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Il Natale nel Vangelo di Giuseppe.
Non poteva mancare una riflessione di Don Ivano sul Natale e quest’anno l’ispirazione del tema è venuta proprio da Papa Francesco che ha indetto l’anno di S. Giuseppe a partire dall’8 dicembre scorso.
Cliccando sul link IL NATALE di S. GIUSEPPE (versione verticale) potrete leggere il testo che farà da filo conduttore nella videoconferenza di lunedì 21 dicembre alle ore 15.
Verrà inviato il link ai soci UTE di Erba, ai gruppi parrocchiali di Arcellasco e a chi ne farà richiesta.
CI IMPEGNIAMO NOI …
CI IMPEGNIAMO NOI …
CONVERSAZIONE CON DON PRIMO MAZZOLARI
RISVEGLIARE L’UMANO
“Risvegliare l’umano” è un bel modo di segnalare che qualcosa oggi appare quanto meno assopito, se non addirittura spento. Ciò che noi consideriamo “umano” è propriamente quello “spirito” che accomuna tutti gli uomini, come atteggiamento dell’animo, come mentalità, come carica o passione interiore, che segnala una coscienza e attiva una responsabilità. Vi è in effetti un certo deficit di coscienza, se proliferano le leggi; vi è scarsa responsabilità, se ciascuno si defila dal proprio impegno e soprattutto dall’assunzione del proprio ruolo in quel genere di servizio che dobbiamo considerare non solo come un lavoro, ma come una sorta di missione. Se si risveglia, ciò significa che ad ogni tornante della storia va ripetuta questa azione, sempre necessaria, quando si assiste ad una calo di tensione positiva che fa presagire una specie di collasso.
Fare questa operazione significa riaccendere nella mente e nei cuori, nell’intelligenza e nella volontà, la passione per l’uomo, per ciò che è veramente umano, tenuto conto che è intervenuta una distorsione, quando si fa prevalere ciò che è puramente sensibile, sensoriale, sensitivo, e che è insufficiente (ma non per questo da trascurare) a rendere davvero più umano il vivere
Questa operazione, o questa missione, compete prima di tutto a quella cultura umanistica, che risulta basilare nel patrimonio culturale del nostro mondo “mediterraneo” (non solo europeo) e che va essa stessa risvegliata perché ancora produca i suoi frutti.
Per definizione, sono produttori di questa cultura umanistica i “poeti”. Il vocabolo greco, “poihsis” (=poiesis) cioè “poesia”, deriva dal verbo “poiew”(=poieo), che significa “fare a partire dal cuore”, dall’interiorità, dallo spirito umano; perciò i veri “produttori” di cultura umanistica sono loro, non solo perché essi scrivono in versi, ma perché nel loro scrivere, anche sotto il profilo contenutistico, sono come dei profeti, cioè capaci di parlare a nome di altri, a nome di tutti e in favore di tutti.
Una vera cultura è possibile proprio con questa interazione fra scrittori e lettori, tra produttori e fruitori di una parola, che è un vero processo comunicativo, mediante il quale lo spirito umano si definisce, si risveglia, si arricchisce, si produce in continuazione …
Ogni poeta, ogni profeta, ogni scrittore secondo lo spirito, contribuisce a quel percorso e cammino, che è indispensabile perché l’uomo cresca nella sua personalità, nella sua globalità, nella sua apertura a tutti e al mondo. Dovremmo lì cercare quell’umano, che poi dobbiamo risvegliare in noi.
DON PRIMO MAZZOLARI
Prendiamo l’avvio, in questo genere di ricerca, da uno scrittore, che non è annoverato fra quelli delle antologie di letteratura, perché nessuno ha mai cercato di riconoscere nei suoi testi anche una forma espressiva molto originale, che lo fa essere uno scrittore di vaglia. Non era questa comunque la sua prima attività; e neppure si era prefisso di raggiungere un simile obiettivo, anche se lo scrivere e il pubblicare libri lo qualificano come un autore, di notevole spessore e di rara efficacia, poi letto, seguito, riconosciuto per questa sua passione, che diventa anche una sua missione.
Don Primo Mazzolari si qualifica innanzitutto come prete, e così egli vuole essere riconosciuto, anche se ha trovato nello scrivere la stessa facilità comunicativa che gli sgorgava nel suo parlare e nel suo predicare.
In effetti nel suo scrivere si riconosce la qualità di un linguaggio parlato, molto tagliente, molto incisivo nel cogliere l’essenziale, nell’arrivare alla battuta che lascia il segno. E non mancano quelle immagini che appartengono spesso al linguaggio della gente comune, quando, ricorrendo a paragoni, possono dare più efficacia al loro dire, rispetto alle parole astratte. Qualche suo lavoro, oggi pubblicato, apparteneva inizialmente alla sua predicazione, con la suggestione di chi sta colpendo l’uditorio anche mediante il tono di voce e il ricorso a vocaboli efficaci nel loro fonema.
Molto, però, di quanto abbiamo, è comunque originariamente redatto per iscritto, ed è quindi un lavoro pensato e nel contempo espresso, come se l’autore avesse davanti a sé gli ascoltatori, quelli che non sono solo sintonizzati sui concetti che lui sta elaborando, ma sono pure appartenenti alla gente comune, che don Primo conosce per la sua missione di prete e in particolare di parroco, e di curato di campagna.
Il suo parlare, anche quando è condensato in uno scritto, ha di vista il concreto, cioè vuol toccare la realtà del momento e vuol spronare chi ascolta e chi legge ad un impegno, che non sia solo l’esecuzione materiale di uno schema, ma sia soprattutto la traduzione di uno spirito acquisito e fatto proprio.
I suoi primi tentativi di opere scritte hanno pure il sapore di romanzi, legati alla sua esperienza di vita.
Ma poi prevale in lui lo stile del pamphlet, che gli permette anche battute epigrammatiche.
E così il suo scrivere si muoverà ben presto fra testi antologici e articoli di giornali o di riviste, che lo fanno muovere fra la realtà civile e quella ecclesiastica, trovando, non solo nella stagione del fascismo, levate di scudi che lo portano allo scontro e all’incomprensione. Anche da parte dell’autorità della Chiesa, soprattutto negli uffici curiali, più che non nelle considerazioni delle figure gerarchiche, non mancheranno interventi censori, condanne, e obblighi al silenzio.
Ma la “tromba padana”, come fu definito, non mancò mai di far sentire il suo suono alto e coraggioso.
Forse, non raggiungerà mai la perfezione stilistica di uno scrittore votato alla letteratura, ma il suo modo di scrivere, sia per la forma, sia per i contenuti, appare spesso accattivante e sempre stimolante, non solo per suscitare la riflessione, ma soprattutto per attivare un impegno. E questo suo impegnare va ben oltre il fuoco acceso interiormente per una causa. La causa che lo muove è soprattutto a favore di questa umanità che lui vuol servire pienamente e totalmente con il vangelo, reso sempre più vivo con la sua applicazione alle realtà contemporanee. Quello che oggi si legge nei suoi libri, per quanto sia datato e si riferisca a situazioni che qua e là si potrebbero anche ricostruire, è tuttavia di continua attualità, proprio perché il suo discorrere è quanto mai profetico, in presenza di questioni politiche, sociali e religiose che non si limitano al quadro contingente. E così anche a rileggere oggi i testi, bisogna sempre ricordare che essi sono nati da una particolare problematica e sono inseriti in un particolare momento; se in realtà si leggono senza questa avvertenza, qualcuno potrebbe pensare che il testo sia ancora molto pertinente e vada diritto a toccare nervi ancora scoperti del mondo sociale e del mondo ecclesiale.
IMPEGNO CON CRISTO
La scelta di quest’uomo e dei suoi testi, in questo nostro voler risvegliare l’umano, deriva dal fatto che ci troviamo in presenza di una forte personalità, che appartiene, certo al mondo cattolico e alla Chiesa, in particolare, per il suo versante clericale, ma senza mai smentirsi come uomo e come uomo di frontiera, sul quale ognuno potrebbe riconoscersi, anche senza aderire ad una fede o a una parte politica. Per quanto il suo discorso non possa prescindere dalla sua scelta di vita sacerdotale, ogni persona potrebbe scoprire, in certe sue battute, un richiamo a quell’ “umano” che andrebbe sempre ricercato come basilare per tutti e come essenziale al vivere di ciascuno. Proprio come cattolico, nella sua accezione più vera e più profonda, don Primo vuole essere davvero di tutti, davvero universale; e vuol parlare diritto al cuore di ciascuno, muovendolo all’impegno, che non è solo operativo, ma è anche e soprattutto suscitatore di coscienze libere e responsabili. Indubbiamente il richiamo più forte e più noto è contenuto nel suo “Impegno con Cristo” del 1943, opera redatta in piena guerra come riflessione sua sulla funzione del cristianesimo nel passaggio storico che era già in corso.
