDA) e sulla base di una attenta analisi critica dell’imperialismo conia il concetto di “sviluppo endogeno”. Tra il 1983 e il1992 trascorre un periodo in esilio, in quanto maggior oppositore del governo di Thomas Sankara, insediatosi nel 1983 e ucciso poi nel 1987 durante un colpo di Stato. Ki-Zerbo e moglie vengono condannati a due anni di detenzione per frode fiscale e la loro biblioteca viene incendiata. Nel periodo di esilio fonda il “Centro di ricerca per lo sviluppo endogeno” e si dedica all’insegnamento e alla ricerca presso l’Istituto fondamentale dell’Africa nera a Dakar. Rientra nel Burkina Faso nel 1992 e fonda il “Partito per la democrazia e il progresso” che è il maggior patito di opposizione. Nel 2000 viene insignito della Laurea honoris causa a Padova. Muore a Ouagadougou, il 4 dicembre 2006.

Nell’intestazione della sua opera principale sulla storia dell’Africa, Ki-Zerbo cita una frase di Patrice Lumumba (1925-1961), primo ministro congolese, ucciso sei mesi dopo la raggiunta indipendenza ad opera di mercenari belgi.

Un giorno la storia dirà la sua … L’Africa scriverà la propria storia.

3.

John Reader

AFRICA

Biografia di un continente

Mondadori – 2022

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STORIA DELL’AFRICA

LA FASE

DEI GRANDI IMPERI

MALI, GUINEA, NUBIA …

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INTRODUZIONE

SISTEMI TRIBALI

E SISTEMI IMPERIALI

Abituati come siamo ad una cartina geografico-politica dell’Africa frazionata in diversi Stati. i cui confini sono stati stesi “a tavolino” dalla spartizione che ne hanno fatto i paesi coloniali europei, non riusciamo a immaginare altre possibilità, rispetto a quella forma di equilibrio che non prevede altre soluzioni per le attuali strutture. Eppure, prima dell’arrivo degli Europei, l’Africa presentava ben altro quadro, con la presenza di imperi, i quali avevano nomi, che oggi ritroviamo in alcuni Stati; questi, anche ad avere oggi istituzioni diverse, si richiamano alle realtà del passato. La storia di questo continente, per quanto privo della documentazione classica, fatta di fonti scritte, ha sviluppato un patrimonio orale, perché, a viva voce, nei secoli si sono tramandati racconti che ci possono apparire non molto diversi da certi racconti di natura mitologica, che pur fanno la loro comparsa nella nostra tradizione. Quando lo storico Tito Livio affronta nella sua opera “Ab urbe condita” quella parte di storia romana, che vede protagonisti i re, stilati dalla tradizione in numero di sette e ciascuno regnante per la media numerica fissa di 35 anni, costui ovviamente si rifà alla tradizione orale, fornendo racconti dal forte sapore mitico e scrivendo ripetutamente che di costoro è possibile raccontare con le formule solite del “si dice, si racconta, si tramanda, ecc.”. Con queste espressioni che introducono i racconti, per nulla documentati e desunti da ciò che gli anziani raccontavano a viva voce, lo storico patavino lascia intendere che lì la storia viene fatta con la tradizione orale. Lo stesso fenomeno è riscontrabile nei racconti delle terre africane: qui prevalgono i miti con personaggi le cui vicende vengono “affabulate”, e quindi, di volta in volta, caricate di elementi che ingigantiscono e creano attorno un atmosfera da racconto leggendario. Ciò che colpisce poi in questi racconti è il fatto che essi, anche a parlare di luoghi ben precisi, non ci offrono solo storie locali, o comunque limitate ad una etnia, ma coinvolgono etnie ed aree geografiche a più ampio raggio, facendo pensare a un mondo effettivamente molto più allargato. Ecco perché si tende a parlare di “imperi”, entro i quali possiamo trovare popolazioni di tribù diverse, le quali si trovano associate in una sorta di confederazione o per una conquista di tipo economico e soprattutto militare.

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Spesso poi il collante diventava di natura religiosa, in modo particolare quando soprattutto nella regione sahariana si diffonde la religione musulmana che integra, senza mai del tutto sconfessare quelle forme animistiche, presenti anche in Arabia, quando Maometto cerca di comporre in unità le tribù di beduini sparsi nel deserto, volgendoli a credere in un unico Dio. Non è da meno quello che succede nell’Africa sahariana molto affine alla regione arabica. Mentre le tribù arabiche si muovono oltre la terra d’origine, portando con sé la nuova religione, perché altre popolazioni affini, si convertano, superando la complessità delle dottrine cristiane, che invece conducono allo scontro e alla divisione, le tribù africane non si rivelano con questo spirito di proselitismo, ma nello stesso tempo usano la religione per creare nel convincimento una base comune.

