AL SEPOLCRO DI GESÙ.

E FU SEPOLTO

Ancora oggi nella formula di fede, con cui pubblicamente i cristiani esprimono la loro adesione al Signore Gesù, essi dicono di credere a tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo percorso terreno, compresa la conclusione della sua sepoltura, mediante la quale “si mette una pietra sopra”, per dire così che tutto è finito. Ma quel fatto, pur così importante, se ancora viene segnalato nella professione di fede, non è affatto l’ultima parola con cui viene chiusa l’esistenza terrena di Gesù. La sepoltura risulta sola-mente un passaggio che introduce ad un mondo diverso: se Gesù è vis-suto dentro uno spazio preciso, come quello della Palestina, e dentro un periodo storico, come quello dell’Impero di Augusto e di Tiberio, con la morte noi dovremmo considerare chiusa definitivamente la sua esistenza, e così lo spazio è solo quello di una tomba che lo racchiude e il tempo, che continua a procedere, per lui si è fermato. Eppure questa sepoltura non è affatto la parola definitiva per Gesù: la nostra fede ci dice che lui ha superato le barriere della morte, per entrare in un’altra condizione di vita. Fa in modo di essere visto, e alcuni possono raccontare di averlo incontrato, perché lui si è mosso a cercarli. Ma egli vive in una dimensione nuova, se non altro perché lo vedono contemporaneamente in luoghi diversi, perché la sua presenza fisica non risulta spiegabile secondo criteri scientifici, anche se c’è gente che dice di averlo visto vivo, quando in precedenza avevano dovuto costatare che era morto e che era stato sepolto, per quanto la sua tumulazione risulterà essere stata provvisoria. Non lo è stata, perché chi ha fatto questa operazione aveva già in mente l’ipotesi della risurrezione, come un dato sicuro ed incontestabile sulla base di ciò che Gesù aveva anticipato. La ragione della fretta di depositarlo nella tomba derivava dal fatto che non avevano lassi di tempo per una operazione del genere, essendo imminente la festa di Pasqua e il comando rituale del riposo più rigoroso. Comunque nella tomba viene collocato ed era destinato a rimanere, così come erano assolutamente certe le donne di ritrovarlo disteso e pronto per le azioni necessarie a ripulirlo e a comporlo secondo le usanze, ma più ancora secondo le esigenze dell’affetto che le legava a quell’uomo. E se esse conservavano il desiderio di intervenire per lui, questa loro attesa spingeva ad affrettarsi, perché di buon mattino fossero sul posto a continuare la loro opera di devozione. Leggi tutto “AL SEPOLCRO DI GESÙ.”

Giuseppe: UOMO GIUSTO, MODELLO DI OGNI CREDENTE, CUSTODE DI GESU’ E DI MARIA.

UNO SGUARDO NELLA                      CASA DI NAZARETH

Dopo i racconti che riguardano la nascita e “i primi passi” di Gesù, di Giuseppe non si dice più nulla, se non che la famiglia, in seguito al suo “esodo” dall’Egitto, si era trasferita a Nazareth, come se si trattasse di una località su cui ripiegare, non potendo stare in Giudea, dove continuavano ad imperversare gli eredi di Erode. Eppure Nazareth dovrebbe essere la casa abituale di Giuseppe e di Maria! E certamente diventa la residenza abituale di Gesù, visto che poi lui si porta appresso questa qualifica, non del tutto onorevole, se in genere quelli della Galilea non godevano di grande considerazione tra i Giudei.

Poiché Luca dice che aveva circa 30 anni, quando comparve sul Giordano per il battesimo, e che era ritenuto figlio di Giuseppe, anche a non essere stato generato da lui, dovremmo supporre che Gesù sia rimasto in quel villaggio fino a quella età, non avendo alcuna notizia di quel lungo periodo, se non l’episodio di lui dodicenne, avvenuto però a Gerusalemme, nel tempio.

In maniera riassuntiva, Luca parla di una permanenza in quella casa, dove Gesù cresceva in età, sapienza e grazia, rimanendo sottomesso ai suoi genitori. Non si dice nulla propriamente del suo lavoro, una volta avviato ad esso – si suppone – dal padre, come se il suo apprendistato l’abbia fatto nella bottega di colui che poi il vangelo definisce “carpentiere”, per cui Gesù stesso era detto “figlio del carpentiere”. Qui si dovrebbe pensare che la figura di riferimento in questa casa sia stato Giuseppe, sul quale però il vangelo non dice molto e sul quale non lascia trasparire nessun episodio particolare e nessuna parola. Anzi, sembra quasi che, se già in precedenza egli non avesse compiti di rilievo, qui appariva sempre più a margine, fino a scomparire del tutto, come se al momento del distacco da casa di Gesù, Giuseppe non fosse più di questo mondo. Anche ad essere poi designato come “patrono dei morenti”, anche ad essere spesso rappresentato nel letto d’agonia circondato dai suoi cari, noi non abbiamo notizia alcuna della sua dipartita da questo mondo. Giuseppe rimane comunque legato, di fatto, a Nazareth e alla casa dove abitava con la sua famiglia. E qui deve aver trascorso alcuni anni. Solo dopo la sua scomparsa, a quanto pare, Gesù esce di casa.

Per quanto le notizie scarseggino, si potrebbe tentare di chiarire qualcosa a proposito di questo lungo periodo, sempre partendo dai testi evangelici, quelli canonici e quelli apocrifi, con quelle particolari letture che ne vengono date anche dalla devozione diffusa, che ha nelle opere artistiche una particolare forma espressiva, sia perché si rifanno ai vangeli, sia perché cercano di parlare agli occhi e al cuore della gente con una comunicazione più diretta.

Naturalmente sia della casa, sia della bottega, sia delle relazioni familiari che vi si esprimevano, noi qui dobbiamo cercare si far emergere meglio la figura di Giuseppe, che appare spesso “sacrificato”, perché l’attenzione è rivolta giustamente altrove, privilegiando Gesù e sua madre.

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La Via Crucis con Raffaello Sanzio.

L’esercizio della pietà cristiana di accompagnare il Signore nel suo percorso “glorioso” è stato qui vissuto con il grande artista rinascimentale, rievocato a 500 anni dalla morte; evento, che è da collocare in concomitanza con il giorno rievocativo della morte e della sepoltura del Signore. Sembra che l’artista stesso sia particolarmente segnato da questo incontro con il Signore che ha servito, con tutte le incoerenze dei comuni mortali, mettendo a profitto il suo genio artistico. Lo ha fatto, non tanto perché abbia servito nel cuore della cristianità, in quella Roma rinascimentale che proprio per lui e per tanti altri si abbelliva in quegli anni, ma perché la sua sensibilità religiosa, che possiamo cogliere nelle sue opere, anche a non avere un soggetto in quella direzione, lo faceva essere “divino”, come viene anche definito. Lo era, davvero! Lo era, non solo perché le belle fisionomie dei suoi soggetti ci trasportano in un’aura incantata e misteriosa, ma perché ci sentiamo avvicinare più che mai al divino, partendo da quanto di meglio egli poteva riscontrare nell’umano”. 
Percorriamo la Via Crucis accompagnati dalle opere di Raffaello.