Egli “si chiedeva se il cristianesimo avesse esaurito la sua funzione storica e si affrettava a rispondere negativamente, anzi aggiungeva: “Ben lungi dall’essere esaurito, il cristianesimo è il solo rimedio ai mali del nostro secolo” . Però il cristianesimo era da riscoprire in tutta la sua vigoria … Mazzolari chiamava all’im-pegno, senza giudicare chi non si impegnava, sapendo che “il mondo si muove, se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura” … E c’è una pagina, che vale tutto il libro e che chiarisce il rapporto cristiano-Chiesa. Questa non è “uno stato maggiore che dispone piani fino all’ultimo particolare … Il credente non è la pedina di uno scacchiere, la quale venga manovrata dal di fuori … il cristiano … deve agire secondo la propria coscienza in comunione con la Chiesa … La Chiesa non ha comandato né S. Benedetto, né S. Francesco, né S. Ignazio, né S. Giovanni Bosco … Ci sono compiti che lo Spirito Santo affida a ogni cristiano”. (Dorofatti, p. 246)
Per aver a che fare con colui che si è definito “Figlio dell’uomo”, ogni uomo può impegnarsi con lui e come lui. E questo lo può fare a partire dalla propria coscienza. Allo stesso modo chi è cristiano si impegna e se lo fa con la Chiesa non esprime il suo impegno perché “precettato”, ma perché così si sente un vero uomo che vuol vivere “da Dio”.
La pagina seguente ci può far intendere che cosa significhi per lui risvegliare l’umano, passando attraverso la figura di Cristo, non solo conosciuta sui libri, ma divenuta familiare in una fede profonda. Dobbiamo considerare quella figura, anche per chi non ci crede e magari chiede a noi le ragioni del nostro credere. E noi lo conosciamo non già a partire da una specie di “santino” preconfezionato, da un trattato che vuol spiegare ogni cosa con assolute certezze, per accettare ogni cosa “a scatola chiusa” o “ad occhi sbarrati”, ma per aver intuito che lui si è impegnato con noi, si è messo al nostro passo, inserendosi nel nostro vivere con il suo vivere, sempre con molta discrezione e con molto rispetto, anche quando egli chiede totalità, perché egli dà sempre il massimo e il meglio di sé.
Si parla troppo di Cristo; e avevamo pensato di tenere il suo nome, adorato e bestemmiato, dentro di noi, impegnandoci solo nel segreto. Il vero amore non si dichiara in pubblico senza tradirlo un po’. Ci sono pudori che vogliamo rispettare in noi e negli altri. Oggi più che mai: perché oggi, come in ogni ora sconvolta, le indicazioni e gli appelli verso il Cristo si fanno più insistenti. Di lui c’è chi dichiara l’irrimediabile tramonto: chi ne disegna una nuova giornata senza fine: chi l‘invoca nella disperata rovina di ogni cosa e gli s’avvinghia: chi lo maledice e se ne allontana. Dove s’avviino costoro che s’allontanano, non lo sappiamo. Parecchi, sgomenti di un andare senza mèta e senza mandato, credono, voltandosi indietro, di vedere il bagliore della spada dell’arcangelo che sbarra il ritorno. E davanti non c’è che l’ombra della croce. Ci sono troppe croci sul nostro cammino per immaginare che la sua possa essere eliminata come un ingombro. Il dolore, è vero, è un di più, ma non siamo ancora stati capaci di farne senza. Noi raccogliamo con venerazione ogni voce che lo riguarda, ma gli parliamo con la nostra, non importa se povera, non importa se appena un sospiro, un faticoso sospiro del cuore, che appena s’avvia, e da ogni strada, verso di lui. Noi raccogliamo con scrupolo ogni parola di fede o di negazione, ma lo vogliamo sentire, da presso o da lontano, col nostro cuore, ov’egli è presente per ogni pena che ci rode, per ogni anelito di bene che ci muove, per ogni fantasia di bellezza e di bontà che ci scalda. Parecchi non vi sanno dire ancora se credono in lui o se vi potranno credere domani; tutti però sappiamo ch‘egli è nel nostro cuore prima di ognuno, ch’egli è presente più di ognuno, più a casa sua in noi di noi stessi, e che il primo e più fermo impegno nostro è per lui. Per lui, più ancora che per la sua parola: per lui, più ancora di ogni suo esempio: per lui, più di ogni cosa sua che lo riguardi sia in cielo che in terra: per lui, come lo vedono i nostri poveri occhi, anche quando non lo vedono: anche quando non possono vederlo come vorrebbero: anche quando si rifiutano di vederlo come deve essere visto. Non tutti lo possono vedere nell‘ora trasfigurata del Tabor, né tutti arrivare «dov’egli dimora» e stare con lui. Quando si chiama, non tutti ci sentiamo rispondere: quando si picchia, non a tutti la porta si apre: quando si cerca, non sempre si trova. Se uno ci dice: «Abbiamo trovato il Signore»‚ si sentirà rispondere con Natanaele: «Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth?». E se quegli insiste: «Vieni e vedrai…»‚ ci metteremo in strada, sicuri che il Signore avrà per noi la stessa accoglienza: «Ecco un vero Israelita in cui non c’è frode». Proprio così: gente che vuol vedere, che va per vedere, poiché la fede, se è un vedere con l’occhio che c’impresta il Signore, è anche questo sincero e continuato desiderio di ricerca che ci fa camminare fino alla fine, quando «può venire la notte come può venire il giorno». Se scenderà la notte, domanderemo di rimanere come le Vergini sapienti, custodendo, nella vigile attesa, più che la debole fiamma della lampada, l’olio per accenderla all‘apparire dello Sposo. Se comincerà il giorno, scenderemo sulle piazze per essere impegnati, poiché «sul far del giorno il padrone esce sulla piazza per impegnare gli operai al lavoro nella sua vigna». E così ad ogni ora del giorno, fino all’ora nona, operai di qualsiasi ora, poiché lavora tanto chi porta il peso del sole, come chi porta il peso dell’attesa, il peso del non vedere, il peso di non essere chiamato. Molti ci domandano, prima di ogni altra cosa: «E voi che ne pensate del Cristo? Chi dite ch’egli sia?».Una domanda più che ragionevole in un mondo dove la forma vale più del contenuto e il definirsi ha maggiore importanza dell’essere. Una definizione, per quanto esatta, non ha nulla di impegnativo. La perfetta risposta di Pietro sulla strada di Cesarea dì Filippo non lo salva dal rinnegare tre volte il Maestro, mentre un generico: «Tu, Signore, sai che ti voglio bene» lo impegna fino alla morte e più oltre. Tutti conosciamo la risposta della fede e molti di noi possono ripeterla, per grazia, davanti a chiunque. Se non lo facciamo, è perché siamo persuasi che un’ostensione puramente letterale, se scompagnata da una testimonianza di vita, allontana invece di avvicinare il lontano: che camminando in silenzio accanto ai molti che cercano, cercatori anche noi di una realtà ineffabile che non si esaurisce in una formula quantunque esatta e significativa, possiamo meglio aiutare ed essere aiutati. Chi dice di veder meglio non sempre è davanti, non sempre è il servitore più operoso, non sempre il più fedele. Siamo malati con chi è malato: forti coi forti: sapienti coi sapienti: pellegrini con chi cammina: cercatori con quelli che non hanno fede o credono di non averla.
