Africa: Le grandi esplorazioni

Il continente africano rispetto al nuovo mondo (America) e al nuovissimo mondo (Australia) era considerato già “scoperto”: nell’antichità e fino alla dominazione romana il territorio prospiciente il Mediterraneo era denominato “Africa”. Attraverso il Nilo, era pure conosciuta la Nubia, che immetteva con il territorio abitato da neri. Durante il periodo delle “scoperte” nel XV e XVI secolo, soprattutto gli equipaggi portoghesi avevano costeggiato il continente sull’Atlantico e poi, doppiato il Capo di Buona Speranza, avevano risalito la costa orientale, da cui erano partiti alla volta dell’India e dell’arcipelago indonesiano fino a raggiungere la Cina (Catai) e il Giappone (Cipango). Questi insediamenti, realizzati da coloni di origine europea, non hanno di mira la conquista dell’entroterra, ma solo il commercio, ma diventano dei mercati di transito delle merci. L’esplorazione all’interno è di fatto molto casuale ed ha sempre come obiettivo il controllo dei traffici, più che non l’acquisizione di terreni o di territori. L’incontro con la gente del posto non va oltre le popolazioni rivierasche e le autorità locali, se queste hanno collocato il loro centro di potere sull’Oceano. È il caso del Congo, laddove sul fiume omonimo, si creano centri di mercato che sfruttano anche il fiume. Qui nel secolo XVI si crea un rapporto stretto fra Portogallo e Congo, che potrebbe far pensare ad un insediamento sta-bile. Ma così non è. Anzi, è il regno locale che assume componenti che lo fanno stare, relativamente, alla pari con il mondo europeo. Ma l’esperienza di un regno “cristiano”, con relazioni diplomatiche nei confronti dello Stato pontificio dura poco.

troviamo l’importante regno del Kongo con il quale i portoghesi stabiliscono contatti a fine Quattrocento. Fondato nel XIV-XV secolo dai bakongo intorno al tratto finale del fiume Congo (nelle due odierne Repubbliche del Congo e dell’Angola), evolve come regno centralizzato sotto l’autorità di un sovrano, il mwene kongo (da cui il nome di Manicongo, con il quale i portoghesi indicano il paese), alla testa di una gerarchia di capi da lui designati. Intono al nucleo centrale, alcune province più lontane (Ngoyo, Kakongo, Loango, Ndongo, Matamba) godono di sostanziali autonomie, riconoscendo tuttavia il primato del mwene kongo, la cui capitale è Mbanzakongo, l’attuale Sao Salvador do Congo, nell’Angola settentrionale. In contatto con i portoghesi dal 1482, il mwene kongo Nzinga Kuwu (?-1506) diviene cristiano (Joao I) nel 1491 e accoglie missionari e artigiani europei.

Il figlio Afonso I) Nzinga Mbemba, 1506-1545) avvia un processo di cristianizzazione – uno dei suoi figli è consacrato vescovo in Roma – e riforma dello Stato, inficiato tuttavia dal sempre più invadente interesse portoghese per la tratta negriera e le ricchezze minerarie. La renitenza congolese ad impegnarsi nella razzia schiavistica sistematica induce i portoghesi a puntare sul vicino regno di Ndongo (Angola), che viene lentamente sottomesso a partire dal 1575. Le relazioni formalmente buone tra i portoghesi e il Kongo vengono progressivamente compromesse dalle razzie schiavistiche delle bande yaka, tuttavia i mwene kongo restano cristiani e si appellano ripetutamente alla Santa Sede, finché Antonio I (1661-1663) sceglie la guerra, ma viene sconfitto e ucciso. Il regno viene brevemente occupato dai portoghesi. (Calchi Novati, p. 131-132)

Questa situazione di sostanziale presa di distanza fra il mondo europeo e quello africano, derivava anche dal fatto che risultava difficile penetrare all’interno, sia per le condizioni proibitive del terreno, sia per le malattie che si contraevano. Il deserto, le savane sconfinate e le foreste lussureggianti costituivano un impedimento, venendo a mancare le attrezzature adatte. L’interesse per questi luoghi finora inesplorati si fa avanti nel corso dell’Ottocento, quando la perdita di alcuni territori coloniali faceva cercare spazi altrove: le famose tredici colonie avevano dato un duro colpo all’imperialismo britannico, che a sua volta aveva limitato l’espansione dei francesi sia in America sia in India, già a partire dalla guerra dei sette anni (1756-1763); si deve poi aggiungere nel secondo decennio dell’Ottocento il progressivo smantellamento del colonialismo spagnolo in America. Passata la bufera rivoluzionaria e quella napoleonica, viene ripresa la campagna coloniale, che ebbe come luogo di espansione soprattutto il mondo africano. Ad aprire la strada furono i viaggiatori avventurieri, che si prefiggevano il compito di scoprire un mondo ancora sconosciuto. Il sostegno economico finanziario veniva assicurato dalle Società geografiche …

LE SOCIETA’ GEOGRAFICHE

L’interesse per l’Africa rinasce, almeno nella fase iniziale dell’Ottocento, grazie alle Società geografiche, che in diversi Paesi europei nascono con intenti di natura culturale per uno studio sempre più scientifico della geografia, ma anche per incoraggiare i viaggi di scoperta, con la finalità di penetrare nelle terre ancora poco conosciute, mentre i viaggi per mare, in genere, non costituiscono più un serio pericolo. Anche in Italia si sviluppa questo settore della scienza, fin qui poco penetrato e di scarso interesse.