Naturalmente non si parlerà di tutti i regni e gli imperi che si sono succeduti nella storia africana, perché sarebbe un’impresa troppo lunga e complessa, ma solo di alcuni di essi, che si sono susseguiti in tre aree molto importanti e significative, cioè il Sudan Occidentale, l’Etiopia e l’Africa Australe. Si tratta in pratica di poco più che esempi, perché tanti altri sono gli stati di cui si dovrebbe parlare, basti pensare al regno di Kanem Bornu, al Benin, al Dahomey, al Kongo, al regno degli Ashanti, solo per nominarne qualcuno. Si intenderà per “regno” uno stato indipendente, con un monarca riconosciuto da tutti i cittadini, con leggi accettate dalla maggior parte di essi, un’organizzazione amministrativa e giudiziaria, anche decentrata, un esercito, un territorio riconosciuto dagli stati intorno, anche se non sempre erano presenti regolari confini, così come noi li intendiamo oggi. L’unità era garantita, nella maggior parte dei casi, anche da una religione, una lingua e una cultura comuni. In pratica ciò che, parlando degli stati europei, chiamiamo “stato nazionale”, mentre chissà perché, quando si parla dell’Africa Nera al termine “nazione” viene sostituito quello di “etnia”. Per “impero” di intenderà invece un concetto leggermente diverso: uno stato più vasto di un regno, che incorporava più etnie, talvolta erano presenti diverse religioni, e l’organizzazione politico-amministrativa era presente, ma nelle periferie non veniva eccessivamente rispettata, e spesso le comunità più periferiche si limitavano a pagare un tributo annuale all’imperatore. Inoltre, in genere il re sapeva che oltre i territori da lui controllati c’era un altro regno, e un altro re, e si regolava di conseguenza. Invece, l’imperatore non riconosceva nessuna entità statale pari al suo impero. Chi voleva trattare con lui doveva comunque portare dei doni, o prostrarsi, ma il suo primato, magari solo simbolico, doveva essere sempre riconosciuto. L’imperatore aveva sempre un’origine leggendaria e divina. Questo stesso concetto si ritrova nella storia romana e nella storia cinese. (Paderi, p. 7)

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Sulla base di queste sommarie indicazioni, dobbiamo riconoscere che nell’area sahariana, con la presenza di un deserto che si amplia in continuazione, la vita umana appare sempre precaria e perciò anche l’organizzazione in società e in strutture statuali risulta quanto mai difficile ma non impossibile. Gli spazi che vedono la presenza più numerosa di popolazione sono evidentemente quelli percorsi da fiumi, o corsi d’acqua. Nell’area che viene considerata nella storia come “Sudan”, ben oltre il Paese che ancora oggi porta questo nome e che diventa di fatto l’area più meridionale del Sahara, dove ci sono corsi d’acqua, come, ad esempio, il fiume Niger, si concentra la popolazione che ha sfidato l’ambiente ed ha comunque sviluppato una storia notevole, che ha nel centro di Timbuctù, l’espressione migliore di una cultura riconosciuta di grande valore. Nell’area si è sviluppato un impero, quello del Mali, che insieme con quello del Ghana sot-tostante e con quello della Nubia, a sud dell’Egitto, dove oggi si trova il Sudan, costituisce qualcosa di unico non solo per l’Africa. Queste costruzioni che si sono prodotte e conservate per alcuni secoli, prima dell’arrivo degli Europei con la loro colonizzazione, sono esperienze da conoscere, perché anche qui si è prodotta una storia africana, che, in gran parte nell’area sahariana, si è accompagnata alla presenza della cultura araba, la quale viene assorbita in modo particolare nella sua espressione religiosa musulmana.

La storia di questa parte dell’Africa è documentabile, oltre che attraverso testimonianze archeologiche, mediante un ricchissimi patrimonio di fonti scritte in lingua araba che coprono il periodo fra il secolo X e il XVI dell’era volgare e sono opera di viaggiatori e dotti musulmani sovente assai noti … Il processo di formazione dello Stato in queste aree è strettamente connesso allo sviluppo del commercio transahariano (oro dal meridione in cambio di sale, rame, manufatti dal nord) e al controllo acquisito dai gruppi dirigenti locali sui tratti intermedi e terminali delle vie carovaniere provenienti dall’Africa mediterranea. L’archeologia ha evidenziato che forme di organizzazione sociale definibili come di “Stato incipiente” sono già identificabili fra l’800 e il 600 a.C. nell’area di Tichitt, nell’odierna Mauritania. La statualità compare forse nel I secolo d.C. nella regione del Tekrur, sul Senegal (fiume). Ma il Ghana è il primo in ordine cronologico dei regni sudanesi di cui si hanno notizie certe. (Novati – Valsecchi, p. 57)

I regni e gli imperi che si sono sviluppati in questa area dell’Africa hanno avuto un notevole sviluppo, nonostante che la scoperta dell’oro e la sua notevole produzione, a partire dal XVI secolo abbiano suscitato gli appetiti di numerosi Paesi europei, che hanno cercato di aprire punti di approdo, secondo lo schema operativo dei Portoghesi.

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Costoro già nel circumnavigare l’Africa stabilivano porti commerciali di facile accesso e soprattutto di buona recettività. La parte interna invece non veniva mai penetrata: mancavano i mezzi e soprattutto si considerava pericolosa anche per la facilità a contrarre malattie tropicali. La presenza di Europei nel corso dei secoli, prima che l’Africa diventi terra di conquista nel XIX secolo, non impedisce agli Imperi, che si sono sviluppati con la presenza araba, di pro-seguire il proprio cammino.