La vera gerarchia insegnataci dal Vangelo incomincia dall’«ultimo». Una fede che prende il passo di chi non crede, non è qualcosa di perduto o di diminuito. Ci chiedete: «Chi è il Cristo per voi?» e vi accontentate di una risposta che può essere di sola memoria! Chiedeteci (prima o dopo non importa: ciò che è vivo non conosce cerimoniale): «Che cosa voi proponete di essere per Cristo?». E vi risponderemo: «Vogliamo essere qualcuno per lui, come egli è qualcuno per noi». Un ponte vuole due testate. Qualcuno anche di qua e che si offra: come si offre l’Offerto. Qualcuno che si perda e si ritrovi in un libero continuo donarsi, perduto e redento, «figlio dell’uomo» che si accetta com’è e che, dietro ineffabili richiami, cammina verso la manifestazione del «Figlio di Dio»‚ punto di arrivo più che linea di partenza. Come e quando si arrivi, nessuno può saperlo e imporlo. Ci possiamo arrivare come Nicodemo o come Zaccheo, come Pietro o come Paolo, come il Buon ladrone o come il Centurione. Rispetto a lui niente è conclusivo, niente vano, anche il più vuoto camminare, anche il più smarrito. Egli ci attende e ci raggiunge, ci rampogna e ci consola, sta all’avanguardia e alla retroguardia, a seconda del nostro camminare a ritroso o in armonia con noi stessi. Prendere impegno con lui non vuoi dire: mettere il Cristo dalla nostra parte, adattarlo al nostro passo, misurarlo col nostro metro, obbligarlo alle nostre strade. Egli cammina con ognuno su tutte le nostre strade, ma non per questo sono sue le nostre strade. Egli cammina sui campi di battaglia, ma nessuno oserà dire che egli li ha voluti. Impegnandoci con lui, intendiamo prima di tutto impedirci dall’attribuirgli qualsiasi cosa nostra che lo oscuri e lo diminuisca. Ci impegnamo a seguirlo, non a farci seguire. Se ci tien dietro, è col suo cuore di Buon Pastore che ci tien dietro: siamo degli smarriti ed egli, nella sua carità, viene sulle nostre tracce. Ci impegnamo a seguirlo, costi quello che costi, perché «gli uccelli dell’aria hanno i loro nidi, le volpi le loro tane, e il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo». Ci impegnamo a seguirlo senza guardare indietro, senza commiati, senza rimpianti, senza nostalgie di cose, senza chiedergli dove sia e se ci può prendere: a seguirlo sino alla fine, senza chiedergli su quale monte né su quale croce potremo dire il nostro «consummatum est»‚ senza chiedergli che ci darà per le cose che abbiamo abbandonate. Se ci prende con sé, se ci fa lavorare, se ci manda come pecore in mezzo ai lupi, col suo nome nel cuore più che sul labbro, noi saremo contenti. Una sola cosa osiamo chiedergli: che ci chiami «amico»‚ anche quando stiamo per tradirlo. Sotto quel nome, il nostro povero cuore trasalirà nella certezza di essere stato portato al di là del limite umano. Conosciamo i nostri limiti: i limiti del nostro slancio, i limiti dei nostro cuore, i limiti della nostra volontà, i limiti della nostra fedeltà. Ci sentiamo uomini e così poveri uomini che non siamo sicuri di niente di ciò che ci riguarda. Ci sentiamo viandanti e vorremmo, prima che cali la sera, godere il nostro breve passaggio. L’impegno ci spinge più in là: verso Qualcuno che resti anche quando noi passiamo: verso Qualcuno che ci prenda in mano il nostro cuore se il cuore non regge al salire. Seguendolo, non sappiamo di preciso se lo raggiungeremo, né dove lo raggiungeremo: sappiamo solo di camminare sulle orme di colui che per avere preso impegno con la verità segnò di sangue il proprio sentiero. Sappiamo di non essere più soli, qualunque sia la nostra strada.
Il testo si presenta come una riflessione sulla pagina evangelica delle Beatitudini e suggerisce riflessioni e atteggiamenti che siano sempre più in linea con il Vangelo, e soprattutto espressioni “dell’umano” …
Mazzolari intende contrastare il disinteresse di molti verso la figura di Cristo, propone una originale lettura del Vangelo, in particolare delle Beatitudini, e fissa una serie di riflessioni sulla necessità di superare tutte le forme di ingiustizia e di immergersi nella tempesta del momento, visto come un tempo tipico del cristiano. Secondo Mazzolari si deve mostrare anzitutto che il cristianesimo è «vivo nell’ordine dei fatti» e occorre dunque preparare uomini nuovi, dei veri e propri santi, capaci di una santità non eterea ma fondata sulla pienezza della persona umana. Egli contesta il comodo rifugio nel devozionismo, che concilia ogni esigenza del vivere quotidiano; ribadisce che «il muoversi a proprio rischio non è disobbedienza: lo sbagliare non è atto di ribellione»; mette in guardia contro la spinta a caricare di ogni responsabilità la figura del papa; ricorda la grandezza di santi del passato che seppero prendere iniziative personali senza attendere il comando dell’autorità ecclesiastica …
TEMPO DI CREDERE
Vorrei però mettere l’accento su un testo precedente, scritto e pubblicato nel 1940, 80 anni fa, come di questi giorni, e che è indubbiamente più famoso, se non altro perché incappò nelle censure politiche del regime di allora, che nel 1941 ne proibì la pubblicazione. Si tratta di un testo dalla forte connotazione religiosa, perché don Primo voleva commentare un brano evangelico, per iniziare quel cammino di uscita della Chiesa dai propri recinti con una vera spinta missionaria, senza però la connotazione del proselitismo e della propaganda di tipo apologetico.
Don Primo non vuole mettersi in funzione della difesa della Chiesa e della conquista, da parte di essa, di spazi pubblici che sembravano sempre più limitati, non solo dal sistema politico dittatoriale, ma anche da una visione molto corta del senso del vangelo e della fede cristiana.
Lo potremmo considerare un commento evangelico ai singoli versetti del famoso episodio dei “discepoli di Emmaus”. Non è una predica. Non è neppure un commento esegetico, come potrebbe farlo un biblista, e neppure un testo propriamente spirituale come potrebbe uscire dalla bocca e dal cuore di un direttore d’anime. È piuttosto una riflessione ad ampio respiro circa la religiosità nel tempo, che è ormai segnato dalla guerra, e nell’ambito dell’Europa occidentale, ormai destinata ad un cambiamento epocale, di cui non si potevano ancora vedere gli esiti. Ripercorrendo il cammino dei due, a cui si associa il Risorto, il prete cremonese riconosce che è necessario riaccendere la speranza, dentro un mondo che crolla, a partire da una fede più genuina, quella che lui sente di avere nel Cristo, e quella che lui riconosce presente, anche solo come ricerca, nel cuore di tanti, anche quando la fede tradizionale è stata abbandonata, così come risulta abbandonata una Chiesa che smarrisce il senso vero della sua missione.
“Tempo di credere” diventa il titolo del testo, quando ormai esso è in corso d’opera, come se l’autore coltivasse un obiettivo che tuttavia gli si chiarisce “cammin facendo”.
Il nome del libro è nato da questo camminare scoperto, sotto ogni tempo, in cerca di un respiro per non soffocare, di un punto fermo per non lasciarmi portar via, di un porto per rifugiarvi, più che la mia, l’anima di coloro che il Signore mi dà … Sono anch’io un pellegrino dell’assoluto, e senza mettermi contro, cerco più in alto e più oltre gli uomini; più alto e più oltre le cose, senza rinunciare a niente; più in alto e più oltre gli avvenimenti, pur riconoscendoli buoni compagni di viaggio. Sto con tutti e non sono di nessuno. Se mi apparto non sono un cristiano; se non soffro insieme a tutti, non sono un cristiano; se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Chi diserta non si salva: vince solo chi accetta di combattere a qualsiasi condizione. Non può esistere un cristiano neutrale: e volete ch’io lo sia di fronte a questo mondo in agonia, che pur negandone la possibilità, muore per la manifestazione del regno di Dio? Se cerco di giustificarmi, col vangelo, di non amare il mio tempo e di non patire per la sua salvezza, so che bestemmio il vangelo”.
(p. 16-17)
Basterebbero da sole queste poche parole introduttive del suo testo per definire il programma del testo stesso, che è poi il programma di vita di questo prete per il corso della guerra. Letto oggi, esso può diventare programmatico pure per noi in questa opera di immettere lo spirito giusto in presenza di un mondo devastato non solo da un virus, ma soprattutto da quella venefica concezione di vita che rinchiude, che mortifica, che ci fa egoisti e in tal modo ci disumanizza.