Ma da noi la Società sorge all’indomani della nascita dello Stato italiano unitario, a Firenze, nel 1867. Prima fra tutte è quella parigina (1821) a cui segue quella britannica. Sono esse a suscitare l’interesse per la scoperta del mondo, in gran parte ancora sconosciuto, creando le condizioni anche di natura economica e finanziaria, perché chi intraprende i viaggi possa trovare la giusta assistenza. Naturalmente vengono pubblicati i resoconti, che suscitano interesse e spirito di avventura. Questi viaggi richiedono finanziamenti, che vengono erogati se si può nutrire la possibilità di trarre profitto da essi. Così si favoleggia del tesoro di Salomone che sarebbe presente nel centro dell’Africa, e nello stesso tempo la scoperta di un mondo, che ci si immagina possa nascondere tesori, mette in circolazione carovane diverse da cui si spera di ottenere un vantaggio economico non ancora garantito. Questi viaggiatori avventurosi si muovono soprattutto in Africa, che solo ora viene conosciuta in tutte le sue potenzialità.

SOCIETA’ GEOGRAFICA FRANCESE

I primi a muoversi sono i Francesi che devono ricostruire il loro impero coloniale, perso nella lotta contro l’Inghilterra nel Settecento. Proprio in Africa riprende questo sogno: la vicinanza sul Mediterraneo con la sponda a sud li fa muovere verso l’Algeria, a partire dal 1830. Erano già presenti dei contrasti con l’autorità locale, che formalmente dipendeva dall’Impero ottomano, anche se questo, già indebolito, non poteva più intromettersi nelle aree periferiche. La Francia vuole avere il controllo dei suoi traffici sul Mediterraneo e con questa scusa decide di intervenire sulle città costiere a partire da Algeri. La penetrazione nell’entroterra per avere il controllo sulla guerriglia e sulle azioni terroristiche comportò una serie di interventi militari che di fatto si sono protratti fino al 1871, quando l’Impero francese di Napoleone III, già sconfitto lasciava spazio alla Terza Repubblica. Qui l’azione della Società geografica francese, invece di aprire l’attività coloniale, si affiancò ad essa, perché la penetrazione di tipo militare veniva accompagnata anche da esperti di geografia, che avrebbero dovuto far conoscere il territorio per poterlo meglio occupare e sfruttare nelle sue risorse. Va ricordata qui la figura di Charles de Foucauld (1858-1916): la sua prima esperienza in Algeria da militare (dopo la conversione vi ritornò da prete e da missionario), lo mise a contatto con questi luoghi che diventeranno inizialmente motivo di ricerca e di studio, soprattutto sul versante geografico, mentre all’inizio del secolo XX si trasformeranno in terra di missione, anche se la sua missione si caratterizza per la permanenza fra i Tuaregh con la propria testimonianza cristiana.

Oltre ai testi spirituali, sono da segnalare anche quelli dei suoi studi su queste terre e sulle popolazioni che abitano nel deserto.

La Società geografica francese si interessa anche di un progetto gestito da un solitario esploratore italiano che si prefiggeva di conoscere le sorgenti del Nilo, in un’area geografica che sembrava irraggiungibile per l’intrico forestale e per la presenza di sistemi montuosi complessi e soprattutto per l’incapacità degli Europei di far fronte alle malattie, che imperversano in quelle aree, soprattutto la malaria. L’eroe solitario italiano è un certo Giovanni Miani (1810-1872)

Si fa strada il sogno di individuare le sorgenti del grande Nilo, che nella sua idea coincidevano con la mitica regione dell’Ofir, la terra dalle immense ricchezze ricordata dalla Bibbia. Nel 1859, un modesto finanziamento del governo francese consente a Giovanni Miani di avventurarsi in una spedizione che lo conduce a Khartoum, dove giunge il 20 luglio del 1859. La città, da poco fondata dagli inglesi, sorge alla confluenza dei due rami principali del Nilo, quello Azzurro e quello Bianco. Del primo si conosce l’origine; il secondo è invece oggetto dell’interesse delle spedizioni delle potenze europee che puntano ad impossessarsi di territori che sarebbero diventati fondamentali qualora si fosse realizzato quello che poi sarà il Canale di Suez. Da Khartoum Miani riparte senza i compagni di spedizione, decisi a non seguirlo. Raggiunge Gondokoro, oltre 1500 km a sud della città, trascrivendo dettagliatamente il viaggio nel suo diario e in una mappa del territorio desti-nata alla Società Geografica Francese. Il suo viaggio tuttavia è destinato a terminare poco oltre Galuffi, non lontano dal grande lago Nianza (poi ribattezzato Victoria) senza raggiungerlo: una febbre persistente ed una piaga ad una gamba, unite alla ostilità delle popolazioni indigene, lo costringono ad abbandonare il progetto. Del suo passaggio lascia traccia sul tronco di un tamarindo. Per gli indigeni era intanto diventato il “Leone Bianco”, tributo al suo coraggio e alla sua lunga e candida barba. Nel frattempo gli esploratori inglesi Speke e Grant entusiasmano il mondo con il loro annuncio della scoperta delle sorgenti del Nilo, individuate nel Lago Victoria, da loro raggiunto nel 1858. A Miani non resta che tornare in Europa. Lo accompagnano, al suo rientro, 14 casse zeppe di 1800 reperti. Il mal d’Africa torna prepotente ed eccolo ancora una volta a Karthoum, dove diventa direttore del nuovo zoo della città. Utilizza questa funzione per farsi accettare in una spedizione diretta verso il Mombuto, nell’attuale Congo. Il suo ruolo è duplice: esperto scientifico della spedizione e cercatore di specie animali sconosciute da introdurre nel suo zoo. Riesce a catturare anche due pigmei, che avrebbero svelato l’enigma della loro esistenza favoleggiata da Erodoto. Ospite del re Bunza, muore a Nangazizi nel novembre del 1872. La notizia della sua morte giunge a Venezia l’anno dopo e la sua tomba sarà rinvenuta solo nel 1881.