IL GOLFO DI GUINEA

Mentre dalla Spagna si andava verso ovest alla ricerca dell’India, finendo per “scoprire” l’America, nel tratto di mare sull’Atlantico, dove attracca-vano le navi europee, che, navigando attorno alle coste cercavano di puntare ad est, si affacciano oggi tre Stati che portano il nome di Guinea, e che erano, la prima, colonia portoghese, la seconda, colonia francese, la terza, sotto il Cameroun, colonia spagnola. L’intera fascia costiera oggi si presenta ricca di giacimenti petroliferi; e nel passato offriva lo spettacolo della tratta degli schiavi, insieme con altri prodotti locali e in modo particolare l’oro, che si trovava abbondante nel territorio definito in età coloniale, come “Costa d’Oro”. Oggi ha ripreso il nome di Ghana, uno degli imperi africani che si sono sviluppati in questa area geografica al confine sud del Sahara.

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IL GHANA

Probabilmente per la riserva aurifera che possedeva il Ghana ha solleticato gli appetiti europei. Ma questo Paese esisteva anche prima che si affacciassero gli Europei, e tra gli Imperi africani, che si sono sviluppati in questa area geografica, oggi definita Africa occidentale, godeva già di un certo rispetto e anche di una impostazione che lo rendeva un Paese solido, ma più ancora potente.

Ancora una volta è un Arabo che ci parla per la prima volta del regno del Ghana: si tratta di al-Fazari, uno scrittore dell’ottavo secolo. Ma sono molti i viaggiatori arabi che ci parlano di questo regno. (…) Ne parlano come di un regno particolarmente potente. L’altra fonte principale per lo studio del Ghana è la tradizione orale. Il regno era situato a nord delle due anse divergenti dei fiumi Senegal e Niger. Le popolazioni erano molte, probabilmente c’erano stati anche popoli di origine maghrebina che si erano mescolati con i neri. I gruppi principali erano i Bambarà, i Sanhadja, gli Wolof, i Songhai e i Soninke. L’economia del regno era probabilmente anche agricola, perché le ragioni del Sahel sudanese beneficiava allora di un clima umido che favoriva l’agricoltura e la pastorizia. Ma l’economia era soprattutto commerciale: il regno sfruttava la posizione tra la zona maghrebina e la zona sudanese.

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Una delle principali attività del regno era la raccolta di oro tra le popolazioni situate più a sud e lo scambio dell’oro con il sale del Sahara e con manufatti dell’Africa del nord portati dai Tuareg. (…) L’oro fu alla base della ricchezza dei regni che si succedettero nella regione, ma essi non avevano il controllo delle miniere d’oro di Wangara: la loro fonte di guadagno fu il controllo del commercio transahariano e le tasse che essi facevano pagare ai commercianti per poter passare nelle strade commerciali.

(Paderi, p. 43-44)

Per il solo fatto che qui “si navighi nell’oro”, c’è da supporre, anche senza particolari documenti scritti al riguardo, che tali paesi, per noi identificati con il Ghana e tutti i territori rivieraschi del golfo di Guinea, costituiscono una vera potenza, certamente nell’ambito commerciale. I primi ad approfittare sono i musulmani, soprattutto coloro che provengono dall’attuale Maghreb. E lì poi essi rafforzano anche il traffico più vantaggioso, cioè quello degli schiavi. Ovviamente, già praticato dai mercanti arabi, il fenomeno cresce con la “scoperta” dell’America e soprattutto la scoperta del fabbisogno di mano d’opera per lavori che nessuno faceva e che fornivano materiali a prezzi più bassi sul mercato. Nonostante la proclamazione di principi umanitari, il fenomeno ingigantisce senza scrupolo alcuno, a partire da queste aree geografiche che mettevano in rapporto diretto con la costa atlantica dell’America dove le navi negriere si dirigevano. Indubbiamente questo è un capitolo doloroso della storia africana. Su questo argomento è opportuno far chiarezza. Ma nel contempo è pure necessario scoprire quanto gli Africani di questa regione hanno prodotto per l’Africa nel suo insieme, contribuendo a dare una immagine ben diversa da quella che noi pensiamo di avere di loro, ignorando totalmente questo capitolo, come se essi non avessero contribuito a nulla nel percorso della storia umana. La storia degli imperi è poco conosciuta, anche agli Africani stessi, che pur sviluppano miti come se ne trovano nella nostra civiltà: lì hanno il sopravvento i valori umanistici che ritroviamo qui con figure di notevole spessore e vicende che avvicinano questi Africani a noi, se sono essi pure segnati dall’umanesimo che li qualifica. Anche i loro miti devono essere conosciuti e messi a confronto con i nostri …

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L’IMPERO DEL MALI

Oggi il Mali, che si presenta esteso in due parti a forma triangolare, una verso il nord dentro il cuore del Sahara e abitato da Tuareg, e una, che, dopo la stretta di Moptì, si dilata a sud nella savana, abitata da popolazione di pelle nera, è un Paese lacerato e sull’orlo della dissoluzione. Nel Millennio precedente era invece il cuore di un impero molto più esteso, che comprendeva due fiumi, il Senegal e il corso centrale del Niger, e le popolazioni che vivevano lungo i fiumi. Anche a non avere l’attrattiva della ricchezza rinvenuta in Ghana, cioè l’oro, il Mali custodisce una storia, che di fatto ha le sue radici avvolte nella leggenda con una configurazione che lo fa essere il centro di una cultura di tutto rispetto. La sua storia esce allo scoperto con l’influenza mussulmana, quando in un periodo di siccità, come spesso succede nei Paesi africani e soprattutto nell’area desertica, interviene un “marabutto”, cioè un santone del mondo islamico, a garantire la pioggia come dono dall’alto.

