GESU’ E’ RISORTO E LA PASSIONE CONTINUA

PASQUA 2022

IL RISORTO SI FA VEDERE AI SUOI

E FA VEDERE UN VIVERE MIGLIORE

Gesù è ancora vivo, più vivo che mai! Uscito dal sepolcro, non è an-dato a vendicarsi da quelli che lo avevano voluto morto, ma neppure a dire loro che gli sforzi, prodotti per eliminarlo per sempre, erano andati a buon fine. Lui si fa invece vedere ai suoi amici, che pure erano sconvolti per la piega presa dai fatti travolgenti: li raggiunge, senza fare nulla di clamoroso; anzi, sembra quasi che debbano esse-re loro a cercare e a scoprire che Lui continua a vivere la passione che lo ha segnato. Ed in effetti il Risorto mostra loro i segni della passione e dice di voler essere riconosciuto così, che a partire da quei segni i discepoli potranno avere luce e chiarezza, forza e corag-gio per iniziare la loro avventura. Anch’essi, se vogliono risorgere, o non più morire, devono portare i medesimi segni della passione, de-vono passare da quel patirci o da quell’appassionarsi che rende bel-la, autentica, straordinaria, la vita, meritevole di essere vissuta. Non ci dà l’esaltazione del dolore fisico, non ci chiede di cercare e di pro-vare i mali che assalgono il nostro corpo: questi vanno piuttosto combattuti con tutti i mezzi. Portando i suoi dentro la medesima si-tuazione in cui si è trovato e per la quale è stato tolto di mezzo, Lui vuol dire ai discepoli, di allora e di oggi, che proprio nelle circostan-ze in cui l’odio sembra avere il sopravvento e con esso un modo di vivere all’insegna dell’inganno, della brutalità, della menzogna, della sopraffazione, noi dobbiamo continuare la nostra passione, la sola in grado di garantire la risurrezione vera e duratura. Sì, dentro que-sto mondo e questo tempo, così segnato dalla morte per le tante brutalità che si commettono sui fronti delle guerre e dentro il vivere quotidiano, abbiamo bisogno di persone risorte, che anche a portare nel cuore e nel corpo i segni della propria passione, cercano di rag-giungere quanti sono delusi, quanti sono tentati di lasciarsi andare allo sconforto, quanti cercano evasioni inutili che non potranno mai vissuta qualificare l’esistenza, per farla divenire più umana, più meritevole di essere . Gesù ha fatto così con i discepoli; così fa pure con noi, mediante persone che, pur toccate dal male, sono sempre a disposizione per vivere meglio e far vivere meglio. Ci potrà capitare di incontrare qualcuno che porta in sé i segni di un male che fa la sua azione devastatrice, che ha nell’animo un cruccio o un tormento per esperienze amare e dolorose, che si porta nel cuore un’offesa e, più ancora, una grande inquietudine per un futuro incerto: se però di lì ci arriva una visione mai disperata, una lettura dei fatti che cerca vie d’uscita insperate, la carica a voler trovare sempre il lato migliore della vita, allora possiamo dire che la passione non si ferma. Lì ab-biamo incontrato il Risorto. Cerchiamolo vivo, cerchiamolo tra i vi-vi, cerchiamolo tra coloro che oggi fuggono dagli orrori delle guerre, dalle miserie di un vivere sempre più faticoso, da esperienze sba-gliate che appesantiscono l’esistenza: se abbiamo il coraggio di guar-dare nei loro occhi, che hanno visto il male, il desiderio di venirne fuori e nello stesso tempo di far venir fuori da sé quanto di meglio possono dare, allora c’è spazio per il rifiorire della vita. Una guerra, che si vorrebbe risolutrice di problemi aggrovigliati, non ha mai fat-to sortire il meglio né ai vinti né ai vincitori. E comunque non s’è mai visto che un potente, divenuto prepotente, abbia avuto un fu-turo vittorioso per sé, così come chi ha avuto la meglio sui campi di battaglia, abbia potuto godere dei meriti ottenuti con le prove di forza: è pura illusione che il vincitore in guerra abbia poi risolto i problemi perché la sua visione del mondo è sembrata trionfare su chi invece voleva imporre la forza bruta. E comunque non è con la rivalsa che il mondo si fa più sicuro. Gesù risorto non si è imposto sui suoi nemici, che pensavano di averla vinta avendolo fatto fuori in quel modo. E non ha neppure chiesto ai suoi di prevalere sugli av-versari, imponendo il proprio punto di vista con la pretesa che è quello giusto, il solo da ammettere. Mostrando le sue piaghe e ricor-dando gli eventi della passione come l’agire di Dio che non si lascia condizionare dal male, ha invitato i suoi a continuare la sua lezione di vita con la medesima passione: questa, e solo questa, cambiando noi, cambia il mondo e,ambiando il mondo, fa emergere un vivere più umano. A noi spetta il compito di fare Pasqua così, di viverla oggi in un mondo che sembra perdere la speranza in una esistenza più pacifica e più bella. Il Signore è ancora vivo. È ancora con noi!