(Archivio Società geografica francese)

GIOVANNI MIANI

In questo contesto si deve pensare che la Francia abbia avuto interesse per la fascia sahariana, anche se il deserto poteva risultare problematico da esplorare e più ancora da sfruttare per le sue risorse considerate scarse. Ma è proprio su questa area che si vede crescere l’interesse della Francia per l’occupazione e la ricerca. Nel corso dell’Ottocento questa vasta area geografica viene acquisita dalla Francia, fermata solo sul versante nubiano, lungo il corso del Nilo, dove andava sviluppandosi l’imperialismo britannico, che sulla dorsale orientale cercava di costruire un sistema di colonie dal Mediterraneo fino alla colonia del Capo, nell’attuale Sudafrica, anche a trovare l’interferenza germanica nella colonia del Tanganika. Nell’area etiopico-somala i Francesi non riescono a congiungere quanto hanno costituito nell’intero Sahara e la colonia di Gibuti , l’unico varco consentito sul Golfo di Aden, verso l’Oceano Indiano. Che ci fossero interessi francesi in questa area lo rivela il caso di Fashoda, il villaggio sul quale l’espansionismo francese venne ostacolato con fermezza da quello britannico nell’incidente locale del 1898. La Francia dovette rinunciare ad avere il controllo di tutto il deserto fino al Mar Rosso.

AREE DI INFLUENZA TRA AFRICA ORIENTALE E CENTRALE

Inoltrandosi verso il sud, oltre il Sahara, nella parte occidentale dell’Africa, prima ancora che si determini un sistema coloniale sul Golfo di Guinea si deve parlare in questa area di interessi della Società Geografica Francese, che si apre un varco a partire dal fiume Congo mediante l’azione esploratrice ed occupatrice, di Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà (1852-1905).

Costui, originario del territorio pontificio, era divenuto cittadino francese anche per gli studi fatti a Parigi; in nome della Francia si mise ad esplorare la riva destra del fiume Congo, dando origine all’Africa equatoriale francese. Si trovò contrastato nella sua azione esploratrice dagli interessi nella medesima area del britannico Stanley al soldo del re belga, Leopoldo II, il quale sull’altro versante cercava di occupare la zona della foresta equatoriale. È in corso la penetrazione in un territorio ambito da tanti, e nel contempo c’è l’avvio del colonialismo, che, pur non ricorrendo ai sistemi della tratta negriera dei secoli precedenti, manifestava forme odiose di schiavizzazione, a cui Brazzà si opponeva con forza, in contrasto netto con il governo francese. Fu indotto a lasciare questa zona dell’Africa finendo la sua esistenza a Dakar. Egli non può essere considerato propriamente un colonizzatore, ma semplicemente un esploratore: la sua attività ebbe però come conseguenza la nascita di un colonialismo sfruttatore, anche se gli aspetti più degenerati sono comparsi nel Congo, alternativo al suo, che si realizzava negli stessi anni ad opera di Leopoldo II, re del Belgio.

SOCIETA’ GEOGRAFICA INGLESE

Anche a Londra si costituisce nel 1830 una società con la finalità di sostenere gli esploratori interessati agli studi della geografia di parti della terra ancora sconosciute. Non sempre in essa si coltivavano interessi di natura “coloniale” in vista dello sfruttamento delle terre per il sostegno della macchina industriale che si andava sviluppando in modo vertiginoso; alcuni, come Charles Darwin (1809-1882), avevano interessi di stretta natura scientifica; altri avevano a cuore anche la componente missionaria, come è nel caso di Livingstone, anche se poi costui è più noto come esploratore.

David Livingstone (1813-1873) è originario della Scozia e si è fatto da sé negli studi e nel lavoro, e, divenuto cristiano convinto, sentì nel suo animo una sorta di vocazione missionaria, che lo spingeva inizialmente in Asia, ma poi sempre più decisamente in Africa a partire da Città del Capo. Per giustificarsi davanti a coloro che lo sostenevano economicamente egli giustificava la sua presenza nel continente, non solo con l’intento di convertire quelle popolazioni, ma anche con il desiderio di scoprire e spiegare al pubblico inglese le terre che egli vedeva nei suoi viaggi. In modo particolare puntava a scoprire le sorgenti del Nilo Bianco …

Non trovò mai la sorgente e pare non sia stato un missionario di grande efficacia, ma fu comunque un grande esploratore, forse il più grande tra quelli che nell’Ottocento andarono in Africa. La sua fama di esploratore deriva principalmente dalle sue spedizioni attraverso l’Africa centrale. Durante queste spedizioni, Living-stone esplorò ampie aree del continente africano, cercando di mappare nuove terre, scoprire nuove culture e trovare rotte commerciali. Le sue relazioni dettagliate e i suoi diari di viaggio sono diventati importanti documenti per la comprensione della geografia e della cultura africana del XIX secolo. La sua determinazione e il suo coraggio nel fronteggiare le difficoltà e gli ostacoli durante le sue esplorazioni lo resero una figura leggendaria nel mondo dell’esplorazione e un’icona del romanticismo vittoriano. (da Wikipedia)

Indubbiamente ebbe il merito di aprire la pista per i diversi viaggi che ha compiuto, soprattutto seguendo i corsi dei fiumi africani, anche se incontrò notevoli difficoltà, dando l’impressione che in queste imprese non avesse sufficienti doti manageriali con cui offrire garanzie. Di fatto abbandona lo spirito missionario che lo aveva animato fin dai suoi primi passi in Africa, per limitarsi allo scopo esplorativo. Si ricordano tre viaggi …

1.