Da molto tempo era ormai in corso un processo di integrazione politica: già nell’XI secolo al-Bakri accenna alla conversione all’islamismo del re del “Mallel”, forse lo stesso Baramanda che Ibn Khaldun cita come il primo a essersi convertito grazie al padre di Abu Bakr (1030)

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Esasperato per il lungo periodo di siccità e l’insuccesso degli olocausti di buoi che rischiavano di privare la regione di tutto il bestiame, questo sovrano finì per rivolgersi a un marabutto lamtuna estremamente devoto, il quale, dopo averne ottenuto la conversione, lo condusse su una collina dove trascorsero la notte a pregare “affinché la volontà di Dio sia fatta”; il re si limitava a ripetere: “Amin”, “Amin” a ogni invocazione del sant’uomo. Era di venerdì: all’alba del giorno successivo una pioggia abbondante cadde su tutta la regione e il sovrano fece distruggere gli idoli animisti. Questa conversione probabilmente attirò verso il sud i commercianti e i letterati arabo-berberi. (Ki-Zerbo, p. 159-160)

Successivamente si registra una lotta epica per il potere, da cui emerge la figura mitica e nel contempo storica di colui che è il personaggio più famoso nella storia del Malì.

SUN DYATA (1217c-1255c)

Fino a metà del XII secolo non ci è dato di conoscere l’evoluzione del regno. (…) Sogolon Konte … questa donna malata diede alla luce un figlio, anch’egli infermo, che si trascinò a quattro gambe fino all’età di sette anni: il suo nome è Sun Dyata o Mari Jata, che significa “il leone del Mali”. (Ki-Zerbo, p. 160)

Inizia così la storia-leggenda di questa figura che dalle sue origini deboli e precarie è destinato a divenire il leader di quella regione, ma soprattutto il mito su cui viene costruito il Malì e la sua storia millenaria. Come succede anche in altri Paesi e in altre civiltà, vengono costruite figure particolari, che anche ad appartenere alla storia, perché effettivamente vissute e di cui si possono avere documenti, appaiono nelle fonti storiche aureolate con la prospettiva di risultare figure di riferimento per un popolo intero con vicende che lo fanno divenire un eroe, un mito che permane anche oltre il suo segmento di vita.

Secondo la tradizione, alla fine, dopo un prolungato periodo dei guerra, i Keita portarono sul trono un re, Sundjata, che rovesciò Sumanguru e procedette alla presa della capitale del Ghana, ponendo così le fondamenta del nuovo impero del Malì. Sundjata, che si ritiene abbia regnato tra il 1230 e il 1255 circa, è un archetipo dei re sudanici di quel periodo. Da un lato è il grande eroe, protagonista delle leggende mandé, e fra l’altro molti dei suoi successi sono attribuiti alla sua padronanza della magia.

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D’altro lato a Sundjata viene anche attribuita un’origine musulmana. In effetti è ragionevole supporre che i Keita, in quanto mercanti si fossero convertiti all’Islam, e comunque l’immediato successore di Sundjata, suo figlio Uli (1255-1270), fu il primo dei molti Mansa (titolo dato ai sovrani, equivalente a imperatore, re) del Malì che gli succedettero a fare il pellegrinaggio alla Mecca.

(Fage, p. 94-95)

Questo personaggio è alla base della fortuna dell’impero del Malì e tutti gli storici dell’Africa lo rivelano come una figura centrale, una sorta di “padre della patria”, che rimane imperituro nella memoria non solo del Malì, assurgendo ad una fisionomia mitica, per quanto egli sia un personaggio di sicura autenticità storica. Il contesto in cui vive è caratterizzato dalla violenza, sia perché sono in corso le guerre destinate ad allargare l’influenza del Malì attorno, sia perché il potere assoluto del sovrano è minato dalla presenza di concubine e di numerosi figli, che fanno vivere la famiglia allargata nel sospetto e nella rivalità dei suoi membri. Emerge colui che appare più debole, anche fisicamente, ma che ha il coraggio di imporsi e di costruire un sistema di governo destinato a durare nel tempo.