PREGHIERA

PER UNA PASQUA DI AUTENTICA RISURREZIONE

Non c’è molta differenza tra noi e i tuoi di allora, Signore!

Allibiti di fronte allo scatenarsi dal male,

ci sentiamo confusi, disorientati, dispersi, incapaci di reagire.

Ci domandiamo inutilmente perché, per colpa di chi, se ha un senso,

quanto sta succedendo sotto i nostri occhi esterrefatti:

massacri orrendi, violenze inaccettabili, distruzioni inutili.

Chissà quali pensieri hanno attraversato la mente dei tuoi discepoli,

in quelle ore tenebrose, quando tutto stava crollando,

in quei momenti turbinosi in cui tu, il Maestro, venivi loro sottratto.

Ma di fatto essi non sono stati capaci di vegliare, di reagire, di seguire

e così si sono dispersi, si sono lasciati andare allo sconforto,

si sono rinchiusi in se stessi, senza più risorse, senza più futuro.

Il male, Signore, ci sorprende e ci abbatte facilmente, anche oggi,

lasciandoci sprovveduti, indifesi, indeboliti.

Tu, però, fedele alla tua promessa di aver vinto il mondo,

non ci lasci soli, e ci raggiungi, uno ad uno, laddove andiamo errando,

e ci fai sentire la tua parola, la tua presenza, la tua continua passione,

per ricaricarci e ricondurci sui nostri passi verso una strada migliore.

Non dai quelle spiegazioni che noi vorremmo avere rassicuranti,

perché qualcuno di ben noto abbia le colpe e debba avere i castighi,

perché giustizia sia fatta, vendicando il male e abbattendo i superbi;

ci ricordi invece il disegno del Padre dentro la tua passione,

che ora deve essere nostra, che noi dobbiamo continuare,

assumendo, nel male, il tuo Spirito di pace, di fraternità, di bene.

E poi, forti del tuo Spirito, che in noi ci ravviva il cuore debole,

ci mandi in questa realtà fatta di tanta miseria,

per essere testimoni di te, Risorto, che fa risorgere tutti,

e per portare la tua passione che continua nella nostra,

in modo tale che il male, sempre accovacciato, non l’abbia vinta,

e il bene, che tu sempre ci ispiri, sia l’obiettivo vero del nostro vivere.

Grazie, Signore, di questa tua e nostra Pasqua,

che anche oggi ci fa sperare e ci dà il desiderio di risorgere,

che anche questo nostro mondo sente annunciare, più forte che mai!