Don Prima si prefigge, sì, di rileggere l’esperienza di vita dei due di Emmaus, ma la sua lettura del vangelo non è solo l’analisi di un testo per farne una predica, proprio perché il suo pubblico non è quello di poche persone rinchiuse in una chiesa, e perché il suo dire non si rinchiude nelle poche esortazioni moralistiche di un’omelia domenicale. E si potrebbe anche dire che il pubblico, a cui si rivolge, non è solo quello a cui è abituato dalla sua missione di parroco, quelli che frequentano e che già conoscono il suo dire e già si aspettano nel corso di una cerimonia liturgica certi frasari, a volte un po’ scontati. Lui parla anche ai lontani; anzi, forse di più a loro e proprio per questo ricorre ad un lessico che è ben al di là delle parole familiari in bocca ad un prete, e soprattutto ricorrenti e un po’ scontate nella retorica di una predica. Comunque lui vuole scuotere tutti; e, per quanto ricorra ad un testo evangelico, per quanto parli da credente e da prete, don Primo raggiunge il cuore delle persone che vuol coinvolgere in un’ora, come è l’ora decisiva del Cristo nella sua passione. Ogni ora richiede la passione e, in particolare, la medesima passione del Cristo, di colui che, presentandosi come Figlio dell’uomo proprio in quell’ora, vuol far capire che ogni uomo è chiamato a vivere così, e lo è nella sua ora, quella che ogni generazione ha da vivere affrontando i mali insorgenti, i mali che soprattutto sono dentro il cuore umano.
Nessuno può rimandare a domani quando è l’ora: “e questa è l’ora”. Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle. Nessuno può fare l’uomo saggio, quando tutto è folle, sulle piazze e nei cuori. Ci si deve vergognare di presentarsi in borghese fra tanto grigioverde: di avere una faccia benestante fra tanta fame. Non c’è nulla di più spregevole del profittatore spirituale che, mentre il mondo si frantuma, non sa che ripetergli: “Ve l’avevo detto!”. Non ci vuol molta intelligenza per vedere ove conducono certe strade. Sarebbe stato meglio, se invece del profeta a buon mercato, avessi camminato le strade che suggerivo agli altri. Nessuno le ha viste, perché le strade vere sono gli uomini che camminano, non le frecce che le indicano.
Invece, criticando sottovoce in privato e applaudendo in pubblico senza ritegno, ho seguito chiunque. E avrei dovuto buttarmi a terra per far barricata col mio corpo davanti al precipizio. Mi è mancata perfino la forza di parlare: e tutti sappiamo che povera cosa è la parola! Non mi è rimasto che un po’ di fede, perché questo nostro tempo, dopo la grazia, mi dà mano a mantenerla. Oggi non è più questione di credere o non credere. Siam tutti uomini di fede: non incontro e non sento parlare che uomini di fede … Non c’è mai stata quaggiù tanta fede, pur tra così povere fedi”. E c’era bisogno di questa esperienza perché il cristiano potesse ritrovare anche un po’ di confidenza umana nel suo credo. Per il momento non c’è più conflitto tra uomini di ragione e uomini di fede. Siamo tutti in ginocchio. (p. 17-18)
Questo scampolo di prosa ci dà il fervore di quest’uomo e nello stesso tempo il riconoscimento della sua insufficienza, più che non quella altrui e quella diffusa, per comprendere in quale abisso si sia cascati con la drammatica situazione della guerra in corso, che in quegli stessi giorni e mesi sembrava in realtà una scelta avveduta e destinata ad un futuro glorioso. Ma così non fu – e lo sappiamo bene.
Rileggendo queste stesse parole che hanno sull’orizzonte quel tempo e quella realtà amara, noi non fatichiamo a sentire che il medesimo accorato intervento può servire anche ai nostri giorni, a delinearci il quadro nel quale ci troviamo immersi e che richiede sempre la medesima profezia, cioè la capacità di vedere sempre più in profondità, sempre oltre la superficiale considerazione del contingente. Piuttosto che profeti di sventura, quelli, che mediante quadri definiti impropriamente apocalittici (volendo considerare l’apocalisse una disastrosa rovina e un devastante sovvertimento), vogliono spaventare additando orizzonti foschi e immagini catastrofiche, sembrano godere nell’aver avuto ragione col segnalare in anteprima il male piuttosto che indicare strade diverse. È interessante che il prete cremonese non voglia affatto suggerire con le strade delle indicazioni di carattere morale, come sempre ci si aspetta in presenza di simili discorsi. Per lui la strada non è una retorica moralistica, non è una filosofia di facile presa, non è una predica roboante, in tutto simile, nel tono e fors’anche nei contenuti, a certi discorsi altisonanti da finestre e balconi di palazzi ben noti. La strada è pur sempre la persona, l’individuo che merita rispetto e considerazione: è colui ed è colei da cui possiamo derivare lo spirito umano e da cui far emergere la coscienza umana, affinché quell’umanesimo – e non la facile retorica – ci possa salvare e possa costruire un mondo ben diverso. Anche il suggerimento di non contrapporre uomini di fede (la quale è spesso divenuta forma di fanatismo, religioso e politico, allora come oggi), con gli uomini di ragione, o, come diremmo noi, di scienza, ci porta a dire, come suggerisce don Primo, di sentirci tutti, come “in ginocchio”, un po’ più umili nella nostra visione delle cose, degli eventi, delle persone, senza la pretesa di affermare con tanta sicumera o di negare con tanta improvvida insipienza.
Qui siamo solo nella introduzione al suo libro, una sorta di portale d’ingresso, che comunque, già per questo primo approccio al discorso, invoglia ad andare ben oltre. L’autore analizza il famoso episodio evangelico, che appare qui come il pretesto per offrire una lettura da credente, senza comunque limitarsi ai credenti.
La scelta dei due di Emmaus, così anonimi, nonostante si dica di uno il nome (che ha un forte valore simbolico), vuol farci capire che questa esperienza proposta dal vangelo non riguarda solo coloro che dovremmo considerare come dei privilegiati per essere stati i compagni di cammino del Maestro. Il Signore risorto va indubbiamente a cercare i suoi, quelli che poi dovranno sostenere l’impegno dell’annuncio di un simile evento, perché facciano l’esperienza della sua risurrezione, perché imparino a vedere se vogliono effettivamente far vedere a loro volta. E tuttavia Gesù va a cercare anche altri, anche quelli che non hanno rilievo “gerarchico” e che, dopo questo episodio ricadranno nel loro anonimato, lasciando solo il ricordo del nome di uno, Cleopa, colui, cioè, che non vede, che ha la vista bloccata, e che tuttavia viene ricondotto a vedere meglio, perché poi riesce a vedere oltre, sempre più in là dell’immediato.
Così si potrebbe dire che il Signore va a cercare anche quelli che dicono di non avere la fede in lui, soprattutto se questa fede appare provenire da un sistema, da un’organizzazione, da una gerarchia che ha dogmi e norme da proporre dall’alto della propria autorità. Se per don Primo la fede è indubbiamente quella cristiana, egli però vuol parlare a tutti, liberandosi e liberandoli da un sistema di fede fideistico, che già a quei tempi era pervasivo dentro la Chiesa e dentro la società, soprattutto quando questa era retta da un regime. Egli vuol proporre un altro tipo di fede, che viene a coincidere con la fede cristiana, non costruita solo su dottrine, ma divenuta soprattutto “spirito e vita” e quindi appello alla coscienza.
È tempo di fede: ma di quali strane fedi è pieno il mondo! L’uomo si è dimesso perché molti gli dicono che c’è qualcosa di più grande di lui, di più urgente del suo destino. Io vi dico che non c’è nulla di più urgente del destino di salvezza che investe ogni uomo; che c’è sempre stato qualcuno di più grande dell’uomo, e che tutti i tempi sono tempi straordinari. Non esistono tempi ordinari. Esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora, per il solo motivo che non è solcata da portentosi avvenimenti.