Arciere del Mali al tempo di Sun Dyata

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In ogni caso fu proprio questa sua infermità che consentì al figlio di sfuggire al massacro degli altri undici principi che dopo la conquista del Manding Sumanguru fece morire senza pietà. Un giorno però, stanco delle bravate del signore del Soso, come spronato dalle misere condizioni della patria calpestata Sun Dyata decise di alzarsi in piedi e prestarle aiuto: secondo la leggenda egli chiese una sbarra di ferro per alzarsi sulle gambe, ma questa si piegò in due sotto il suo peso fin quasi a spezzarsi, e altre due più robuste fecero la stessa fine. Allora qualcuno esclamò: “Dategli lo scettro di suo padre, in modo che possa rialzarsi appoggiandovisi sopra”. E facendo leva sull’insegna reale Sun Dyata si mise finalmente in piedi. Fu l’inizio di un’augusta storia. (…) Intanto le usurpazioni di Sumanguru continuavano. Il consiglio degli anziani finì per inviare una delegazione a Sun Dyata per chiedergli aiuto, e questi molto prontamente radunò un esercito … , per poi trovarsi nel 1234 a capo di una vasta confederazione di popoli uniti a un giuramento che traduceva una violenta volontà liberatrice; la prova di forza con il monarca del Soso non poteva più tardare, ma questa dapprima si risolse in una serie di sconfitte cocenti. Allora intervenne un episodio di preparazione magica e diplomatica. Magia dell’amore, intanto. La sorella di Sun Dyata … fu offerta in moglie da Bela Faseke a Sua Maestà in segno di fedeltà … La notte delle nozze “egli pose la mano su di lei”, ottenendo però un rifiuto che sarebbe durato finché la sposa non fosse stata edotta di tutti i segreti del suo beneamato; dopo qualche giorno di esitazione, con l’aiuto dell’idromele (poiché il Soso è animista) e malgrado le solenni insistenze della madre, Sumaguru finì per svelare il segreto: poteva essere ucciso soltanto per uno sperone di gallo bianco. (…) Fu in queste circostanze che si svolse la battaglia di Kirina, tra Bamako e Kangaba, sulla riva sinistra del Niger. (…) Nella mischia furiosa che ne seguì fu scoccato lo strale fatale contro Sumanguru, le cui truppe si sbandarono davanti al nemico, ma sul campo di battaglia il cadavere di Kante non fu trovato, probabilmente perché rimosso dai suoi, o forse semplicemente perché era fuggito alla vista di un tale disastro. Di qui la leggenda della magica scomparsa del sovrano: si sarebbe trasformato in turbine.

(Ki-Zerbo, p. 160-162)

Con l’avvento al potere di questa figura destinata ad una fama che travalica i tempi, si fa strada questo impero africano che ha fatto indubbiamente la storia non solo per questo territorio, ma anche per l’Africa che annovera tra i suoi personaggi più importanti Sun Dyata e fra i suoi Paesi più significativi, proprio il Mali, oggi confinato e destinato a non contare affatto.

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Anche ad aver avuto il potere per 25 anni, la struttura messa in piedi sopravvisse a lui, grazie alla forza dell’esercito che gli era fedele, ma grazie anche ad una struttura economica che portò benefici duraturi alla gente locale e soprattutto ad una organizzazione di carattere sociale, che favoriva il sistema tradizionale, e nello stesso tempo la collaborazione tra le diverse etnie. Per questo motivo il Malì era diventato un impero, e poteva essere un esempio di governo anche per altre parti. Di fatto, pur esteso, non andò oltre il medio corso del Niger.

Sun Dyata aveva fissato i diritti e i doveri di ogni etnia associata al regno; furono formati trenta clan, cinque di artigiani, quattro di guerrieri, cinque di marabutti e sedici di uomini liberi chiamati però “gli schiavi della collettività” ton dyon. Erano dei contadini-soldati che in caso di guerra formavano la decima umana di fanti. Le conquiste fecero proliferare rapidamente la categoria degli schiavi, la maggior parte dei quali lavorava come servi della gleba, artigiani o contadini per il sovrano. Essi erano altresì legati all’endogamia e soltanto il re poteva concedere loro l’autorizzazione di contrarre matrimonio al di fuori della casta, affinché i figli nati dall’unione rimanessero servitori del suo dominio. Sun Dyata fu un grand’uomo nel senso più complesso del termine, portatore di un destino collettivo, ma capace di reazioni e debolezze talvolta eccezionali. Un giorno, durante la sua assenza la consorte preferita, Diurundi, venne molestata da un fratello di Su Dyata; questi, come spinto da un richiamo interiore, fermò immediatamente tutto l’esercito. “Ritorniamo – disse – perché sento le grida di dolore di Diurundi”. Questo episodio è l’oggetto di una strofa, tra il satirico e il romantico, cantata dagli stregoni. Forse è proprio in questa grandezza mista a umanità il segreto del ricordo imperituro di Sun Dyata nell’animo degli abitanti del Mali.

(Ki-Zerbo, p. 163-164)

Bisogna riconoscere che anche nella storia da noi genericamente definita africana si fa strada un singolo eroe che assurge a mito, ma soprattutto diventa la fisionomia con la quale ci si può confrontare, se chiamati a fare ciascuno la propria parte in favore della comunità, visto che ancora non esiste un concetto di Stato paragonabile a ciò che possiamo trovare in Europa. Anche qui si deve riconoscere che la storia non è solo un susseguirsi di episodi o di avvenimenti, ma è riconoscibile nella presenza di una figura umana che si può immaginare come una sorta di “salvatore” a cui ci si affida per un cammino positivo.

