FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE”

INTRODUZIONE

Religione come spiritualità

Entrare nell’ambito religioso, sia della vita sia delle opere di Dostoevskij, è addentrarsi in un mondo che per l’autore è essenziale ed esistenziale. Non è una religiosità chiara, sicura, adamantina: trattandosi di una ricerca, mai conclusa, essa appare con tutti i dubbi e con tutte i chiaro-oscuri di una materia, che avverte decisiva e nello stesso tempo mai sicuramente decisa. Per il fatto che il suo orizzonte storico e geografico è quello della Russia, è predominante una religiosità che trova le sue forme espressive nell’ortodossia. Ma il suo orizzonte non si limita lì, perché la sua religiosità viene da una profonda esigenza spirituale. E il tema religioso dipende dalle domande fondamentali a proposito della vita: sono le domande che attengono alla cosiddette “cose ultime”. E così le questioni di fondo sono quelle del destino dell’uomo e del suo vivere, il destino che ha il mondo, non solo come realtà naturale, e, più in là, addirittura, il destino di Dio. Poi, di fatto, la riflessione circa quei mali che si identificano con i demoni, legati alle idee provenienti dall’Europa, porta a considerare la necessità di una autentica rivoluzione, quella, naturalmente, dello spirito!

Dostoevskij ha indagato sino in fondo lo spirito rivoluzionario. Il destino storico della Russia ha giustificato le intuizioni di Dostoevskij per il quale la rivoluzione si è compiuta in considerevole misura. E per quanto essa sembri distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia deve essere riconosciuta per russa e tradizionale. L’auto distruzione è un tratto endemico. Tale costituzione della nostra anima nazionale ha aiutato Dostoevskij ad approfondire le cose dell’anima sino alla spiritualità, a uscire dai limiti della mediocrità dell’anima e a scoprire lontananze e profondità spirituali. (Berdajaev, p. 11)

Per una religiosità di popolo

Questo genere di analisi, fatta da Berdjaev a ridosso della rivoluzione ormai in atto, fa capire che la componente spirituale in Russia è stata di fatto sospesa, per una visione “religiosa” – quella messa in atto dai rivoluzionari – che non ha niente a che fare con la tradizione, perché la religione tradizionale viene combattuta come espressione della reazione e della controrivoluzione: essa si oppone non solo al cambiamento delle strutture e delle sovrastrutture, ma all’avvento del “sol dell’avvenire” identificato con il potere al popolo, che è di fatto “potere ai soviet del popolo”. L’indicazione data da Dostoevskij per il recupero della vera anima della Russia è stata disattesa, anche perché non è facile capire che cosa voglia di fatto suggerire lo scrittore con i suoi racconti. La religione di cui egli parla non si identifica di fatto con le forme tradizionali, e nello stesso tempo la religiosità “popolare” non appare sufficientemente elaborata e chiarita, se quanto noi scopriamo messo in bocca ai suoi personaggi risulta più un apparato di idee, che sono ben lungi da essere quelle sulla bocca e nella mente della gente comune, a cui egli fa appello.

Indubbiamente Dostoevskij ha come obiettivo il recupero della componente spirituale, che certamente è nel suo profondo coerente con l’eredità cristiana. Non si potrebbe comprendere pienamente il pensiero dello scrittore senza far riferimento al Cristianesimo e a ciò che di spirituale esso comunica, ben oltre le forme istituzionali e devozionali, ben oltre le forme dottrinarie e morali. Andare oltre qui significa che il suo è un cristianesimo visionario, costruito sulle immagini che egli ha e che egli dà mediante i racconti, spesso scaturenti dai personaggi dello stesso romanzo. Costoro si mettono a raccontare la loro “visione” di Dio, di Cristo, del tipo di mondo che essi vorrebbero vedere sempre ben oltre ciò che la storia o la realtà ci offre. Questo suo Cristianesimo visionario, fatto di immagini e di racconti, è indubbiamente molto suggestivo e nello stesso tempo molto sfuggente: attrae e seduce per la forza espressiva che esso ha, quasi un teatro dentro il teatro della vita, e nello stesso tempo crea forme di disorientamento, perché si fatica a trovare nel racconto qualcosa di ben definito circa la proposta di vita che andrebbe assunta fuori del racconto, quando poi si entra nella vita vissuta. Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE””

FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.