Nel periodo dal 1852 al 1856 Livingstone esplorò l’entroterra africano, scoprendo, lungo il corso del fiume Zambesi, le famose cascate Vittoria, cosiddette per onorare la regina Vittoria. 

Livingstone fu uno dei primi europei a fare un viaggio transcontinentale attraverso l’Africa. Lo scopo del suo viaggio era di aprire nuove vie commerciali e di accumulare informazioni utili sul continente africano. In particolare, Livingstone era un sostenitore delle attività missionarie e del commercio nell’Africa centrale. Tornò in Inghilterra per ottenere un sostegno a queste sue idee e per pubblicare un libro sui suoi viaggi. Fu in questo periodo che si dimise dalla società missionaria alla quale apparteneva.

2.

Livingstone ritornò in Africa a capo di una spedizione con lo scopo di esplorare il fiume Zambesi. Mentre si dedicava a questa attività, le missioni da lui volute in Africa centrale e orientale si estinsero in modo disastroso, con quasi tutti i missionari morti di malaria o di altre malattie. Il fiume Zambesi si rivelò essere non navigabile per lunghi tratti, a causa di una serie di cataratte e di rapide che Livingstone non era riuscito a esplorare nei suoi viaggi precedenti. Mary, la moglie di Livingstone, morì il 27 aprile 1862 colpita da malaria cerebrale, ma Livingstone continuò le sue esplorazioni e infine tornò in Inghilterra nel 1864. La spedizione fu considerata un fallimento da molti giornali britannici del tempo e Livingstone ebbe grosse difficoltà a raccogliere fondi per esplorare ulteriormente l’Africa.

3.

Nel marzo 1866 Livingstone tornò in Africa, in Tanganica, da dove cominciò a cercare la sorgente del Nilo. Già si era scoperto che doveva provenire dal lago Vittoria, ma la questione era ancora dibattuta. Nel cercare la sorgente del Nilo, Livingstone si spinse in realtà troppo ad ovest, fino a raggiungere il fiume Lualaba, che altro non è che la parte iniziale del fiume Congo, ma che egli erroneamente considerò essere il Nilo.

(da Wikipedia)

Quest’ultima esplorazione durò più del previsto e in assenza di missive dall’interessato, che comunque inviava dispacci senza frutto, si pensò che fosse scomparso nella foresta o addirittura morto. Era indubbiamente debilitato e molto provato nel corpo e nello spirito, ma bloccato. Di qui il tentativo di recuperarlo assegnato ad un altro grande esploratore, che poi ebbe grande importanza per la conoscenza del Congo. Henry Morton Stanley (1841-1904) era nato nel Galles ed ebbe un’infanzia molto tribolata, con esperienze amare, soprattutto di abusi. A 15 anni riesce a trasferirsi negli Stati Uniti, dove si trova nel bel mezzo della guerra di secessione. Aveva il nome di John Rowlands, che lascia quando morì colui che l’aveva accolto negli USA, dandogli mezzi per costruirsi un futuro. Divenne giornalista al New York Herald, che lo spedì in varie parti del mondo, privilegiando l’Africa, dove ebbe l’incarico di mettersi alla ricerca di Livingstone.

Stanley arrivò a Zanzibar e organizzò la spedizione senza badare a spese, tanto da richiedere non meno di 2 000 portantini. Egli localizzò Livingstone il 10 novembre 1871 vicino al lago Tanganica. Celebre è la frase che gli viene attribuita al momento dell’incontro, “Dr. Livingstone, I presume?” (“Dottor Livingstone, suppongo”), secondo il formalismo britannico dell’epoca. Stanley si unì a lui nell’esplorazione della zona. Le ricerche stabilirono con certezza che non vi era nessun collegamento tra il lago Tanganica e il fiume Nilo. Questa spedizione divenne famosa grazie al libro che Stanley scrisse per raccontarla. Il suo giornale finanziò un’altra spedizione nel continente africano, in cui Stanley risolse uno degli ultimi misteri africani, percorrendo il corso del fiume Congo fino alla foce. (da Wikipedia)

Insieme i due esplorarono tutta la regione per trovare il Nilo, ma poi Stanley ripartì senza essere riuscito a convincere Livingstone a imitarlo. Affascinato dall’Africa, con l’idea fissa delle sorgenti del Nilo e dell’infamia della tratta dei neri, roso dalla febbre Livingstone andava in giro trasportato su un’amaca delle sue guide: una mattina queste lo trovarono inginocchiato con la testa tra le mani sul suo misero giaciglio. Credettero che stesse pregando. Era morto … Livingstone era innanzitutto un pastore, esacerbato dal sanguinoso commercio in cui si imbatteva a ogni passo, egli giunse ad augurarsi la colonizzazione dell’Africa come unico rimedio … Henry Morton Stanley era di tutt’altra stoffa di Livingstone: si trattava di uno sportivo e al tempo stesso di un businessman senza scrupoli, che nei nuovi territori africani trovò il luogo ideale per esprimere la sua forza bruta … Stanley era alla ricerca di grandi imprese: infatti era passato alle dipendenze dell’Associazione Internazionale del Congo. (Ki-Zerbo, p. 526-527)

ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE AFRICANA (AIA)

È una Società geografica creata in Belgio a supporto della azione di scoperta e di colonizzazione del grande territorio del Congo che il re Leopoldo II (1835-1909) si era ricavato come suo possedimento personale.