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MANSA MUSA (1280-1337)

MANSA MUSA I

raffigurato su un Atlante catalano

L’impero messo in piedi dal primo “mansa” (= imperatore) era evidentemente costruito bene e ben organizzato, se riesce a durare oltre quattro secoli; e soprattutto la sua notorietà uscì dai propri confini, divenendo famoso in modo particolare nel mondo arabo e nel contempo anche dentro il mondo europeo. Non sempre i sovrani erano all’altezza del loro compito, ma la costruzione messa in campo e soprattutto l’influenza religiosa di un Islam, per nulla fanatico, riuscirono a conservare l’unità dell’Impero e nello stesso tempo un certo sviluppo, per il quale la riserva aurifera giocava un ruolo decisivo. Il Mali sembrava diventare una specie di Eldorado, anche se forse la sua stessa collocazione geografica nel cuore del deserto impedì una presenza rovinosa dall’esterno. E tuttavia si sapeva delle sue enormi riserve di oro, a partire dal pellegrinaggio di Mansa Musa verso i luoghi santi dell’Islam, dove egli portò ed ostentò le sue ricchezze. Si ha un racconto particolareggiato di questo suo viaggio che ha contribuito a dare fama all’Impero del Mali, anche se il suo protagonista non riuscì mai in quelle terre ad oscurare la fama di Sun Dyata.

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In mezzo deve essere ricordato il nipote di quest’ultimo, vissuto all’inizio del XIV secolo: viene celebrato come l’esploratore delle coste atlantiche dell’Africa, in quel “folle volo”, di cui Dante parla nel suo poema con la figura di Ulisse, fatto scomparire in un viaggio senza ritorno. Analoga-mente avvenne per la spedizione inviata da Abu Bakr II (1310-1312).

Il suo successore, per la tradizione del Malì molto meno noto di Sun Dyata, è per il mondo di allora incontestabilmente l’imperatore più celebre di quello stato: si tratta del mansa Musa o Kanku Musa (Kanku era il nome della madre) che regnò dal 1312 al 1332. Nel 1324 egli effettuò il pellegrinaggio alla Mecca con l’evidente intenzione di imporsi ai sovrani arabi. Accompagnato da migliaia di servitori (60.000 riferisce Tarikù as-Sudan), mansa Musa attraversò il deserto di Walata e il Tuat comparendo al Cairo come un signore dell’Eldo-rado agli occhi stupefatti di tutti. I suoi uomini trasportavano due tonnellate circa di oro in lingotti e in polvere. Al-Omari precisa: “(…) Quest’uomo ha riversato sul Cairo i torrenti della sua generosità. Non vi è stato alcuno, né funzionario di corte né titolare di una carica sultanica qualsiasi, che da lui non abbia ricevuto una somma in oro. Che nobile portamento aveva questo sultano, quale dignità e quale lealtà!”. La dignità di mansa Musa suscitò molta impressione. (…) Musulmano fervente, il mansa rilanciò l’espansione dell’islamismo, un islamismo che peraltro si adattava alle pratiche animiste e alla ricerche magiche raccolte nei paesi arabi dall’imperatore e dalla sua corte; inoltre la maggior parte dei contadini continuava ad essere animista, fatto che il mansa tollerava con la riserva dell’obbedienza e del tributo. A Timbuctu egli fece costruire la grande moschea di Ginger-ber e una residenza o madugu, vasta sala quadrata sormontata da una terrazza coperta a cupola con pareti intonacate a stucco e ornate di arabeschi sfarzosi. Con il suo regno Kanku Musa segnò l’apogeo del Malì. (…) Mansa Musa aveva fatto conoscere il nome del Malì in tutto il mondo arabo … I successori di Kanku Musa dovettero faticare non poco a mantenere tanto a lungo un impero così vasto.

(Ki-Zerbo, p. 165-166)

Anche a risultare legato al mondo islamico, come appare al tempo di questo imperatore, ricchissimo e divenuto famoso presso gli arabi, bisogna riconoscere che l’Impero del Mali appartiene a quel mondo confinante tra i tuaregh e le popolazioni negroidi che stanno attorno al Niger. Di fatto sono loro a imporre un sistema di vita e una cultura che arriva fino a noi e che rappresenta un’espressione molto alta, in grado di offrire una immagine di notevole valore e di grande interesse per la storia dell’Africa, che si continua a ignorare o a non voler valorizzare come merita.

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Quanto si trova ancora a Timbuctu, nel cuore del Mali, nonostante le devastazioni degli integralisti islamici in quest’ultimo decennio, testimonia la profonda cultura e religiosità presente in quest’area geografica, pur sempre autonoma rispetto al mondo arabo.

TIMBUCTU: Moschea di Ginger-ber

Il giudizio storico che si può dare a questo impero è indubbiamente positivo sia perché si è conservato a lungo senza particolari scossoni interni ed esterni, sia perché si è sviluppata una cultura notevole, sia perché la struttura sociale e politica si è rivelata come qualcosa di radicato nel territorio e soprattutto nella gente: essa qui ha conosciuto un cammino di autentico progresso, anche con tutti i limiti che potevano venire da una situazione geografica non facile.