FEDOR DOSTOEVSKIJ nel 1876

INTRODUZIONE

La questione del male continua

Sempre e solo il male. Ciò che domina nella vita e nelle opere di Dostoevskij è il male. E tuttavia non è qualcosa di disperato e di disperante. Si potrebbe dire però che esso diventa ossessivo, anche perché tra l’epilessia che lo assale frequentemente, il demone del gioco che lo prende e lo seduce senza scampo, e la necessità di sfuggire ai creditori e agli editori, egli si sente attanagliato e sempre più avvinto. Se rifugge dall’idea che il male debba essere cercato e trovato in un sistema che corrompe, che annienta, che tritura, volendo addossare le colpe e le responsabilità del proprio male a chi attorno appare irretito in ideologie perverse e pervertitrici, non può comunque negare che siano in corso in Europa e in Russia delle trasformazioni che hanno in sé il germe della rovina.

I mali nell’ambito familiare

Ma le sue ossessioni non vengono solo dal sottosuolo di un mondo in ebollizione, perché la società, sempre inquieta, è alla ricerca di un equilibrio, mai totalmente raggiunto. C’è pure un sottosuolo che gli appartiene, che è il suo stesso vivere contrassegnato da una serie di vicende con le quali è messo a dura prova chiunque, in modo particolare lui, già toccato da esperienze al di là di ogni limite immaginabile.

Al principio del 1865, Dostoevskij scorgeva attorno a sé soltanto morte, deserto e fantasmi. Il 15 aprile del 1864 era morta la prima moglie, di tisi, dopo una lenta agonia. Negli ultimi mesi di vita, mentre nella stanza accanto il marito modulava la voce grottesca e furibonda dell’“uomo del sottosuolo”, Mar’ja Dmitrievna sputava sangue. La morte tornò presto a visitare Dostoevskij. Nel luglio dello stesso 1864, scomparve suo fratello Michail, il più amato, in-sieme al quale aveva pubblicato due riviste, “Il tempo” ed “Epoca”. Dostoevskij rimase sconvolto della nuova perdita. “Letteralmente non m’era rimasto nulla per cui vivere” scrisse più tardi. “Stringere nuovi legami, creare una nuova vita! Mi ripugnava anche il solo pensarci. E per la prima volta sentii che non c’era nulla con cui sostituirli, che al mondo amavo soltanto loro, e che un nuovo amore non si può avere e neppure si deve averlo. Tutto, intorno a me, fu freddo e deserto”. Morendo, Michail aveva lasciato quindicimila rubli di debiti. Dostoevskij si impegnò a pagarli, e a mantenere la vedova del fratello con quattro figli, l’amante del fratello con un figlio, un altro fratello alcolizzato, e il figlio della prima moglie, Pasa, insolente e presuntuoso, che divideva il suo appartamento di Pietroburgo. (Citati, p. 281) Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.”

Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte

INTRODUZIONE

Le diverse letture dello scrittore

Il II centenario della nascita di Dostoevskij è un’occasione per cercare di comprendere meglio lo scrittore difficilmente catalogabile con gli schemi di certa storia della letteratura. È anche l’occasione per rileggere testi, indubbiamente non facili, che, data la complessità delle vicende e soprattutto dei personaggi che vi si trovano, con tutti i loro tormenti interiori, possono disorientare chi vi si accosta senza una appropriata introduzione. C’è chi vi trova la vena autobiografica, che, senza alcun dubbio, permea molte pagine di quest’uomo, tanto inquieto e tanto toccato dal dolore, dal male, dallo stesso azzardo che lui ha conosciuto a partire dalla frenesia del gioco. C’è chi vi legge il tormentato ottenebramento, a cui va incontro un’Europa avviata ad un progresso industriale con l’illusione, coltivata, di poter godere del benessere, mentre invece essa scivola inevitabilmente verso una catastrofe, poi dilagata nelle tragedie del Novecento. C’è chi vi legge la ricerca spasmodica di una salvezza, tanto desiderata e nel contempo così difficilmente perseguita, mentre, con i contorcimenti psicologici che muovono verso la follia, imperversa una specie di “cupio dissolvi”, derivata dalla perdita della spiritualità, quella cristiana, a cui egli punta decisamente come la sola fonte di autentico rinnovamento.