Questa era stata creata da Leopoldo II del Belgio nel 1876 con l’intento di esplorare il continente, sopprimere la tratta e introdurre la civiltà. Stanley ricevette l’incarico di fondare delle stazioni e di stipulare trattati con i capi locali. In questo modo Leopoldo II, peraltro gratificato dell’appellativo di “umanitario rapace”, accentuava la nuova tendenza: dalla cupidigia al ratto. Di fronte alle attività di Stanley, il Portogallo comprese di trovarsi prossimo a perdere quel Congo che fin dai tempi di Diogo Cao e di Afonso aveva considerato come suo patrimonio privato; intanto la Francia, grazie a Savorgnan de Brazza, aveva già individuato il corso Ogooué e le regioni limitrofe. A chi spettava la foce del Congo? Alla Francia, al Portogallo o al Re dei Belgi? Nella sua continua ricerca della libertà di commercio e per paura delle elevate tariffe francesi, la Gran Bretagna propendeva per il Portogallo, per di più potenza di secondo piano, ma l’opinione pubblica inglese, ancora influenzata da Livingstone, fu indignata che una simile regione venisse affidata “a un paese retrogrado”. Sentendo il terreno scivolargli sotto i piedi, il Portogallo pro-pone allora la convocazione di una conferenza internazionale. Bismark colse al volo l’occasione di togliere l’iniziativa alla Gran Bretagna e si arrivò così alla conferenza di Berlino (1884-85), in cui il Portogallo perse i suoi possedimenti storici, riuscendo appena a conservare l’enclave di Cabinda.

(Ki-Zerbo, p. 527-528)

Relativamente tardi, nel 1876, il re del Belgio si inserisce nella campagna di colonizzazione dell’Africa, gestita da diversi Stati europei, e tuttavia riesce a ritagliarsi uno spazio immenso, corrispondente all’attuale Congo, la cui scoperta territoriale è dovuta a Stanley, che il re, mediante l’AIA, incarica di esplorare, rivendicandone poi l’occupazione e la colonizzazione.

Leopoldo credeva fermamente che le colonie d’oltremare fossero la chiave per la grandezza di un paese e lavorò instancabilmente per acquisire un territorio coloniale per il Belgio. Né il popolo belga né il governo belga, però, erano interessati a ciò; quindi Leopoldo incominciò a cercare un modo per acquisire una colonia da una posizione di privato cittadino. Dopo un certo numero di progetti coloniali in Africa o Asia andati a vuoto, nel 1876 organizzò una compagnia commerciale privata camuffata da associazione scientifica e filantropica internazionale. Nel 1879, sotto gli auspici della compagnia commerciale, egli assunse, dopo il rifiuto opposto da Pietro Savorgnan di Brazzà, il famoso esploratore Henry Morton Stanley, perché stabilisse una colonia nella regione del Congo. Parecchie manovre diplomatiche si ebbero alla  Conferenza di Berlino del 1884-85, nella quale rappresentanti di tredici paesi europei e degli Stati Uniti  riconobbero Leopoldo come sovra-no della maggior parte dell’area che lui e Stanley rivendicavano. Il 5 febbraio 1885 il risultato fu la creazione dello  Stato Libero del Congo, che Leopoldo fu libero di controllare come un dominio personale.

(da Wikipedia)

Stanley, divenuto famoso per aver ritrovato Livingstone, venne dunque incaricato dal re belga di muoversi attorno al sistema fluviale del Congo, con scopi che sarebbero dovuti essere di natura scientifica, così da far conoscere un territorio rimasto del tutto inesplorato. Però le mire dell’AIA e soprattutto del suo “patrono” Leopoldo erano di altro genere, rispetto a quello che si trovava scritto nella presentazione dell’Associazione.

Un ruolo del tutto speciale come fattore destabilizzante per gli assetti che avevano preceduto lo Scramble (= Corsa per occupare l’Africa) toccò a Leopoldo II del Belgio. Per le sue idee grandiose di banchiere, esploratore e poeta, il Belgio era sicuramente troppo piccolo. Leopoldo agiva a titolo personale per il tramite dell’Associazione africana internazionale e con i fondi della Société Générale. Decisiva fu la collaborazione ai suoi progetti del giornalista americano Henry M. Stanley con i suoi viaggi attraverso l’Africa da est a ovest raggiungendo il fiume Congo. Sulle prime, l’azione di Leopoldo II fu salutata con favore dai circoli umanitari d’Europa, perché sembrava coerente con la crociata contro la schiavitù, ma col tempo i suoi evidente obiettivi politici misero in allarme i vari governi impegnati in Africa. Nella sua qualità di non-potenza, Leopoldo non si poteva permettere forme di influenza indiretta come i maggiori Stati europei e non aveva a disposizione altre politiche se non l’annessione territoriale. I preparativi del re del Belgio per la costituzione di un vero e proprio Stato coloniale nel cuore stesso dell’Africa affrettarono i tempi dello Scramble. Ufficialmente l’Associazione internazionale del Congo sotto la cui egida Stanley compì spedizioni e stipulò trattati, diceva di voler promuovere il libero scambio e la civiltà, ma tutti i resoconti della sua attività mostravano chiaramente che si stava costruendo un gigantesco monopolio economico.