È probabile che uno dei segreti del successo del Mali sia consistito nell’aver messo a punto un sistema politico così elastico, l’unico logico in un grande paese privo di una burocrazia generalizzata.si trattava di una specie di indirect rule sulle province periferiche. A questo occorre aggiungere la tolleranza religiosa, poiché il proselitismo veniva esercitato unicamente mediante l’infiltrazione pacifica dei mercanti mande: nessun sovrano del Mali ha mai promosso una guerra santa. (…)

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Il Mali aveva raggiunto un livello di civiltà in cui la grandezza è abbastanza forte da dominare la violenza e l’ingiustizia. È contro l’abuso di potere che gli stregoni buffoni, come li presenta Ibn Battuta, si piantavano davanti al sovrano, gli ricordavano le benemerenze dei suoi antenati e concludevano: “Fa’ anche tu del bene, che sarà ricordato dopo la tua morte”. Ma le ambizioni personali e forse anche il lento slittamento da occidente a oriente delle rotte commerciali (il traffico era in continuo aumento su quella transcontinentale verso l’Egitto attraverso Agades, il Ghat e il Fezzan), senza contare l’incertezza della regola di successione (che era tanto matrilinea quanto patrilinea), dovevano dare sempre maggiori fortune al regno di Gao.

(Ki-Zerbo, p. 174-175)

LA NUBIA

Per tanti versi questa particolare regione africana non risulta, non compare neppure nelle carte geografiche, come se non esistesse. In generale viene definita una regione “storica”, come se così venisse indicata nel passato, ma poi quel particolare nome si è eclissato e addirittura sembra che non ce ne sia traccia e non si identifichi di fatto oggi con uno Stato. Eppure questo nome ha avuto un certo sviluppo nella storia, indicando quella fascia di terra che divide e unisce sul corso del Nilo chi appartiene ai “camiti” egiziani, di pelle bianca e i “camiti” nilotici di pelle più scura vicini agli eritrei e agli etiopi. Ovviamente chi ci viveva e chi aveva sviluppato ai confini regni o imperi potenti, rivendicava una sua identità, anche se non sempre riusciva a conservare l’indipendenza. Anche oggi questa regione “storica” non esiste ed è occupata nella parte nord dal sud dell’Egitto e nella parte meridionale dal nord del Sudan. Già il nome di questo Stato, da cui si è staccato il Sud Sudan, in gran parte abitato da popolazioni negroidi, non vuole indicare tanto il fatto che si sia a sud dell’Egitto, da cui ha sempre condiviso la storia, ma dal fatto che in questo Paese la popolazione è più di pelle nera. E allora si comprende perché anche il nuovo e ultimo Stato sorto in Africa continui a portare questo nome, rivendicando la sua appartenenza al mondo dei neri. In questa fascia di terra comunque, a cerniera con i due mondi, si è sviluppato un rapporto con il mondo egiziano che ne rivela la dipendenza e nel contempo il desiderio di marcarne la differenza e, se possibile, l’indipendenza: per questo è esistito anche il “regno della Nubia”, che aveva spazio nei periodi di debolezza del regno egiziano.

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Ma ne risultava di fatto dipendente, così come l’Egitto doveva conservare una certa superiorità per avere sotto controllo il corso delle acque del Nilo, da cui dipendeva la sua sopravvivenza. Ovviamente quando arriva Roma, e il territorio egiziano diventa addirittura proprietà personale di Augusto, anche la Nubia entra in quell’orbita, e nei secoli del radicamento del Cristianesimo, pure queste aree geografiche appaiono influenzate dall’ortodossia che fa capo religiosamente ad Alessandria d’Egitto. Anche se qui non si sviluppa propriamente un impero “africano”, di fatto ciò che viene elaborato in quest’area serve a rivelare che anche presso questa gente c’è l’anelito all’autodeterminazione.

LA NUBIA

e le cateratte sul Nilo

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La valle del Nilo, a sud della prima cateratta e in particolare la Nubia, regione storica attualmente compresa fra il meridione dell’Egitto e il Sudan centro settentrionale, è un’area di produzione aurifera e ferrosa e teatro di espansione culturale e politica egiziana sicuramente già venti secoli prima di Cristo. Questa regione fu sede di un incontro fra civiltà della bassa valle del Nilo ed elementi locali che generò la cultura di Kush. Il regno di Kush, con centro nella città di Napata, si affermò a partire dall’XI secolo a.C. acquisendo il controllo sull’alto Egitto e su Tebe. (…) La civiltà cristiano-cuscitica della Nubia in stretto contatto con quella etiopica, sopravvive, nel regno di Dongola, fino al XIV secolo, cedendo progressivamente all’islamizzazione e all’arabizzazione dopo la sconfitta, nel 1315, del re cristiano Kerembes ad opera degli Arabi d’Egitto. Ancora oggi sono presenti in Nubia popolazioni di lingua cuscitica, come i nomadi beja, islamizzati, mentre parte del gruppo di lingua nubiana, i nuba, conserva nelle aree collinari cultura e religione specifiche, resistendo all’islamizzazione e arabizzazione. A meridione, nell’odierno Darfur sudanese, già prima della metà del XII secolo è presente uno Stato, il Daju.