Il pensiero dello scrittore: il senso della vita in mezzo al male

Non è facile seguire il suo pensiero, anche perché egli propriamente non è un filosofo, per quanto appaia sottesa, nei suoi testi, una certa filosofia della vita. E non è neppure un pedagogista o uno psicologo che si premura di scandagliare l’animo umano, soprattutto quando è in formazione, perché possa crescere secondo criteri ragionevoli, se non sono di fatto razionali. Egli è principalmente uno scrittore di romanzi, avendo trovato questa vena espressiva non solo come fonte di guadagno per vivere, ma come la sola modalità per lui di comprendere e spiegare il suo vissuto, estremamente tormentato, anche da una serie di circostanze drammatiche che hanno segnato la sua esistenza. Ciò che racconta sono indubbiamente vicende umane che lo sfiorano, se non altro perché molti dei suoi personaggi vivono qualcosa che appartiene alla sua stessa esistenza e riflettono mali e tormenti che lo toccano: chi ben conosce quanto egli ha vissuto, non fatica a trovare molti elementi autobiografici. E tuttavia, come succede a tanti scrittori, le sue storie sono pur sempre vicende umane, scandagliate soprattutto nel tormento interiore. Esse riflettono il parto travagliato di un umanesimo, soprattutto russo, che era in corso, in un mondo da troppo tempo in letargo e vorticosamente avviato a trasformazioni se-gnate poi dalla tragedia. Per quanto egli rifletta il mondo russo, di cui è figlio, e di cui, soprattutto, è espressione, tutto quello che scrive a proposito dell’uomo travalica comunque quel particolare mondo, e, per tanti versi, anche la sua epoca, così travagliata e sottoposta a cambiamenti, come sempre succede, non facilmente gestiti e soprattutto gestibili. Leggi tutto “Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte”

DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA

LECTURA DANTIS IN LIMINE VITAE

La celebrazione centenaria in corso deve far pensare soprattutto alla morte di Dante. È indubbiamente un evento doloroso, e, certamente, anche inaspettato, se non altro perché avviene quando il poeta, ormai famoso per la sua grande opera, avrebbe potuto godere forse qualcosa di questa sua fama. Se il cammino era posto “nel mezzo” a 35 anni, e questi suoi anni cadevano mirabilmente nel 1300, anno giubilare, ma soprattutto anno carico nei simbolismi numerici del suo totale riferimento a Dio, la vita sua si sarebbe dovuta compiere a 70 anni. Ed invece Dante sparisce a 56 anni con un tracollo che avviene in poco tempo, senza che ci siano avvisaglie. Ma questo suo inabissarsi nella morte, che tutto vorrebbe assorbire e sfiorire, diventa in realtà l’ingresso in un mondo che gli dà giustamente fama ed eternità. È quello che lui stesso avverte di meritare, pur in mezzo all’amarezza di un esilio che diventa di giorno in giorno sempre più duro e senza sbocchi. Mentre la sua situazione di esiliato si incancrenisce e addirittura si fa senza speranza con la condanna a morte, non solo sua, ma anche dei figli, dopo la battaglia di Montecatini (1315), oltre a cercare la sua pace fra chi lo ammira e lo desidera, si dedica con tutte le sue forze ad ultimare la grande opera, ormai salendo sempre più fino all’ultimo cielo. C’è dunque anche in questo suo cammino come un’aspirazione alla pace eterna, senza per questo che egli si possa augurare la morte o possa cercarla. Semmai è a Firenze che si insiste nel volere la condanna alla pena capitale. Egli piuttosto aspira al riconoscimento pubblico della sua grandezza di poeta e forse anche per questo cerca chi lo possa comprendere e sostenere in questa sua aspirazione, accogliendo l’invito del Signore di Ravenna, che ha pure interessi e sensibilità per la poesia.