Le potenze si sentirono costrette a seguirne l’esempio fissando le loro posizioni sul terreno, anzitutto nel bacino del Congo e poi in tutta l’Africa centrale e occidentale. (Calchi Novati, p. 193-4)

SOCIETA’ GEOGRAFICA ITALIANA

Venne fondata nel 1867 a Firenze, che allora era la capitale del nuovo Regno d’Italia. Anch’essa doveva promuovere le conoscenze geografiche, secondo il modello di ciò che già si faceva in Europa. E aveva comunque il compito di finanziare le esplorazioni, che inizialmente si muovevano nella stessa area geografica, dove si andava alla ricerca del tesoro di Salomone e delle sorgenti del Nilo. La prima spedizione venne fatta nel 1869 in Eritrea ad opera di Orazio Antinori (1811-1882). Più che la società geografica fu la società di navigazione Rubattino di Genova a coltivare interessi per la stessa zona, dando inizio all’occupazione di porti, che permisero poi di realizzare la prima colonia italiana in Africa. Il primo approccio si ebbe con il padre lazzarista Giuseppe Sapeto che nel novembre del 1869 per conto della Società Rubattino avviò le trattative per la cessione della baia di Assab al governo italiano. Poi intervenne l’armatore Raffaele Rubattino per creare un porto di servizio. Il governo italiano acquistò nel 1882 il possedimento di Assab a cui si aggiunse il porto di Massaua. Nel 1890 l’Eritrea fu dichiarata colonia italiana.

La figura più nota ed eroica tra gli esploratori italiani nel Corno d’Africa è Vittorio Bottego (1860-1897): originario del parmense e formatosi nell’esercito a Modena, partì per l’Eritrea nel 1887.

Sbarcato a Massaua nel dicembre di quell’anno, trascorse i primi due anni di servizio in colonia al comando di una batteria indigena, facendo conoscenza del paese e della popolazione e raccogliendo oggetti per collezioni di storia naturale. Convinto dell’opportunità di conoscere la Somalia interna, verso cui si rivolgevano le aspirazioni coloniali italiane, ottenne dal Governatore dell’Eritrea, generale Antonio Gandolfi una promessa d’appoggio, ma la caduta del governo Crispi consigliò di rimandarne l’attuazione e indusse il presidente della Società geografica italiana a suggerire a Bottego un programma più modesto che si limitasse all’esplorazione della Dancalia, la regione costiera della Somalia meridionale. Bottego partì il 1 maggio 1891, m dopo soli dieci giorni ricevette l’ordine di tornare indietro e di riconsegnare la scorta, cosa che egli fece limitandosi a percorrere con pochi uomini l’itinerario costiero Massaua-Assab, mai precedentemente fatto. Stese per la Società geografica una relazione di viaggio, intitolata “Nella terra dei Danakil: giornale di viaggio”, pubblicato nel Bollettino della Società, nel 1892.

Rimpatriato da Assab nel giugno 1891, fu inviato a Firenze, dove continuò a perorare la propria causa, rinvigorito dal fallito tentativo del principe Ruspoli di esplorare il Giuba. Accettò la partecipazione alla spedizione del capitano Matteo Grixoni, che portava un contributo economico di 15.000 lire, e ottenne nell’aprile 1892 l’appoggio della Società geografica, che aveva ricevuto a sua volta il con-senso del Governo. La spedizione si proponeva di partire da Berbera sulla costa della Somalia britannica, e di lì spingersi verso ovest, e pervenuta nel bacino del Giuba, seguirne il corso che i recenti trattati internazionali stabilivano come limite divisorio tra la sfera d’influenza britannica e quella italiana. La spedizione partì da Berbera il 30 settembre 1892 e, seguendo il piano prestabilito, riuscì da Imi ad entrare nel bacino del Giuba e a raggiungerne il ramo principale, battezzato col nome di Canale Doria, risalendolo sino alle sorgenti. Bòttego intraprese quindi la discesa, attraverso gravi difficoltà opposte dalla natura del suolo e dalle ostilità degli abitanti, seguendone il corso, mentre Grixoni, da lui separatosi, discendeva quello più occidentale del Daua precedendolo a Lugh, a valle dell’incontro dei due rami riuscendo così, primo europeo, a penetrare nella misteriosa città considerata fino allora inaccessibile.

Bottego arrivò anch’egli a Lugh il 17 luglio e vi trovò, in pessime condizioni, l’ingegnere svizzero Bochard e il triestino Emilio Dal Seno, superstiti della seconda spedizione Ruspoli, il cui capo era morto in un incidente di caccia. Con loro Bottego procedette per Bardera e raggiunse la costa a Brava (8 settembre 1893). Le vicende di questa memorabile spedizione, che valse a risolvere uno del maggiori problemi presentati ancora dalla geografia africana, furono da Bottego stesso narrate nel suo libro “Il Giuba esplorato”, pubblicato a Roma nel 1895. Nonostante il successo della spedizione nel Giuba, alcuni interrogativi restavano irrisolti: Bottego voleva mappare il corso dell’Omo (fiume dell’Etiopia); esplorare la regione ancora sconosciuta tra l’alto Giuba, il lago Rodolfo e il Sobat (fiume del Sud Sudan)  e consolidare la posizione che i trattati conclusi assegnavano all’Italia nel  medio Giuba. Il progetto relativo, accolto dalla Società Geografica, ebbe anche questa volta l’appoggio del governo e del re. La spedizione lasciò l’Italia il 3 luglio 1895 alla volta di Brava, da dove poi raggiungere Lugh, fermandosi lì solo il tempo necessario per approntare la stazione affidata a Ferrandi. Raggiunta quindi la confluenza del Daua lo risaliva alla volta di Burgi, località ove era perito Ruspoli; di qui spingendosi a nord si giungeva al vasto e pittoresco lago Pagadè (in Etiopia), a cui Bottego impose il nome di Margherita, in onore della regina d’Italia, e quindi raggiungeva il corso dell’Omo seguendolo sino alla sua foce nel lago Rodolfo (31 agosto). Per assicurarsi che gli oggetti destinati al museo e l’ingente quantità di avorio ricavato da fruttuose cacce arrivasse alla costa, venne distaccato un drappello a cui si unì il dottor Sacchi, perito poi nel viaggio. Proseguendo verso nord-ovest Bottego raggiunse con i compagni il bacino del Sobat. Non rimaneva ormai che provvedere al ritorno, che Bottego, ignaro degli avvenimenti eritrei, pensava di effettuare attraverso l’Etiopia sollecitando perciò il necessario consenso del negus Menelik. Accolti dapprima amichevolmente, i viaggiatori italiani caddero in un’imboscata a Jellem e nel combattimento che seguì Bottego rimase ucciso, mentre i suoi compagni furono fatti prigionieri e ricondotti poi alla costa (23 luglio 1897).