Non ci si deve mettere a ragionare perché c’è bonaccia, ma perché sotto qualunque tempo è doveroso ragionare com’è doveroso arrivare di là della ragione. Son due momenti egualmente necessari della stessa necessità di vivere da uomo, i quali si confondono e marciano insieme anche quando par che si combattano. Il guaio incomincia quando la gente, la quale non riconosce lo straordinario d’ogni epoca, incalzata da avvenimenti subitanei e sproporzionati alla propria fantasia, perde, con la ragione, la stessa dignità, e s’attacca e crede a tutto pur di campare. È proprio dell’uomo il credere: ma vi son fedi così provvisorie e paurose che non vien voglia di discuterle. Solo i credenti nel vangelo e nella chiesa meritano d’essere importunati con richieste di ogni genere, poiché questa fede impegna veramente chi crede e soltanto chi crede, mentre certe fedi temporali impegnano piuttosto chi non crede. E come sto libero di fronte alla mia fede! Se la grazia m’abbandona non ho più vincoli e posso, andandomene, sbatacchiare l’uscio di casa come il prodigo, e dir male di un credo che mi ha riabilitato, di una chiesa che mi ha custodito e fatto capace anche di rivolta. Non così i fedeli delle religioni temporali, che debbono attendere la sostituzione ufficiale degli idoli e disporsi immediatamente a quei nuovi riti, che i più audaci adotteranno, per gli altri più che per sé. Tale è il destino di queste fedi che considerano come fine l’oggetto presente e il minuto presente. Ci vuol del coraggio o della disperazione tanta per ripiegare in posizioni di fedi temporali che non ci permettono neanche d’illuderci! (p. 18-19)
Anche in questo caso dobbiamo riconoscere il valore profetico di un simile testo, non perché indovini problemi che anche noi oggi siamo chiamati ad affrontare, ma perché la lettura che egli fa del proprio tempo non si limita a denunciare manchevolezze contingenti, quanto piuttosto un malessere che dice la scarsa fiducia di chi ha e deve dare credibilità e che dice anche la debolezza raziocinante, che affiora soprattutto quando insorgono problemi che noi definiamo mai prima affrontati, perché mai prima insorti. Quando nel vangelo il Signore Gesù, secondo quanto scrivono gli autori, preannuncia catastrofi, non dice nulla di sostanzialmente profetico, perché non ci vuole molta fantasia per pensare che, come in diverse epoche e zone della terra si registrano questi eventi, ancora se ne dovranno registrare in altre epoche e in altre parti. Ciò che il vangelo suggerisce non è di avere vigilanza e quindi di guardarsi da queste cose, quanto piuttosto di guardare a se stessi, di badare al proprio modo di considerare questi problemi, che noi vorremmo ritenere straordinari e soprattutto imprevisti. Tutto questo, come dice don Primo, fa perdere con la ragione la stessa dignità e si finisce per credere a tutto, con una fede che ha il sapore amaro della creduloneria.
Per lui il fideismo di matrice religiosa può portare al fanatismo e questo – lo sappiamo bene anche dai nostri giorni – conduce ad aberrazioni inqualificabili. Non mi riferisco solo alle forme di terrorismo, ma anche a certe forme di dogmatismo, che comportano solo condanne di eresie, guerre più o meno sante, costruzioni di pensiero solo in contrapposizione, affermazioni di principio che si vorrebbero come tesi dimostrate e che spesso appaiono solo come postulati indimostrabili. Se l’affermazione e la salvaguardia della verità deve comportare l’annientamento dell’eretico, non solo nel suo pensiero, ma anche nella sua dignità e perfino della sua fisionomia fisica di persona, allora quella verità appare più un idolo che la rivelazione di un Dio. Anche qui è necessario risvegliare l’umano, perché si rischia di conculcare la vera immagini di Dio che è l’uomo vivente, volendo salvare quel simulacro di immagine che noi vogliamo trovare in affermazioni di principio. La dottrina è sempre utile nella ricerca, ma questa ha come obiettivo la persona di Dio e la persona dell’uomo.
Ecco come lo esprime don Primo:
Nel sogno cristiano, poiché vi compiacete di dar questo nome al nostro evangelo, la gioia sovrabbonda, perché vi ha preso stanza l’Amore. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo così, se ognuno non ne avesse l’immagine nel proprio cuore: nessuno lo accoglierebbe, se non lo sentisse suo, di un possesso che può essere perduto, non rapito: nessuno vi attaccherebbe il cuore s’egli non avesse un volto, una parola, un cuore, il Cuore dei cuori. Il nostro Dio fatto uomo è ben più grande del mio sogno: né il mio sospiro lo raggiunge, né la mia fede, benché la mia fede sia lui; lui, più reale d’ogni nostra piccola realtà, più vivo d’ogni vivente, più parlante d’ogni nostra parola, irraggiungibile, eppur vicino, di tutti e pur mio; lui, presente su ogni strada, in ogni uomo, in ogni creatura, in ogni cosa, perché io non sia più solo. Nella sua vita come nella sua morte, nulla mi lascia indifferente: nulla mi diminuisce: nessuna gioia viene offuscata, nessuna pena perduta. Coi suoi occhi posso fissare perfino il mio passato, voler bene anche al dolore, capire anche la morte. Senza di lui non capisco niente; senza il suo perdono, l’indulgenza mi fiacca; senza la sua casa l’esilio non ha fine … non so dirvi di preciso ov’egli abita e com’è la sua casa. So che ogni strada vi può condurre; che c’è posto per tutti; ch’essa è fatta dalle mie umiliazioni più che dai miei successi, dai miei patimenti più che dai miei piaceri. Non merito d’esservi ospitato e vi vengo accolto con festa; sono un diseredato dal peccato e vengo adottato dalla grazia. (p. 20-21)
Questa è solo la prefazione al libro, e quindi è l’avvio di quel lavoro di riflessione che vede al centro i due di Emmaus, immagini, costoro, di tanti anonimi pellegrini nel mondo alla ricerca di un senso al vivere. Noi spesso immaginiamo di perderlo in presenza di particolari amarezze, quando certi sogni appaiono infranti e sono solo rimandati ad un esito che sta sempre più in là, sovente ben oltre il tempo e lo spazio di una breve vita, anche quando questa potrebbe prolungarsi, secondo certi schemi nostri, un po’ riduttivi.
Che cosa ha detto questo prete di così problematico da far intervenire la censura politica e da far mettere in apprensione la censura ecclesiastica? Evidentemente qualcosa che disturba le certezze inconsistenti di un certo potere, che appare quanto mai debole nella sua ostentata severità di giudizio.
Andrebbe letto il testo nella sua integralità. Andrebbe soprattutto riletto alla luce dei problemi successivi e dei nostri tempi, dove esistono altre forme di censura più sofisticate e dove è più che mai necessario “risvegliare l’umano”, che qui si trova e che in certe strutture risulta tradito o conculcato.
Certo, la mente fervida e la penna sapientemente usata dello scrittore, che di getto pone nero su bianco, non si lasciano affatto frenare o limitare dalle inevitabili censure, dalle calunnie e dalle condanne. Più che parole di un fuoco distruttore e parole incendiarie di contrapposizione polemica che inducono alla rivoluzione, don Mazzolari denuncia, sì, il male e le insufficienze, ma sempre nell’intento di suscitare una coscienza più viva e più accalorata, che spinga a rendere il vivere umano e cristiano molto più significativo di tanta retorica predominante o di tanta dottrina poco convinta e soprattutto poco convincente.
Queste sue parole, anche quando denunciano, riaccendono il fuoco dell’impegno, e sono quindi il vero risveglio di cui abbiamo bisogno, quel risveglio che non è solo di una parte contro altre, ma diventa coinvolgente con tutti, proprio perché questa sua azione va a toccare l’umano, lo spirito umano a partire da colui che si è sempre presentato come Figlio dell’uomo e come tale poi si è scoperto essere Figlio di Dio nella sua morte e risurrezione.