Dante esprime con chiarezza di essere consapevole che la sua opera gli possa meritare il “cappello” di poeta, e si augura sempre che la sua incoronazione avvenga a Firenze …

Se mai continga che ’l poema sacro

al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m’ha fatto per molti anni macro, Leggi tutto “DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA”

DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO

DANTE E LA POLITICA

Il canto VI di ogni cantica del suo poema ha un contenuto politico. Questo rivela, se già non si aveva a sufficienza da quanto Dante ha coltivato e ha fatto nella sua giovinezza, che l’argomento sta particolarmente a cuore al poeta. Del resto egli fu parte in causa nei giochi politici che poi lo travolsero, e dedicò alla politica molte delle sue energie, sia quando era nell’agone, sia quando ne fu estromesso.

Per Dante la politica è partecipazione diretta alla società, in quella forma di governo che non è solo direzione degli affari, ma è soprattutto corresponsabilità, in qualunque posizione sociale uno si trovi e qualunque sia il lavoro che uno svolga. Dante ha pure esercitato funzioni direttive, essendo stato priore a Firenze; ma la sua politica non è vissuta solo in quelle che noi chiameremmo oggi “le stanze dei bottoni”, dove si prendono decisioni; è vissuta sul campo e nelle discussioni anche animate. Anche quando ne risulterà estromesso – e lo sarà in modo drammatico e infamante – egli avverte sempre la sua responsabilità nel contribuire alla “cosa pubblica”. E ci sarà sempre, anche se poi i giochi si fanno duri ed egli sarà costretto, un po’ sdegnosamente, a “far parte per se stesso”, fuori dagli schemi di partito, fuori dalle leve di comando, mai del tutto fuori da quell’amor di patria, che lo farà sentire sempre fiorentino, pur a darne giudizi feroci, sempre italiano, pur a provare amarezza e sdegno per le condizioni in cui si trova la “serva Italia”.

FLORENTINUS O YTALUS

Se Firenze lo mette al bando e lui rimarrà “bandito”, Dante amerà sempre la sua “Fiorenza”, anche da esule ferito nel suo onore, sempre firmandosi come exul inmeritus perché egli ritiene di non aver mai “meritato” quel genere di condanna. Per lui essere fiorentino è invece un titolo di merito e come tale e gli si ritiene sempre, dovunque si troverà a vivere. Solo quando deve richiamare l’attenzione nei confronti dell’Italia, si firmerà con il titolo di “ytalus”. E tale Dante è non perché abbia a cuore un’Italia unita, come noi oggi la intendiamo, ma perché in essa riconoscerà la presenza più unificante possibile dalla lingua volgare, che naturalmente è tutta da costruire e che indubbiamente gli contribuisce a creare

Andando ramingo per tante città italiane, senza mai trovare un’ospitalità sicura, se non in modo temporaneo, egli più che mai avvertirà lo stato miserevole di queste città, divise al loro interno: ciò sarà motivo di tanta miseria, anche in presenza di cospicui guadagni negli affari. E perciò il suo disegno politico si amplierà anche oltre le mura cittadine per cercare di costruire con una doverosa purificazione un mondo diverso da quello in cui c’è solo da perdersi, come si è perso lui, come è smarrito ogni uomo, incapace di risorgere in presenza delle belve affamate che impediscono la salvezza. Solo la guida della ragione, rappresentata da Virgilio; solo la guida della grazia, rappresentata da Beatrice, può condurre alla purificazione e alla beatitudine. È questo il percorso che ritiene di dover fare lui, come rappresentante dell’umanità smarrita, perché tutti possano ricostruirsi in un mondo davvero quanto mai desolato. Leggi tutto “DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO”

DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO

DANTE E FIRENZE: UN AMORE TORMENTATO

Il rapporto tra Firenze e il suo più noto cittadino, che è anche il suo massimo poeta, è piuttosto burrascoso, tormentato, non ancora del tutto sopito, se si pensa al fatto che lui non vi è sepolto e che non vi troverà mai sepoltura. E le polemiche per questo motivo persistono. Dante è vissuto in anni molto agitati, in cui le lotte intestine alla città erano frequenti, e soprattutto molto sanguinose, tali da travolgere lo stesso poeta, che non vi troverà pace. E tuttavia, per la sua città, Dante coltivò un grande amore, anche a registrarne le degenerazioni, ritenute insanabili. Anche quando sembra che dalle invettive sprigioni odio, risentimento, malanimo, in realtà per Firenze c’è sempre amore, quello che lo fa essere capace di riconoscere, anche agli avversari irriducibili, quella forma di grandezza che fa stagliare bene le figure dei suoi personaggi.