La peste nella storia e nella letteratura: CAMUS

 NARRATORI DI PESTILENZE

Le pestilenze che si sono succedute nel corso della storia, sempre documentate, soprattutto quando i fenomeni si allargavano e incrudelivano con morie disastrose, sono entrate a far parte della letteratura, perché molti scrittori hanno costruito su queste iatture una loro visione del mondo, dell’uomo, della storia umana. Possiamo in effetti riconoscere che i testi più famosi sull’argomento sono soprattutto quelli di scrittori che sono andati ben oltre la registrazione cronachistica del fenomeno, per costruire un loro disegno, non solo funzionale al racconto o al romanzo in cui si inserisce anche l’evento della peste, ma teso a suggerire una riflessione che spesso è stata considerata di natura filosofica. Perciò, anche se quanto viene descritto ha indubbiamente uno sfondo storico, perché viene raccontato quanto succede in un territorio particolare e in un’epoca ben precisa, la finalità perseguita risponde all’impostazione che lo scrittore intende dare alla sua opera. Poi l’evento diventa pretesto per proporre considerazioni di natura filosofica: in questo caso l’evento, anche ad essere collocato in un contesto geografico e in un momento della storia, non è più racconto di ciò che è veramente successo, di ciò che lo scrittore ha visto e documentato, ma diventa luogo e momento simbolico per collocare la propria riflessione circa i temi fondamentali del vivere, come il male, il dolore, la morte. Allora non interessa più che cosa è veramente successo, appunto perché il racconto è di pure invenzione; ma non per questo il dramma perde la sua connotazione di tragedia e il discorso va ben oltre i fatti narrati, i personaggi collocati su una scena del tutto probabile, senza essere mai provata: così la peste non è più una precisa malattia che contagia il corpo, non è più una epidemia da considerare per le sue cause, scientificamente accertate, ma rappresenta quel male, sempre presente nel vivere, a cui bisogna saper far fronte, se l’uomo vuole cercare, avere e dare un senso all’esistenza, da non lasciare al puro caso o all’assurdo. Così la narrazione di una pestilenza esce dall’ambito storico, non necessariamente da quello letterario, per diventare l’occasione per una riflessione sul vivere e sul morire, come è per tutti coloro che si sono cimentati con simile argomento. In questo modo non interessa più il fenomeno come tale, ma ciò che esso rappresenta simbolicamente nel vivere, per invogliare una riflessione più approfondita sul male e sull’assurdo.

LA PESTE DI … ORANO 

IN ALBERT CAMUS:

SCIENZA E FEDE

DI FRONTE AL MALE

La storia narrata nel romanzo di Albert Camus è di pura invenzione, anche a trovare come sua scena la città algerina di Orano e un anno imprecisato, ma comunque appartenente alla quinta decina del secolo scorso. “I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano.”: così inizia a scrivere l’autore, che mette subito in chiaro di non voler fare riferimento ad alcun caso particolare, perché gli avvenimenti narrati sono assolutamente dovuti alla sua fantasia. Perciò chi legge deve già sapere che non si fa riferimento ad alcun caso di cronaca, ma che la situazione descritta rimanda ad un senso di smarrimento provato per ben altro tipo di male. Tenuto conto che il romanzo vede la luce nel 1947, si deve pensare che esso sia una specie di riflessione dell’autore su ciò che è successo nel mondo con la guerra da poco conclusa. Sì, le armi tacciono e i contendenti hanno trovato i termini di un armistizio; ma ciò che ha contaminato gli animi permane con gli strascichi rovinosi, sui quali è bene riflettere. La peste, di cui si parla qui, non è affatto una malattia a livello fisico, ma è una contaminazione che ha corroso anche gli animi, e che di fatto permane nel dopoguerra, in cui la vittoria delle democrazie sulle dittature non vede del tutto debellato quel male oscuro che continua a fare danni. Il vero antidoto al male è la solidarietà: contro gli egoismi esasperati che si sono prodotti, soprattutto in Europa, nel Novecento, è necessario costruire quel senso di solidarietà umana, che si poteva immaginare di riscontrare nell’ideologia comunista, dalla quale però lo scrittore si allontana decisamente, quando anche lì vede allignare un sistema dittatoriale, che considera inaccettabile. La peste corrosiva dei sistemi totalitari che sembrava sconfitta con la guerra, insiste e dilaga quando si presentano altri “ratti”, che diffondono il morbo devastatore, soprattutto con una concezione del vivere che rinchiude sempre più in quella forma di difesa che si trasforma presto in offesa, come succede a chi per difendere i propri interessi comprime la libertà altrui, mentre in precedenza per la propria e l’altrui libertà aveva combattuto. L’autore non è affatto diretto nel tracciare queste linee di pensiero, ma lascia intendere che la vicenda da lui narrata è di fatto una metafora di quanto è già in corso d’opera, non appena è stata conclusa una guerra devastatrice, e si pensa di comprimere la barbarie disumanizzante con metodi e mezzi che sono altrettanto violenti e brutali. È ben nota la reazione molto forte che lo scrittore ebbe all’indomani delle bombe atomiche sganciate sul Giappone ormai sconfitto da parte degli Stati Uniti d’America: così la pestilenza, invece di essere bloccata, divampa e rovina sempre più. Lo potremmo allora definire uno scritto profetico in relazione a quanto stava avviandosi in Europa e nel mondo anche solo pochi anni dopo il conflitto mondiale. Come possono sempre insorgere le epidemie che scoppiano qua e là e a cui si pensa di far opera di contenimento, chiudendo chi ne è colpito in un campo di concentramento a cielo aperto, senza contatti con l’esterno, così c’è sempre il rischio che “ratti di fogna” si moltiplichino, senza che alcuno se ne avveda, con il loro carico di morte. È una denuncia molto forte, ma trattata con la maestria di chi vuol far riflettere senza ideologismi di parte, senza schemi precostituiti. Il fatto poi che si tratti di un racconto può favorire la diffusione anche oltre una certa cerchia di lettori, per suscitare un po’ in tutti domande, riflessioni, prese di posizione che interpellino le coscienze circa la reazione più corretta da avere nei confronti di un male subdolo, e comunque sempre operante. La società, stanca del conflitto, sicura di sé dopo il pericolo passato, si immagina di non dover reagire nella maniera giusta in presenza di un male oscuro e strisciante. Per lo scrittore è sempre necessario riflettere da parte di tutti, e, più ancora, di agire e di reagire, perché la responsabilità di far fronte al male non è solo competenza di alcuni addetti ai lavori, ma è obbligo morale di tutti e di ciascuno.

LA TRAMA DEL ROMANZO

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Boccaccio e la peste di Firenze

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Le diverse pestilenze che si sono succedute nella storia sono indubbiamente eventi drammatici, soprattutto per chi si trova coinvolto. Ma non necessariamente le informazioni su di esse ci arrivano da scrittori di storia con il loro intendimento cronachistico, più o meno dichiarato, e soprattutto con la finalità di ricercarne le cause e le conseguenze, come dovrebbe essere per chi si dichiara uno storico. Per certi versi i racconti più drammatici e più suggestionanti sono quelli di autori che non hanno nella loro finalità quella di raccontare vicende a cui hanno assistito. Anzi, spesso ci troviamo in presenza di scrittori che, mettendo sullo sfondo il quadro della pestilenza, propongono un racconto di pura invenzione allo scopo di voler uscire da un clima pesante di terrore per rifugiarsi in un contesto che vorrebbe essere purificatore, per far raggiungere una sorta di beatitudine paradisiaca.

È ciò che noi possiamo trovare nel racconto di Boccaccio circa la pestilenza del 1348. Non è per lui l’evento chiave del racconto, perché l’obiettivo della sua opera non è quello di trattare quanto è successo in quel periodo. Il resoconto della devastazione di quell’anno è solo lo scenario sul quale lo scrittore vuole impostare la sua opera, che ha tutto il sapore di una narrazione fantastica e fantasiosa per creare evasione e fuga. Se si vuole cercare una descrizione più accurata, dal chiaro intento storico, bisogna andare ad altri testi, come possono essere le croniche medievali del tempo o le “Istorie” successive. Nelle “Istorie fiorentine” di Machiavelli quel gravoso evento è liquidato con poche righe: “ … nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono” (II, 42).