La vita non è facile per nessuno, neanche per chi s’è procacciato o è riuscito a difendere largamente il proprio benessere. Nonostante l’ostentata sicurezza di alcuni nuovi sistemi spirituali e di alcuni nuovi civili ordinamenti; nonostante il proclamato procedere verso ore di grandezza – il riferimento è al fascismo nell’ora della chiamata alle armi per la guerra (N.d.R.) – la povertà e la brevità delle nostre giornate umane è da tutti avvertita, com’è avvertita la precaria e pericolosa consistenza di tante affrettate e troppo magnificate conquiste del mondo moderno. Siamo gente in affanno più che in vero e proprio travaglio. Abbiamo fretta di cose nuove, e non sappiamo smobilitarci interamente del vecchio, che, pur parendoci superato, finisce per non essere trascurabile del tutto, dato l’estremo bisogno di appoggi. In tale non voluta ma imposta provvisorietà che si riaffaccia con insistenza contagiosa dopo ogni nuova esperienza e dopo i più clamorosi successi, trova sufficiente spiegazione il nostro poco logico, ma reale comportamento verso la religione, che se per qualcuno, più scaltro che intelligente, è una comoda opportunità, per chi ha cuore, è il documento della nostra inguaribile povertà. Infatti, fra tanto parlare di religione, il nostro vero essere religioso non è mai stato così trascurato e così poco capito. (p. 27)
Anche adesso abbiamo fretta di goderci cose nuove, di lasciarci incantare e sedurre dai ritrovati della tecnica, che indubbiamente facilitano il vivere. E nello stesso tempo troviamo molti ancora intestarditi a conservare, in nome di una tradizione male intesa, ciò che invece può essere caduco nella forma, seppur valido nella sostanza. Evidentemente – come dice don Primo – noi ci sentiamo più sicuri a conservare, soprattutto se abbiamo un’età nella quale abbiamo costruito i nostri “punti fermi”. In genere è proprio il mondo religioso con i suoi schemi “tradizionali”, che spesso diventano “tradizionalisti” che si vorrebbe conservare. Eppure anch’esso partecipa del vivere e perciò richiede una modalità espressiva che appartiene alla vitalità dello Spirito, più che non alla fissità di una legge eterna. Quando questo “nostro vero essere religioso” non è capito nella sua essenza e viene letto nelle sue apparenze ed esteriorità, si fatica a comprenderne il valore, soprattutto la sua capacità di “risvegliare l’umano”!
Qualcuno, pur non osando dichiararsi anticristiano, esagera l’apparenza depressiva di quei gruppi devozionali, i quali, benché meno numerosi d’una volta, e con assai dubbia autorità, presentano un tipo di cristianesimo, che, nella sua evidente e intollerabile deformazione, allontana e disgusta gli spiriti generosi. Si tratta di quell’errore di calcolo, assai frequente e grave, che consiste nel confondere il segno del più col segno del meno: l’errore, che crede di elevare la grazia abbassando la natura. Invece di tendere, con ogni sforzo, all’imitazione dell’inarrivabile splendore dell’Uomo-Cristo, leggiamo la sua vita e la sua parola con spirito rinunciatario; mentre, quasi a scusa, ci si chiude nel mondo interiore, giustamente preoccupati della nostra perfezione, ma dimentichi, al tempo stesso, che ogni interna elevazione, ogni conquista segnata nell’intimo, ogni profondità di grazia richiede una corrispondente affermazione di dignità e di grandezza umana.
Altrimenti verrebbe da pensare che codesto ritirarsi, invece di una difesa che prepara la conquista, documenti un animo debole e pauroso. Troppi cenacoli chiusi in queste ore che portano sul vento di tante tragedie i fermenti della vita e della morte! …
Un giovane che vive con passione l’ora meravigliosa di questo mondo traboccante d’energia, d’ardimento e d’immaginazione, non può sentirsi invogliato ad occuparsi di chiesa che non si presenta con richiami di alta tensione spirituale. Davanti alle chiese che si fanno deserte e fredde, non c’è che una risposta: una nuova fiamma nella chiesa. (p. 32-33)
“Come volete che si convertano e tornino a credere, quando vedono cos’è la nostra fedeltà? Come hanno ragione di spregiarci, quando ci vedono così deboli e tremanti! Di noi essi non conoscono che facce rivolte a terra, e ginocchia prone e schiene ricurve e tremanti” (Péguy). La cristianità dev’essere in piedi, a fronte alta e scoperta, e la luce del Risorto sarà nel suo volto e nei suoi propositi. (p. 35)
Proprio per il carattere “religioso” del testo, tutto dedicato a rileggere e ad attualizzare il brano evangelico, dovremmo dire che don Primo è più preoccupato di segnalare una debolezza del mondo cristiano e della sua espressione nella Chiesa davanti all’ora buia in cui è immersa l’umanità con il disastro delle guerra.
Le noie gli vengono dal potere politico, mentre per lui è più forte il richiamo ai cristiani e alla Chiesa nel suo insieme a risvegliare la fede, che per lui è soprattutto risvegliare – diremmo oggi – l’umano. Per lui è essenziale che si torni a vedere il Cristo come Figlio dell’uomo, che proprio per questo è il Figlio di Dio. e don Primo lamenta il fatto che non ci sia una visuale davvero più ampia e più profonda.
Non “vediamo”, perché siamo meno uomini o sotto-uomini.
A noi importa sapere il male che ci impedisce di essere uomini e di vivere il Cristo. (p. 69)
Quando ci si aprirono gli occhi, il nuovo ordine era già un fatto, e la chiesa vi aveva dato mano senza avvertirne le conseguenze negative nel campo morale e spirituale. L’individualismo era il frutto amaro di un uso sbagliato della ragione, che, distaccata da ogni altra facoltà, aveva disseccato le forze più istintive dell’uomo, minacciandone l’integrità interiore e la capacità di accordarsi con gli altri in un lavoro comune, per il bene comune. (p. 70)
Se la Chiesa, nel suo richiamare l’Uomo-Dio, e quindi la centralità del Cristo per divenire più uomini, non svolge la sua missione di “umanizzare” questo mondo in cui è immersa, viene meno al suo compito. Essa è chiamata a divenire strumento per la venuta del Regno di Dio, che è l’umanità costruita secondo lo Spirito di Dio. E per don Primo la Chiesa non è solo la gerarchia, ma è prima di tutto il laicato, che poi avrà nel Concilio la sua centralità come “Popolo di Dio”, dentro il quale – e non al di sopra di esso – ha senso la presenza della gerarchia. Ma il laicato deve “destarsi” e assumere le proprie responsabilità. L’assunzione di compiti deriva da una particolare vocazione e nel contempo da un riconoscimento di chi ha il compito nella Chiesa di coordinare, non di suscitare, i diversi carismi. Occorre però andare oltre, senza per questo andare contro le forme giuridiche e lasciarsi guidare dallo Spirito che irrompe sempre come a Pentecoste.
Così don Primo chiude la sua opera: ci dà l’immagine di un cenacolo, da cui, aprendosi le porte, chi è dentro non sta più dentro, ma esce …
Qualcuno di quei di dentro deve uscire.
Il mondo attende la nuova pentecoste, il vento impetuoso che spalanchi tutte le porte delle nostre chiese: il fuoco che consumi tutte le paure: lo Spirito che faccia ripetere sui tetti e nelle lingue d’ognuno le grandi cose di Dio.
Quel giorno avremo di nuovo una cristianità in piedi di fronte a una civiltà prona davanti a tutti gli idoli: una fede che costruirà audacemente sovra le folli distruzioni delle piccole fedi: il nostro Credo cantato su tutte le strade per confondere il canto dell’odio e segnare, per sempre, contro le stolte pretese dei figli degli uomini, il libero respiro dei figli di Dio. (p. 189-190)
Ne deriva un impegno che coinvolge tutti, perché c’è in gioco il vivere e soprattutto il senso del vivere dell’uomo, non solo una mera sopravvivenza, non tanto una conduzione stanca e stancante del tempo, che in tal modo scorre consumandosi e usurandoci. L’impegno è di fatto una passione, quella di Cristo, che ha il duplice risvolto dell’entusiasmo, mai comunque del tutto dissociato dalla fatica del procedere, e della sofferenza, che non mortifica mai la serenità interiore, con cui si potrà pur sempre dire che … la vita è davvero meravigliosa, nella misura in cui è … veramente umana.
IL NOSTRO IMPEGNO
L’impegno, che don Primo vive e lascia come testimonianza ed eredità, è poi così delineato.
Ci impegnamo noi e non gli altri, unicamente noi e non gli altri,
né chi sta in alto né chi sta in basso, né chi crede né chi non crede.
Ci impegnamo senza pretendere che altri s‘impegni con noi o per suo conto,
come noi o in altro modo.
Ci impegnamo senza giudicare chi non s’impegna, senza accusare chi non s’impegna,
senza condannare chi non s’impegna, senza cercare perché non s’impegna,
senza disimpegnarci perché altri non s‘impegna.
Sappiamo di non poter nulla su alcuno né vogliamo forzar la mano ad alcuno,
devoti come siamo e come intendiamo rimanere al libero movimento di ogni spirito.
Noi non possiamo nulla su questa realtà che è il nostro mondo di fuori,
poveri come siamo e come intendiamo rimanere.
Se qualche cosa sentiamo di potere — e lo vogliamo fermamente — è su di noi, soltanto su di noi.
Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo,
si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura,
imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi.
L‘«ordine nuovo» incomincia se qualcuno si sforza di divenire un «uomo nuovo».
La primavera incomincia con il primo fiore,
il giorno con il primo barlume, la notte con la prima stella,
il torrente con la prima goccia, il fuoco con la prima scintilla,
l‘amore con il primo sogno.
Ci impegnamo perché non potremmo non impegnarci.
C’è qualcuno o qualche cosa in noi
— un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia — più forte di noi stessi.
Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che non si sa di preciso donde vengano,
ma che costituiscono la più sicura certezza, l‘unica certezza nel disorientamento generale.
Lo spirito può aprirsi un varco,
attraverso le resistenze del nostro egoismo, anche in questa maniera,
disponendoci a quelle nuove continuate obbedienze
che possono venire comandate in ognuno dalla coscienza, dalla ragione, dalla fede.
Ci impegnamo per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita,
una ragione che non sia una delle tante che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore,
un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte ai giovani dalla gente pratica.
Si vive una sola volta e non vogliamo essere giocati in nome di nessun piccolo interesse.
Non c‘importa della carriera, né del denaro, né delle donne, specie se soltanto femmine;
non c‘importa la nostra fortuna né quella delle nostre idee;
non c‘interessa di passare alla storia
(abbiamo il cuore giovane e ci fa paura il freddo della carta e dei marmi);
non c’interessa di apparire eroi o traditori davanti agli uomini, ma solo la fedeltà a noi stessi.
C’interessa di perderci per Qualcuno
che rimane anche dopo che noi siamo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci.
C’interessa di portare un destino eterno nel tempo,
di sentirci responsabili di tutto e di tutti,
di avviarci, sia pure attraverso lunghi erramenti, verso l’Amore,
che diffonde un sorriso di poesia su ogni creatura
e che ci fa pensosi davanti a una culla e in attesa davanti a una bara.
Ci impegnamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo.
Per amare anche quello che non possiamo accettare,
anche quello che non è amabile,
anche quello che pare rifiutarsi all‘amore
perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore
c’è, insieme a una grande sete d‘amore, il volto e il cuore dell’Amore.
Ci impegnamo perché noi crediamo nell’Amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci perdutamente.
Colombo don Ivano – Erba – 25 novembre 2020
Ci impegniamo …. insieme.
Raccogliendo l’invito dell’ Arcivescovo, rivolto a tutta la Diocesi, per la realizzazione di una “Settimana dei Centri Culturali Cattolici”, Don Ivano si è reso disponibile a tenere nel giorno di mercoledì 25 novembre, alle ore 15 e poi alle 21, un webinar (videoconferenza), che si inserisce nel tema proposto dai promotori dell’iniziativa :”INSIEME PER RISVEGLIARE L’UMANO”. L’argomento di cui parlerà Don Ivano è il seguente: CI IMPEGNIAMO : conversazione intorno a don Primo Mazzolari”.
L’evento è stato organizzato insieme dall’UTE di Erba A.P.S. e dal gruppo culturale “G. Lazzati” della parrocchia di Arcellasco.
Qual è il fine di questa manifestazione corale , in piena pandemia? La spiegazione è in questo video:
LA DOLCE MAMMA CON IL SUO TENERO BIMBO: LE MADONNE DI RAFFAELLO
La nostra immagine di Maria, quella che abbiamo cara perché ci è stata lasciata in consegna da chi ci ha preceduto qui, ci rivela una bella fisionomia di donna, che vuol mostrare e mettere in mano a noi il suo capolavoro. È una giovane mamma che non tiene per sé il suo bimbo, ma lo vuol proporre all’abbraccio nostro, cosicché, prendendolo nella sua tenerezza, abbiamo in mano anche noi colui che il Padre ha mandato come immagine del suo amore e che la Madre ci affida come frutto del suo grembo. Spesso Maria è ritratta nella sua fisionomia femminile piena di grazia, e quindi di una affascinante bellezza, ma anche di quella riservatezza che la fa essere tutta rivolta a Dio: noi abbiamo così l’Immacolata, quando dobbiamo considerare che, ricolma della grazia divina, in lei non appare ombra di peccato; ma abbiamo anche la Donna gloriosa, che salendo a Dio e lasciandosi assorbire dal mondo celeste, risulta sempre più nella luce dell’empireo. Poi si aggiungono altre immagini che colgono un aspetto della sua presenza e della sua azione in favore del popolo cristiano. Fra tutte sono più frequenti le immagini che la mostrano con Gesù an-cora Bambino, fornendo così ciò che maggiormente la qualifica e cioè la sua maternità, quella che noi riconosciamo in modo particolare quando il bambino ha bisogno dell’assistenza della mamma; essa, in genere, tiene in braccio o tiene per mano il suo piccolo, o lo sorveglia con lo sguardo attento e premuroso. Come ogni donna che vive la maternità, anche lei rimane per sempre la madre di Cristo e, per la nostra conformazione a Lui, è pure madre nostra. E così la si può vedere anche in altri momenti della vita di Gesù, come la vediamo spesso affacciarsi a questo mondo, che ella visita spesso con le sue apparizioni. Ma come in queste noi possiamo riconoscerla nel suo privilegiare i piccoli, che sceglie come i suoi interlocutori, non unici, ma certamente più frequenti, così noi la immaginiamo “mamma di Gesù”, soprattutto quando ce l’ha vicino a sé nei momenti della sua infanzia, anche senza pensarla nei giorni iniziali della sua esistenza terrena dentro il rifugio di fortuna trovato a Betlemme. (Per continuare a leggere cliccare QUIMADONNA DEL PARCO 2020 (versione verticale)
IL SIGNORE E’ ANCORA TRA NOI : BUONA PASQUA 2020
L’hanno voluto mettere a tacere. L’hanno voluto imprigionare nella morte. L’hanno voluto radiare da questo mondo. Ma il Signore non si lascia né comprimere, né opprimere, né deprimere. E vince, senza neppure voler avvincere, e quindi legare, imbrigliare, imbavagliare chi lo aveva messo a tacere. Vince, piuttosto, volendo convincere, cioè coinvolgere anche noi nella sua vittoria, perché, uscito dal sepolcro, va a raccogliere i suoi, quasi raggiungendoli uno per uno, perché, lasciandosi raggiungere dalla sua presenza, si ritrovino loro più vivi. Si ritrovino soprattutto capaci di continuare la sua passione, quella che, anche a far soffrire – e spesso non poco –, fa comunque vivere, e fa vivere meglio, perché con essa siamo in grado di reagire bene in presenza del male. Oggi siamo noi ad essere come sepolti, barricati in casa, come erano chiusi per paura i discepoli che si erano sbandati nelle ore buie della tragedia, inetti, inebetiti, sprovveduti, frastornati. Oggi ci troviamo noi, non a recitare quella parte, ma a vivere una esperienza amara che vorrebbe spegnere l’entusiasmo, la voglia di vivere e di reagire al male. Anche a provare amarezza, come l’ha provata il Signore davanti alla sua ora terribile, non dobbiamo reagire in maniera scomposta o in maniera disarmata e disarmante, propria di chi si lascia andare allo scoramento. Qui piuttosto è opportuno divenire più coraggiosi nell’affrontare la situazione, come hanno fatto le donne che sono andate al sepolcro, anche a sapere che non c’era più nulla da fare. Ma proprio questo loro coraggio ha permesso di diventare le prime a raccogliere la bella notizia. Leggi tutto “IL SIGNORE E’ ANCORA TRA NOI : BUONA PASQUA 2020”
Venerdì Santo 2020.