Nei confronti di Firenze egli tende a divenire “Laudator temporis acti”, e perciò ammiratore del buon tempo andato, che sarebbe bello ripristinare, senza mai riuscire a farlo. Evidentemente la città è in fermento e in trasformazione, come ogni realtà umana, in ogni tempo. Ma qui, forse, l’accelerazione per questi mutamenti appariva notevole, anche per gli interessi di tipo economico e finanziario che erano messi in campo.

Firenze era indubbiamente in rapida trasformazione per un accumulo di denaro, che risultava quanto mai consistente e ad ampio raggio dentro la sua popolazione. Gli appetiti apparivano smodati, ma anche le trasformazioni sociali erano rapide e tali da non essere facilmente controllate e controllabili neppure dentro istituzioni politiche forti. Anzi, è proprio il sistema istituzionale che non funziona, e ne sono vittime i cittadini stessi; ne risulterà vittima lo stesso Dante, proprio all’apice della sua carriera politica, che sarà anche la sua rovina.

Dante viene a trovarsi in un periodo di rapide trasformazioni politiche, sociali e soprattutto economiche, mentre sull’orizzonte i sistemi che avevano costruito l’assetto europeo nel Medioevo non tenevano più, e lui pensava di appellarsi ad esse per recuperare un po’ di pace, senza rendersi conto che il mondo andava in ben altre direzioni. Papato ed Impero, le colonne portanti del sistema medievale, vivevano uno scontro che li avrebbe esauriti, mentre i nuovi centri di potere, ma soprattutto le nuove energie economiche, stavano emergendo nei particolarismi diversi, e poi destinati allo scontro, e cioè le città, di notevole vivacità mercantile, e i regni periferici all’impero, che larga parte di storia avrebbero avuto con il loro assetto nazionale. Proprio l’anno della collocazione del grande ideale viaggio nell’oltretomba, narrato nel suo capolavoro, appare come l’anno del tramonto del Medioevo, quando, proprio in occasione del Giubileo, appaiono nuove forze all’orizzonte, per manovrare le quali è necessario un nuovo sistema istituzionale. Dante non sembra rendersi conto; e, forse anche perché travolto dalle circostanze che lo investono personalmente, pensa che sia possibile il rinnovamento facendo appello a ciò che in realtà è al tramonto. Leggi tutto “DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO”

Giuseppe: UOMO GIUSTO, MODELLO DI OGNI CREDENTE, CUSTODE DI GESU’ E DI MARIA.

UNO SGUARDO NELLA                      CASA DI NAZARETH

Dopo i racconti che riguardano la nascita e “i primi passi” di Gesù, di Giuseppe non si dice più nulla, se non che la famiglia, in seguito al suo “esodo” dall’Egitto, si era trasferita a Nazareth, come se si trattasse di una località su cui ripiegare, non potendo stare in Giudea, dove continuavano ad imperversare gli eredi di Erode. Eppure Nazareth dovrebbe essere la casa abituale di Giuseppe e di Maria! E certamente diventa la residenza abituale di Gesù, visto che poi lui si porta appresso questa qualifica, non del tutto onorevole, se in genere quelli della Galilea non godevano di grande considerazione tra i Giudei.

Poiché Luca dice che aveva circa 30 anni, quando comparve sul Giordano per il battesimo, e che era ritenuto figlio di Giuseppe, anche a non essere stato generato da lui, dovremmo supporre che Gesù sia rimasto in quel villaggio fino a quella età, non avendo alcuna notizia di quel lungo periodo, se non l’episodio di lui dodicenne, avvenuto però a Gerusalemme, nel tempio.