Ma, come al solito, non basta raccontare che cosa è successo; qui vi è in gioco ben altro, perché l’evento narrato viene avvertito come un segno particolarmente forte che deve far riflettere e deve soprattutto far reagire: anche in una tragedia simile, è possibile costruire una storia positiva, che può diventare una “via salutis”, un vero e proprio cammino salvifico. Così il Decamerone non è solo una silloge di racconti da godere, espressione di un mondo gaudente che vuol mettere da parte gli affanni ed evadere nella fantasia. Esso è piuttosto il percorso umano di “salvezza”, analogo a quello dan-tesco, che concepisce la salvezza come grazia dal cielo e non come opera dell’uomo.

LA PESTE DI FIRENZE (1348)

in BOCCACCIO:

IL MALE DESCRITTO E VISSUTO

NELLA SOCIETA’ DEL TEMPO

Quando scoppia a Firenze la pestilenza, ed ha il suo apice nel 1348, la situazione della città presentava già alcuni aspetti di criticità. Il crollo del sistema bancario con l’insolvenza del re inglese diede origine ad una crisi economico-finanziaria drammatica. Ci furono anche tumulti popolari fomentati dal “duca Di Atene”, che era stato chiamato dai mercanti facoltosi per gestire il potere politico. Ma il vero tracollo si ebbe con il sopraggiungere della peste. Boccaccio, che aveva trascorso la sua adolescenza a Napoli, dove il padre curava gli interessi finanziari della banca dei Bardi, era già stato costretto in quegli anni tumultuosi a rientrare per il fallimento della banca, perdendo così l’ambiente, in cui aveva maturato la sua vocazione letteraria. Proprio in occasione della peste concepisce il suo capolavoro, che avrebbe dovuto costituire una fonte di guadagno in un momento “nero”, non solo per la peste. Non scrive per documentare l’evento: questo è sola cornice in cui inserire il quadro delle lieta brigata che racconta le sue storie. E neppure si prefigge intenti didascalici, come se volesse educare una società che è allo sbando completo. Egli ha il solo scopo di allietare, proprio nel momento in cui non c’è motivo alcuno per godere, nella speranza che egli ne possa trarre vantaggi di natura economica e così tornare alla bella vita d’un tempo. E sembra quasi fuori posto il brano in cui descrive il propagarsi del morbo con tutti i suoi effetti devastatori. In realtà il quadro fortemente drammatico è la cornice da cui parte il percorso salvifico che l’uomo deve fare, per superare non solo i mali del momento, ma anche quelli ricorrenti nella storia umana. C’è chi vi riconosce quasi una prosecuzione della “Comoedìa” dantesca, perché anche qui l’uomo è come smarrito in una “selva oscura”, rappresentata dalla peste nera. E perciò ha bisogno di uscire dall’Inferno per salire, purificandosi sulla montagna del Purgatorio, fino ad elevarsi nel Paradiso di un vivere più spensierato, come quello sperimentato dalla bella brigata di giovani che si ritrovano nel contado, per sfuggire ai miasmi di un’aria morta, come quella pestilenziale. Leggi tutto “Boccaccio e la peste di Firenze”

LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

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Il fenomeno della pandemia in corso richiede un approccio che non si limiti solo ai numeri, ai rimedi sanitari, alle disposizioni governative, alla reazione della gente comune. Molto spesso si dimentica che oltre le necessarie analisi dei competenti nell’ambito scientifico e medico, oltre gli opportuni e doverosi provvedimenti delle autorità governative, oltre il lavoro ancor più faticoso di chi è in prima linea a combattere il male e ad aiutare chi ne è colpito, occorre anche una lettura a partire dalla psicologia umana, con le sue reazioni istintive e con le sue risposte più ponderate, che rivelano come anche in simili circostanze l’uomo sia in grado di far fronte al male. Ci vuole l’approccio di tipo antropologico, ma anche quel genere di lettura del fenomeno che noi consideriamo “umanistico”, perché in esso vediamo lo spirito umano reagire, ben oltre l’iniziale sconcerto. Queste forme di pandemia sono abbastanza frequenti e, in certi casi, non solo diffusi un po’ ovunque, ma anche presenti in modo molto drammatico per il coinvolgimento di tante persone, che ne rimangono segnate, sia perché muoiono, sia perché, anche a salvarsi, ne porteranno sempre le conseguenze. Di questi fenomeni ciclici abbiamo avuto spesso i cronisti, che si limitano a dare il loro resoconto della vicenda; talvolta abbiamo avuto gli storici che si sono prefissi di consegnare una sorta di insegnamento per i casi a venire; non di rado si sono cimentati anche scrittori di vaglia, che sono partiti da vicende in cui erano coinvolti, o da studi storici su cui si sono resi esperti, arrivando talvolta a dare anche racconti di pura fantasia, nei quali però le vicende narrate appaiono fortemente “verosimili”. In queste narrazioni abbiamo un tipo di lettura umanistica, in quanto al centro delle vicende sono le persone, ma soprattutto si coglie la preoccupazione di suscitare nei lettori una sensibilità che faccia prevalere il taglio umano, la considerazione di come l’uomo in simili circostanze possa riemergere più cosciente, più vigile, più saggio, più … umano! La breve analisi dei casi presi in considerazione valuta e valorizza soprattutto la componente “letteraria” e quindi non solo la ricostruzione degli eventi, ma la particolare modalità narrativa degli scrittori presi in considerazione, per capire quale sia l’intendimento, spesso anche esplicitato, nel voler offrire la propria indagine, la propria maniera di accostare questi fenomeni.

LA PESTE DI ATENE (430-429 a.C.)

in TUCIDIDE:

IL MALE DESCRITTO 

E VISSUTO NEL SINGOLO

Lo storico ateniese Tucidide (460 c. – 404c) non è il primo, né il solo a parlare di pestilenze: ne parla già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, laddove la peste è una delle piaghe d’Egitto, con cui Mosè cerca di far breccia nel cuore del Faraone. Il racconto può apparire anche “mitologico”, ma non è improbabile che si siano succedute in terra d’Egitto forme di pestilenza, soprattutto in certe aree di forte densità umana Leggi tutto “LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE”

EPIFANIA 2022: IL SOGNO DI DIO

 EPIFANIA 2022

RIFLESSIONI DELL’ALTRO MONDO

ALL’APPARIRE DI DIO CHE SOGNA UN ALTRO MONDO

Il racconto natalizio di Matteo, quello che noi usiamo soprattutto in occasione dell’Epifania, ci parla di grandi sognatori: c’è Giuseppe, che, per capire bene ciò che sta succedendo attorno a sé, deve sognare e quindi avvertire il disegno che ha Dio, sempre costruttivo, anche quando gli uomini mettono in campo il male. Il “suo” bambino è minacciato, e lui non ha dubbi nel rifugiarsi in Egitto, anche a sentire tutto il disagio di quel trasferimento e della permanenza in terra straniera. Si fa migrante con suo figlio, perché cerca un vivere migliore, che non necessariamente deve essere più facile. Dal sogno che ha avuto e che ha seguito, deriva a lui una visione positiva che gli dà speranza, anche a trovarsi in mezzo a un mare di pericoli e a una montagna di problemi. Il suo sogno viene da Dio, che continua a sognare in questo modo anche oggi, anche se spesso nel mondo c’è gente che delude le sue aspettative e va in un’altra direzione rispetto al suo progetto di vita: Lui invece indica nel Bambino e nei bambini la vera e sola salvezza per noi. Nei tanti bambini, che vengono in luoghi dove i bambini sembrano sparire dal nostro orizzonte, Dio ci offre il suo sogno e ci chiede di condividerlo, suggerendo che proprio lì stanno le nuove risorse, quelle giuste, per far rinascere il mondo. Guardiamo negli occhi questi bambini perché lì si rispecchia l’umanità che ci fa trovare il meglio per noi e ci fa vedere Dio. Sono anche i bambini che non vivono più in terre lontane, come un tempo si pensava: il mondo si è fatto piccolo, è entrata in casa nostra, ci appartiene e noi dobbiamo appartenere a questo mondo, come fa Dio, venendo ancora oggi dentro le fattezze di questi bambini. Qui ci sono immagini di bambini della Tanzania, dove opera sr. Agnes Muthoni, suora del Cottolengo: mi ha inviato recentemente alcune immagini del centro dove lei opera, da africana per gli africani, per dare speranza, anche là dove essa sembrerebbe mancare. Ma questi volti, pur dentro tanta povertà, sono l’emblema della speranza che si alimenta ancora in questo mondo, segnato da tanto male. Anche ad essere sgomento per il male incombente sul Bambino, Giuseppe, sempre in sogno, non esita a intraprendere il cammino rischioso della migrazione, allo stesso modo con cui lo fanno in tanti ancora oggi. Lì troviamo i grandi sognatori di oggi.