(da Wikipedia)

Non va dimenticata inoltre l’attività missionaria di alcuni che non solo ebbero, come è ovvio, compiti di natura religiosa, per diffondere il vangelo, ma di fatto assunsero anche altre vesti, diventando, come gli esploratori, dei ricercatori che avevano a cuore la conoscenza dei luoghi, ma più ancora delle persone locali, anche per portarvi sollievo combattendo le malattie con i ritrovati della medicina del tempo. La figura per eccellenza è in questo caso Guglielmo Massaia (1809-1889). Era un cappuccino piemontese, che operò all’ospedale Mauriziano di Torino, per divenire poi amministratore apostolico in Etiopia, dove già in precedenza c’erano stati dei frati cappuccini che dovettero subire il martirio.

Nel 1846 Papa Gregorio XVI lo nominò vicario apostolico nelle terre dell’Etiopia. La popolazione dei Galla, presso la quale doveva svolgere il vicariato, era stanziata nelle aree meridionali dell’Etiopia e Guglielmo dovette risalire il Nilo e attraversare il deserto per raggiungerla. Impiegò quasi quattro anni a raggiungere la zona assegnatagli, e vi passò 35 anni di missione. Il suo apostolato vide quattro pellegrinaggi in Terra Santa, prigionie ed esili, ma riuscì a fondare diverse missioni, centri assistenziali e compose il primo catechismo nella lingua locale. Si adoperò per curare la popolazione colpita da varie malattie, soprattutto dal vaiolo, prendendo il soprannome “Padre del Fantatà” (Signore del vaiolo); favorisce spedizioni diplomatiche e scientifiche. Fu decorato grand’ufficiale dell’Ordine mauriziano dal re d’Italia, Umberto I. Consigliere del negus Menelik II, è il fondatore della Missione di Finfinnì, luogo in cui sorse poi la città di Addis Abeba (= Nuovo Fiore), divenuta capitale dell’Etiopia nel 1889. Il negus Giovanni IV, intollerante del suo prestigio, lo esiliò il 3 ottobre 1879. Nel 1881, rientrato in Italia fu nominato Arcivescovo e poi nel 1884 divenne Cardinale. Morì a San Giorgio a Cremano e poi sepolto nella chiesa di S. Francesco d’Assisi a Frascati, dove aveva vissuto l’ultimo decennio in estrema povertà. (da Wikipedia)

CONCLUSIONE

Il quadro pionieristico dell’impatto con l’Africa da parte dell’Europa accompagna di fatto la sua volontà colonialista e quindi il suo intento di occupare terre e soprattutto di sfruttarle. Gli esploratori e gli avventurieri, audaci o sprovveduti che fossero, erano al soldo delle Società, con intenti che volevano apparire di natura scientifica; ma, avendo bisogno di cospicui finanziamenti, si voleva naturalmente raggiungere anche un preciso obiettivo economico, che ripagasse dei capitali investiti. Già allora, poi, si era alla ricerca di materie prime essenziali per la industrializzazione rapida e sempre più galoppante in molti paesi europei, compresa l’Italia che pur giungeva per ultima, anche a causa della sua recente costituzione come Stato unitario. L’Africa appariva appetibile e tale è rimasta, anche dopo la fase del colonialismo diretto, conservato fino agli anni ’60 del secolo scorso. Questo è il commento amaro dello storico Ki-Zerbo:

All’alba del XIX secolo l’Africa da quattro secoli ferita in ogni parte dalla tratta attira sempre più l’attenzione del mondo. Perché? In primo luogo per il movimento antischiavista … la tratta dei neri non è più di moda e viene sempre più condannata; il movimento missionario, in parte conseguenza di questo nuovo atteggiamento dell’Europa, contribuì peraltro a rafforzarla. Ribaltando completamente la posizione del XV secolo le chiese e soprattutto i protestanti inglesi portarono in Africa un prodigioso capitale di proselitismo, di devozione, di generosità, ma talvolta anche di ingenuità e di compromessi: nel XV secolo era perfettamente legittimo strappare i neri dal loro continente per salvarne l’anima; nel XIX secolo, constatando sul posto lo spaventoso spreco di uomini, numerosi missionari gridarono al genocidio e incoraggiarono il controllo, e cioè la conquista dell’Africa, da parte dell’Europa per mettere fine al massacro! Un altro importante fattore di spinta dell’Europa verso l’Africa è la curiosità scientifica, associata talvolta allo spirito d’avventura; in effetti, nel XIX secolo l’Africa rimaneva la grande sconosciuta della carta geografica del mondo: da secoli vi si erano attinte favolose ricchezze senza esporsi a tutti i pericoli di una spinta verso l’interno, e chi si immergeva nelle sue profondità spesso si scontrava con l’ostilità dei capi neri, negrieri che intendevano conservare il loro monopolio di mediatori. L’Africa nera restava perciò “il continente misterioso”, “la terra incognita”; le parti più bianche sulla carta erano battezzate “l’Africa tenebrosa” (darkest Africa). Ma il rinnovato interesse per l’Africa si spiega soprattutto con motivi di ordine economico.