In maniera riassuntiva, Luca parla di una permanenza in quella casa, dove Gesù cresceva in età, sapienza e grazia, rimanendo sottomesso ai suoi genitori. Non si dice nulla propriamente del suo lavoro, una volta avviato ad esso – si suppone – dal padre, come se il suo apprendistato l’abbia fatto nella bottega di colui che poi il vangelo definisce “carpentiere”, per cui Gesù stesso era detto “figlio del carpentiere”. Qui si dovrebbe pensare che la figura di riferimento in questa casa sia stato Giuseppe, sul quale però il vangelo non dice molto e sul quale non lascia trasparire nessun episodio particolare e nessuna parola. Anzi, sembra quasi che, se già in precedenza egli non avesse compiti di rilievo, qui appariva sempre più a margine, fino a scomparire del tutto, come se al momento del distacco da casa di Gesù, Giuseppe non fosse più di questo mondo. Anche ad essere poi designato come “patrono dei morenti”, anche ad essere spesso rappresentato nel letto d’agonia circondato dai suoi cari, noi non abbiamo notizia alcuna della sua dipartita da questo mondo. Giuseppe rimane comunque legato, di fatto, a Nazareth e alla casa dove abitava con la sua famiglia. E qui deve aver trascorso alcuni anni. Solo dopo la sua scomparsa, a quanto pare, Gesù esce di casa.

Per quanto le notizie scarseggino, si potrebbe tentare di chiarire qualcosa a proposito di questo lungo periodo, sempre partendo dai testi evangelici, quelli canonici e quelli apocrifi, con quelle particolari letture che ne vengono date anche dalla devozione diffusa, che ha nelle opere artistiche una particolare forma espressiva, sia perché si rifanno ai vangeli, sia perché cercano di parlare agli occhi e al cuore della gente con una comunicazione più diretta.

Naturalmente sia della casa, sia della bottega, sia delle relazioni familiari che vi si esprimevano, noi qui dobbiamo cercare si far emergere meglio la figura di Giuseppe, che appare spesso “sacrificato”, perché l’attenzione è rivolta giustamente altrove, privilegiando Gesù e sua madre.

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L’Europa di 100 anni fa: LA DISSOLUZIONE DELL’IMPERO OTTOMANO E LA NASCITA DELLA TURCHIA LAICA E MODERNA

INTRODUZIONE 

La debolezza dell’Impero turco alla vigilia della guerra mondiale

Una delle questioni decisive dell’Ottocento, consegnata anche al secolo successivo, è la realtà dell’Impero turco, rimasto dalla storia come un mondo che sembrava destinato a durare e che invece appariva più che mai in dissoluzione, sia come forma di governo, sia come estensione territoriale. È sempre stato un impero e non solo una nazione perché esso non risulta composto solo da un territorio omogeneo, almeno a livello etnico, ma, in uno spazio, del resto molto esteso, esso comprende popolazioni diverse e non assimilabili fra loro, se non perché riconoscono l’autorità di chi comanda, anche in nome di una ideologia o di un potere di natura religiosa. Qui il sultano, che nel periodo di massima espansione si era rivelato capace di dominare e di guidare soprattutto l’apparato militare, aveva assunto anche una potestà sacra, come depositario dell’eredità religiosa islamica. In nome di questo potere religioso egli esercitava la sua alta autorità anche sulle varie tribù del mondo arabo, sia nel Medio Oriente, sia nel nord Africa. L’espansione verso l’Europa centrale si era fermata nella penisola balcanica, e, dopo la battaglia di Lepanto (1571), quella che sembrava una rapida espansione verso l’Occidente, di fatto venne arrestata, e di lì ebbe inizio un lento ma inesorabile decadimento, che proprio nell’Ottocento ebbe il suo svolgimento e con la prima guerra mondiale il colpo di grazia che avrebbe dovuto abbattere l’impero secolare.