(Novati – Valsecchi, p. 60)

C’è da rilevare in questa area che l’impiantarsi del cristianesimo prima dell’arrivo dell’Islam, ha dato vita a gruppi di natura etnica, linguistica e religiosa, con una fede che spinge a conservare la propria identità: il fatto poi che questi cristiani sono restii ad accettare alcuni concili li rende ancora più chiusi e irriducibili, conservando la fede nestoriana che ancora da qualcuno si professa. Ma al di là delle differenze religiose, va rilevato che in questa area geografica dove si mescolano bianchi e neri, si verifica la convivenza di popolazioni diverse, che si sentono insieme appartenenti a giusto titolo al continente africano.

CONCLUSIONE

Nella polemica mai sopita circa l’appartenenza di questa gente alla “storia” umana, anche se non si registrano documenti scritti, pur in presenza di corpose tradizioni orali, solitamente da noi si ignora questa realtà: soprattutto popolazioni che hanno sviluppato una storia, ricca e vivace, e insieme una struttura politica che li fa essere degni di stare alla pari con altre realtà che noi conosciamo della nostra storia europea. E anche le figure, che si sono succedute alla guida di questi popoli, possono emergere con altri grandi della storia umana, coevi e non. Va pure rilevato che la cultura ha prodotto testi e opere artistiche ed architettoniche, oggi riconosciute come patrimonio dell’umanità, da conservare e da conoscere anche oltre i limiti territoriali, di cui sono espressione.

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Insomma, anche questo mondo merita di uscire allo scoperto e di far parte integrante della storia dell’umanità, perché quanto qui si è prodotto ne costituisce la ricchezza. Affiora purtroppo ancora tanta sufficienza che relega queste popolazioni, i loro leader e le opere messe in campo, su un piano talmente subordinato da impedirne la conoscenza e il riconoscimento del loro valore. Eppure qui si è realizzato qualcosa che potrebbe servire anche a noi. In un mondo che appare in gran parte invivibile o comunque povero di risorse che appaiono assolutamente indispensabili, abbiamo rilevato che la gente sviluppa una convivenza tra etnie diverse e religioni molto differenti, che altrove sono in lotta fra loro. E qui si sviluppano “imperi”, cioè forme di governo e di convivenza che di fatto garantiscono il vivere a tutti e portano il Paese ad un progresso civile ed economico non indifferente. Da noi gli Imperi si reggono su forme autoritarie, sugli eserciti, sulla dominazione ferrea fra popolazione diversa; qui invece lo Stato e la società civile se ne avvantaggiano, rilevando che è necessario riflettere sulle modalità con cui si intendono e si gestiscono le redini del potere. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica; e tuttavia, se in Europa nazionalismi e imperialismi sono stati deleteri alla sua crescita e hanno prodotto, soprattutto nel secolo scorso, guerre e distruzioni inimmaginabili in precedenza, qui si sono dimostrati positivi per una gestione migliore dei fenomeni. Non è possibile che il sistema qui attuato possa risultare utile e produttivo altrove, e nello stesso tempo simili esperienze vanno meglio conosciute, perché fanno parte delle ricerche per un vivere più umano. Così si possono riscontrare forme di convivenza e più ancora forme di governo, la cui conoscenza può servire ad un’esistenza migliore. Stupisce anche che un luogo domina-to per secoli da una religione nota e conclamata come rigida e nient’affatto aperta al dialogo, proprio qui si è svelata diversamente, anche perché i lo-cali, pur vivendone i principi essenziali, lasciano spazio anche alle tradi-zioni precedenti la venuta dell’Islam. Tutto questo può evitare gli scontri di natura religiosa che si trasformano poi in guerra civile, con strascichi insuperabili che impediscono la convivenza fra etnie diverse. Se oggi la scena appare dominata dall’estremismo assassino e distruttore, come è avvenuto nel nord del Malì e in particolare a Timbuctù, questo fenomeno è estraneo alla gente locale, per nulla attirata da fenomeni prevaricatori e da violenze ingiustificate. Occorre un sostegno più concreto, anche a partire da una conoscenza meno preconcetta e più rispettosa della millenaria storia che qui si è prodotta e che ha privilegiato il rispetto degli altri.

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È necessario aprire spiragli per il ritorno ad un rapporto più cordiale e costruttivo, che passa dalla conoscenza della loro storia. Indubbiamente la storia africana, quella che si è sviluppata anche senza la presenza dell’europeo e quindi con il contributo della gente locale che si rende responsabile del proprio vivere, è degna di ricerca, di studio, di sviluppi che possono essere utili per tutti, mentre l’omologazione al sistema nostro, ritenuto superiore e imposto dall’esterno, ha già rivelato di essere fallimentare.

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Gian Paolo Calchi Novati – Pierluigi Valsecchi

AFRICA: LA STORIA RITROVATA

Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali

Carocci Editore, 2021

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Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali

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