Durante il XIX secolo, prima l’Inghilterra e poi gli altri paesi dell’Europa occidentale subirono quella trasformazione di strutture che è la rivoluzione industriale, caratterizzata dall’invenzione della macchina a vapore, per filare, per tessere, per puddellare (= rimescolamento e affinazione della ghisa), ecc. (…) L’età delle macchine imponeva all’Africa di rappresentare un ruolo diverso nello sviluppo europeo. Sondare le possibilità di questo continente quanto a piantagioni e miniere, controllare all’occorrenza tali fonti di produzione e disporre del maggior sbocco umano possibile per i consumi, queste saranno sempre più le tendenze dei capitalisti europei. Non sarà quindi un caso se i paesi europei più industrializzati diventeranno anche le maggiori potenze coloniali. Ma questa tendenza si manifesterà nettamente soltanto nell’ultimo quarto di secolo: gli imperativi che peseranno sempre più gravi sulle economie nazionali dell’Europa porteranno allora all’intervento militare imperialista. Le tre figure principali di questa catena di avvenimenti sono quindi i missionari, i mercanti e i militari (le tre M). Si potrebbe fare una galleria di coloratissimi ritratti di questi pionieri, che vanno dal missionario ardente di pietà al disadattato sociale più o meno squilibrato, passando per il collezionista di trofei di caccia e il cercatore d’oro. (…) Sarebbe comunque errato minimizzare il coraggio fisico di cui hanno dato prova tutti questi uomini nell’affrontare l’incognito: per uno, due o forse anche tre anni, essi rimasero esclusi da qualsiasi contatto europeo, con una percentuale di rischio certo superiore a quella degli astronauti di oggi. Inoltre essi hanno raccolto una messe di dettagli etnografici, sociologici, linguistici e storici che costituiscono un importante capitale per la conoscenza delle nostre popolazioni; sfortunatamente molti di loro, ignorando che si accostavano ad un’Africa in piena decomposizione o incapaci di difendersi dai pregiudizi razziali che si portavano appresso, hanno in gran parte contribuito a delineare un ritratto dell’Africa che intossica ancora oggi la mentalità di centinaia di milioni di uomini, un ritratto che alla fine verrà sistematicamente reso più fosco per giustificare l’imperialismo coloniale.

(Ki-Zerbo, p. 520-521)

Dobbiamo riconoscere la stretta connessione tra la fase della “scoperta” e quella della occupazione. Anche per l’Africa, come per gli altri continenti, si deve parlare di scoperta da parte degli Europei, perché anche a sapere già della sua esistenza e configurazione, questo mondo non era conosciuto al suo interno e ben pochi vi si erano avventurati. Quando poi si iniziò a voler penetrare nel continente, si trovarono molti ostacoli a scoraggiare questo genere di approccio, da rimandare a tempi migliori.

Dapprima ci furono gli esploratori, ai quali subentrarono i funzionari di governo per dare una struttura amministrativa al territorio in funzione del suo sfruttamento. Gli esploratori hanno cercato non senza difficoltà di penetrare all’interno, dove accanto all’intrico delle foreste, ai fiumi non navigabili, alle alte montagne, alla reazione negativa e violenta dei locali, si deve aggiungere l’impossibilità a trovare rimedi efficaci alle malattie incontrate: essi sono considerati autentici eroi. Non per nulla si crea una catena, anche in presenza di cronistorie, diari, lettere e documenti vari di questi viaggi al limite dell’impossibile. Non di meno sono i missionari, quando pure essi aprono piste e si muovono non necessariamente accodati agli esploratori. Il missionario che si rende conto di non dover figurare tra le Compagnie delle Società geografiche, è Daniele Comboni (1831-1881). Il suo piano, davvero geniale, strutturato nel 1864 e presentato al Concilio Vaticano I (1869), prevedeva che gli Africani dovessero rigenerare l’Africa con le loro forze: un gruppo andava formato nelle scuole impiantate sulle coste, e quanti venivano lì formati sarebbero entrati a trasmettere le conoscenze, comprese quelle religiose. C’era la consapevolezza che esse erano di origine europea e ad esse dovevano uniformarsi gli Africani senza distinzione. Di fatto questo metodo non fu mai attuato. E anche la proposta religiosa si accompagnava a un genere di intervento che aveva un forte sapore coloniale, proprio di chi deve portare il suo schema, imposto e assunto nel mondo africano, anche se i Paesi europei si immaginavano di non dover mai venir via dai Paesi africani acquisiti e occupati. Nei libri di storia si tende a collegare strettamente il primo impatto costruito sui viaggi a scopo scientifico con quelli che invece avevano l’obiettivo della occupazione.

BIBLIOGRAFIA

1.

Joseph Ki-Zerbo

STORIA DELL’AFRICA NERA

Un continente tra la preistoria e il futuro

Ghibli – 2016

2.

Gian Paolo Calchi Novati – Pierluigi Valsecchi

AFRICA: LA STORIA RITROVATA

Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali

Carrocci editore, 2016

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