Tra questi sognatori dobbiamo mettere anche i Magi, che consultano il cielo per cercare poi … un Bambino. Non inseguono miti, idee, astruserie, ma una stella luminosa, che poi riconoscono viva e chiara in quel bambino, povero e pure sempre autentica risorsa di bene per l’umanità, vero tesoro da riconoscere, da adorare, da tenere sempre in considerazione, da seguire. Lo trovano in un ambiente povero e squallido, come lo sono queste abitazioni africane; lo trovano senza addobbi e senza decorazioni fantasiose. Eppure essi sono la vera ricchezza non solo per chi li ha generati e li ha nutriti perché così li sentono; lo sono anche per noi che insistiamo nel voler pensare ai beni materiali come l’obiettivo per vivere, quando piuttosto sono le persone il tesoro inestimabile su cui puntare, sapendo che, proprio dove c’è povertà di mezzi, si fa strada l’ingegno per costruire sempre il meglio, quello che serve ancora oggi per tutti noi. questi occhi puntati su di noi, senza chiedere nulla, devono diventare così penetranti da farci sognare per loro un futuro diverso, un futuro che può essere migliore, se anche a loro è data la possibilità di esprimere al meglio le loro risorse. E allora mettiamoci a sognare anche noi con loro e per loro …

Quei bambini, che spesso noi consideriamo più una sorta di fastidio, di costo, di continuo motivo di preoccupazione, qui sono la sola risorsa che garantisca il futuro. È così anche nel “sogno di Dio”, quello che lui alimenta in Gesù, mandato fra noi a portarci il vivere di Dio. Perché allora non dovrebbe diventare pure il nostro sogno, riprovando a investire in loro le nostre risorse? Queste sono sempre spese bene, perché non costruiscono solo cose, mezzi, altri beni materiali, ma soprattutto persone con potenziale umano che può diventare qualcosa di nuovo, di geniale, di creativo. In essi ci appare la grazia di Dio, come ci viene detto nel giorno dell’Epifania, rivelatrice di Gesù come vero tesoro dato all’intera umanità, e in essi scopriamo che c’è davvero ancora futuro, in essi c’è il vero e migliore futuro. È proprio il caso di riconoscerlo: da un altro mondo, non più solo dal nostro, si aprono prospettive nuove e diverse per un mondo che ci auguriamo differente da quello attuale, nella misura in cui si fa più attento alle risorse umane e in esse trova il vero tesoro, ciò che dà speranza. Lo avevano intuito i Magi in quel Bambino che hanno colmato dei loro doni significativi per la sua missione; lo dobbiamo intuire anche noi, perché anche le nostre risorse per loro siano investite bene per la rinascita di tutti e per il rinnovamento di questo mondo.

Un Salvatore da salvare

L’ANNUNCIO DEL VANGELO: È NATO IL SALVATORE! È UN BAMBINO!

La notizia che noi ricaviamo dal Vangelo non è propriamente la nascita di un bambino, ma la venuta al mondo del Salvatore: così viene presentato ai pastori dall’angelo che ne dà loro l’annuncio.

Non temete:

ecco, vi annuncio una grande gioia,

che sarà di tutto il popolo:

oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore,

che è Cristo Signore.

Questo per voi il segno:

troverete un bambino avvolto in fasce,

adagiato in una mangiatoia.