VENERDI ‘ SANTO 2020: FINO ALL’ULTIMO RESPIRO CON UNO SPIRITO NUOVO
Nel giorno commemorativo della morte del Signore bisognerebbe tacere. Lui stesso, sottoposto al processo, in gran parte di quel momento drammatico, secondo i sinottici, non secondo Giovanni, avrebbe opposto ai suoi calunniatori il silenzio. Si ricordano piuttosto le sette parole dette in croce dal Signore: poche, indubbiamente, anche se il numero simbolico fa pensare che ve ne fossero altre, che ne avesse da dire all’infinito. E tuttavia, soprattutto da quella posizione, diventava per lui molto difficoltoso parlare, se non altro perché il respiro si faceva più precario, e, secondo gli studiosi, quella dolorosa situazione portava alla morte per asfissia, resa anche più acuta dai dolori fisici e, non di meno, da quelli di natura psicologica. Proprio per questo suo modo di morire, egli merita più attenzione oggi, in presenza di una serie di morti, che non dobbiamo attribuire ad una crocifissione come la sua, ma a qualcosa di analogo, che tanti hanno dovuto affrontare, anche ad essere adagiati su un letto d’ospedale, e seguiti con tanti mezzi che sono risultati impotenti a scongiurare il crollo definitivo. Gesù è spirato dopo poche ore dalla sua crocifissione, e Pilato – secondo la testimonianza di Marco – “si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo”. Evidentemente egli riteneva che potesse durare più a lungo in una lunga e straziante agonia, come sarebbe stato anche per gli altri due, a cui furono rotte le gambe proprio per affrettare la morte. E così, a questo punto, essa interviene per soffocamento, non potendo più i condannati far leva sulle gambe stesse per continuare a respirare. Proprio questo “modo” di morire ci fa pensare in questi nostri giorni ai tanti a cui è sopraggiunta la morte, procurata da un virus mortale che blocca le vie respiratorie. Il dramma che stiamo vivendo, non solo per una propagazione così repentina e capillare un po’ dovunque, ma anche per la mancanza di strutture adeguate al fine di soccorrere chi non ce la fa con le proprie forze, ci fa considerare un aspetto della dolorosa agonia di Cristo in croce a cui spesso non badiamo, se non altro perché ci sconcertano le forme di violenza a cui il suo corpo è stato sottoposto sia nel processo, sia nella esecuzione della condanna. Indubbiamente le numerose piaghe diffuse sul corpo, il tanto sangue versato, i dolori lancinanti che sono intervenuti per le tante battiture hanno un peso considerevole in questo suo martirio. E tuttavia, per quanto possano essere davvero terribili i dolori patiti, il vangelo non insiste su questi, che noi osiamo definire dettagli e che dettagli in realtà non sono. Il vangelo, pur accennando alla flagellazione, pur parlando delle percosse, pur dicendo, nei particolari, della coronazione di spine – su cui si sofferma più che non sulla flagellazione – sembra quasi non indugiare nella loro descrizione, come pure nell’offrire commenti o annotazioni anche marginali, come capita di sentire per alcuni episodi – quali il pianto per l’amico Lazzaro o il giudizio piuttosto severo su Giuda nella cena di Betania , ma dà della fisionomia di Gesù in queste ore una descrizione che lo qualifica come uomo forte e dignitoso, aperto al perdono e ancora capace di confortare, come fa con la madre e il discepolo, come fa con il ladro pentito. Ha difficoltà a respirare e tuttavia ha pure la forza di gridare e la bontà di promettere il Regno a chi si raccomanda a lui. Ecco perché dobbiamo riconoscere che, pur non mancando dolori atroci – che non vanno affatto sminuiti – qui si deve “leggere” il grande amore del Signore, il quale, mentre sente venir meno il respiro, non tralascia di far uscire da sé il suo Spirito. Nel momento in cui si arriva a parlare della sua morte, si dice che egli “emise” (o “consegnò”) il suo spirito. Queste parole non sono semplicemente una annotazione di circostanza, come si farebbe per chiunque è nell’atto di esalare l’ultimo respiro, ma è più profondamente la presentazione di quel grande dono che il Signore Gesù, come Dio, come Figlio di Dio, lascia di sé, con lo Spirito. Questo Spirito giustamente qui viene segnalato come il lascito testamentario suo per noi. Non ha semplicemente dato l’ultimo fiato che aveva in gola, ma ha messo a disposizione nostra e per la nostra salvezza lo Spirito, che in effetti “emise”, nel senso di “mandar fuori”, cioè di dare in mano a noi, facendo uscire da sé. Proprio per questo possiamo dire che egli l’ha davvero messo in consegna, ben più del respiro d’aria, che pur necessita per stare in vita. È lo Spirito che appartenendo a Dio viene compartecipato a noi, sempre, ma in modo particolare per noi, in quel momento estremo che fa comprendere quanto sia davvero grande, vero, bello e profondo questo dono, che non è solo qualcosa di sé, ma proprio tutto di sé. E lo Spirito è colui che rivela come la persona di Dio sia tutta in uscita per noi, così come nell’uomo si rivela, quando anche noi non pensiamo più e prima a noi stessi, ma agli altri, come abbiamo visto fare e soprattutto come abbiamo visto essere anche in questi giorni veramente speciali e autentici per questo motivo. Possiamo vedere lo Spirito in coloro che hanno dato tutto di sé perché altri potessero vivere e lo possono davvero in questa pandemia di morte, ma anche di risurrezione per tanti.
E mentre pensiamo a questo istante di vita del Figlio dell’uomo, che nell’esalare l’ultimo respiro, dà il suo Spirito, vorremmo qui pensare ai tanti che sono morti (e ancora stanno morendo!) in questi giorni, privati del loro respiro da un virus terribile che soffoca; come pure a coloro che sono riusciti a sopravvivere, ma sentendo prossima la fine nelle varie crisi respiratorie. E vogliamo riconoscere che, anche da questo loro “venerdì santo”, molto più lungo, se distribuito di diversi giorni, anche senza essere santi, viene a noi una grazia speciale da quanto essi ci hanno dato e ci hanno lasciato come eredità del loro vivere, perché da noi continui, ben oltre le miserie umane dei nostri giorni, miserie fatte spesso di polemiche inutili, di recriminazioni solo dannose, di risentimenti senza costrutto. Questa grazia è lo Spirito che il Signore ci ha dato proprio nel suo morire; e ci viene anche da questo vivere il momento estremo di coloro che hanno da farci la consegna di sé, perché il loro spirito viva in noi e ci faccia vivere bene, come avrebbero voluto vivere loro, come pure ci hanno mostrato nel loro vivere e soprattutto nel loro morire. Lo hanno fatto da “poveri cristi”, spesso anche piagati, ma sempre con la volontà di darci il meglio, che sarebbe veramente poco onorevole e gratificante non raccogliere, perché facciamo anche noi il meglio, sempre e solo il meglio, pur in una situazione che ci appare come il peggio che ci sia potuto capitare. Nel rantolo di un respiro, che non viene più, molti hanno vissuto il loro “venerdì santo”, ma come il Figlio dell’uomo, anch’essi, veri figli dell’uomo, ci hanno dato in consegna quello che hanno fatto, spesso anche con amore e dedizione, perché sia raccolto così, mai con rabbia o con disperazione. E noi, stando sotto quella croce, che non è più quella fabbricata come simbolo di martirio oppure come decorazione per i luoghi o per il nostro corpo, stando sotto la croce di quanti sono caduti, abbracciati da nessuno di noi, ma dal Figlio dell’uomo che in loro si identifica, vogliamo, come i discepoli di allora, impotenti e devastati da tanto male, raccogliere questa eredità, sapendo di portare dentro di noi la vera sola energia che ci fa vivere meglio, anche in mezzo a questa prova e anche a superarla. È la forza che deriva dal loro respiro venuto a mancare perché a noi passasse il loro spirito che invece non mancherà mai. Così, invece di sentirci svuotati per i tanti che abbiamo visto cadere attorno a noi, ci sentiamo ricaricati da loro, così come ci sentiamo rivitalizzati dal morire di Cristo, che anche oggi, come sempre, ci ricorda che lui, anche a morire – anzi, proprio perché è morto – è la risurrezione e la vita. È la nostra risurrezione e la nostra vita. Lo è ancora di più quest’anno per tutte queste persone che hanno sentito venir meno il respiro e hanno lasciato lo Spirito, perché dopo questi giorni, chiusi dentro, per paura, possiamo venir fuori allo scoperto, come portatori in noi, non solo di un’aria nuova, ma soprattutto dello Spirito del Signore che ci fa vivere meglio, ci fa e ci farà vivere davvero “da Dio”!
Ricordando Maurizio.
Un mio amico che è venuto con me in Kenya nel 2018 ha fatto queste immagini che ha compendiato qui per mettere in luce la figura di Maurizio. é un modo per ricordarlo, anche in questi giorni di Pasqua. Sarebbe bello che venisse messo sul sito. io no me ne intendo. ma il mio esperto congolese potrebbe dare domani le indicazioni per questo.(Don Ivano)