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LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: ADELCHI

Introduzione: una nuova vicenda, una nuova storia

Da poco la tragedia del Carmagnola è stata data alle stampe e già lo scrittore appare insoddisfatto del suo lavoro, sia per le critiche che gli piovono addosso, sia per l’insufficienza che lui avverte presente nell’opera, soprattutto in relazione allo stesso protagonista. Egli lo vuol proporre come innocente a proposito dell’accusa che gli è mossa di tradimento e che lo conduce al patibolo, mentre in realtà è anche lui la pedina di un gioco di brutalità, di inganni, di miserie, che non lo può rendere un uomo senza macchia, un eroe positivo, una sorta di martire della storia. A ben vedere, il personaggio più tormentato, e dunque più tragico, appare emergere dalla fantasia dell’autore e non dalla realtà storica: si tratta di Marco, l’amico del cavaliere, che vive interiormente la tragedia di essere leale alla ragion di Stato e non a quello dell’amicizia. Così il personaggio storico, che dovrebbe essere l’eroe positivo e non idealizzato, appare in tutti i suoi limiti; nondimeno è il personaggio non storico, che tuttavia ha in sé il realismo umano di voler affiorare per i valori umani, che non riesce però a difendere, a diventare di fatto il protagonista. Di qui la ricerca di una figura, quella di Adelchi, che pur inserita in un contesto storico, ben studiato e analizzato, risulta comunque totalmente creata dalla fantasia dello scrittore e proprio per questo emergere con la ricchezza dei valori umani che Manzoni vuol esaltare, incarnandoli in un personaggio veramente grande. Non è lui propriamente l’uomo che la storia esalta, sia perché è un perdente, ma anche perché egli è del tutto abbozzato dalla fantasia di chi scrive. Manzoni si prepara al nuovo lavoro con una ricerca storica ben documentata e, su quello sfondo, i personaggi che risultano meglio definiti e meglio curati sono quelli che la storia ignora e che la fantasia crea.

Ricerche e studi sui Longobardi Leggi tutto “LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: ADELCHI”

LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: IL CONTE DI CARMAGNOLA

 

Introduzione: l’interesse di Manzoni per la tragedia

Ci sono due opere nel lavoro letterario di Manzoni, che sembrano come massi erratici, capitati in un periodo problematico del suo vivere, e che di fatto rimangono tali, perché poi egli non percorse più questa strada, in cui si era cimentato, come era tendenza fare di quei tempi. Si tratta delle tragedie, che rivelano un gusto, tipico di quel momento, soprattutto in ambiti giovanili, come se quel genere fosse l’unico possibile per “accendere … l’animo de’ forti”. Con il tramonto dello spirito rivoluzionario e dell’era napoleonica e con l’avvento della “Restaurazione” sembravano ormai del tutto spenti gli animi, soprattutto per una partecipazione diretta nel vivere sociale: gli ideali di libertà, pur naufragati in mezzo a violenze e a guerre, sembravano ora impossibili da essere perseguiti, e c’era per questo un diffuso disorientamento. Manzoni, pur con la sua fede radicata, attraversava un periodo di tensioni non da poco, anche nel campo che gli era proprio, e che doveva divenire il “suo lavoro”, perché da una parte lo spirito neoclassico, che pur aveva fin qui respirato, non lo appagava con i suoi ideali, divenuti sempre più “mitici”, e il nuovo spirito romantico era ancora tutto da costruire e sembrava ancora una innovazione d’altri luoghi, non radicata nella tradizione della nostra letteratura. A questo si aggiungeva anche il fatto che l’appartenenza ad una scuola significava comunque una presa di posizione politica, in un momento nel quale la restaurazione vigilava per mortificare sul nascere ogni spirito ribelle o anche ogni inclinazione con le innovazioni. “Manzoni, nel ’15, aveva scritto in risposta a un invito dell’Acerbi, direttore dell’austriacante “Biblioteca”, di “non voler entrare in qualsivoglia associazione letteraria”; prima di tutto c’era il rifiuto delle posizioni di quella rivista; ma c’era in lui davvero la renitenza a “proferir giudizi letterari” e a “sentenziare sugli scritti altrui”. Quanto ai “conciliatori”, amico sì, partecipe, anzi guida quando occorresse delle loro idee; ma indipendente. (Ulivi, p. 163) Leggi tutto “LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: IL CONTE DI CARMAGNOLA”