(Luca 2,10-12)

Sarebbe stato più logico riferire loro la nascita di un bambino, e dare per questa notizia una serie di elementi straordinari da giustificare il richiamo a gente che non era abituata ad avere segni clamorosi. Invece nelle parole dell’evangelista, che già era stato piuttosto essenziale nel dare relazione di quel parto, scopriamo che il segno di riconoscimento per cogliere il salvatore di tutta quella gente, povera e senza futuro, stava proprio in un bambino, deposto dentro una mangiatoia. Un tal segno avrebbe dovuto scoraggiare quella gente, che forse era già abituata ad avere bambini così, se quel loro vivere era all’insegna della continua precarietà, per la quale un bambino poteva arrivare al mondo in quella stessa maniera.

Che nascesse ancora un bambino non era affatto una novità. Che trovasse posto in una capanna di fortuna, o in una stalla, non era neppure questo un caso raro. E soprattutto non poteva essere portato come un segno di riconoscimento per qualificare quel bambino come un salvatore. Anzi, il “loro” salvatore! Semmai, nato in quella circostanza, lo si doveva ritenere un bambino … da salvare, e non viceversa. La sua debole condizione non era solo quella di essere nato da poco, ma di aver trovato un alloggio di fortuna per questa sua comparsa, che non poteva risultare di buon auspicio. Leggi tutto “Un Salvatore da salvare”

Una preghiera per Francesca.

Con dolore confortato dalla speranza cristiana, Don Ivano comunica che ieri, sabato 27 novembre, si è spenta serenamente la sua cara zia Francesca Corti, che fino all’ultimo momento ha continuato a impegnarsi nell’aiuto ai più bisognosi.

Preghiamo insieme per accompagnarla tra le braccia del Padre.

FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE”

INTRODUZIONE

Religione come spiritualità

Entrare nell’ambito religioso, sia della vita sia delle opere di Dostoevskij, è addentrarsi in un mondo che per l’autore è essenziale ed esistenziale. Non è una religiosità chiara, sicura, adamantina: trattandosi di una ricerca, mai conclusa, essa appare con tutti i dubbi e con tutte i chiaro-oscuri di una materia, che avverte decisiva e nello stesso tempo mai sicuramente decisa. Per il fatto che il suo orizzonte storico e geografico è quello della Russia, è predominante una religiosità che trova le sue forme espressive nell’ortodossia. Ma il suo orizzonte non si limita lì, perché la sua religiosità viene da una profonda esigenza spirituale. E il tema religioso dipende dalle domande fondamentali a proposito della vita: sono le domande che attengono alla cosiddette “cose ultime”. E così le questioni di fondo sono quelle del destino dell’uomo e del suo vivere, il destino che ha il mondo, non solo come realtà naturale, e, più in là, addirittura, il destino di Dio. Poi, di fatto, la riflessione circa quei mali che si identificano con i demoni, legati alle idee provenienti dall’Europa, porta a considerare la necessità di una autentica rivoluzione, quella, naturalmente, dello spirito!

Dostoevskij ha indagato sino in fondo lo spirito rivoluzionario. Il destino storico della Russia ha giustificato le intuizioni di Dostoevskij per il quale la rivoluzione si è compiuta in considerevole misura. E per quanto essa sembri distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia deve essere riconosciuta per russa e tradizionale. L’auto distruzione è un tratto endemico. Tale costituzione della nostra anima nazionale ha aiutato Dostoevskij ad approfondire le cose dell’anima sino alla spiritualità, a uscire dai limiti della mediocrità dell’anima e a scoprire lontananze e profondità spirituali. (Berdajaev, p. 11)

Per una religiosità di popolo

Questo genere di analisi, fatta da Berdjaev a ridosso della rivoluzione ormai in atto, fa capire che la componente spirituale in Russia è stata di fatto sospesa, per una visione “religiosa” – quella messa in atto dai rivoluzionari – che non ha niente a che fare con la tradizione, perché la religione tradizionale viene combattuta come espressione della reazione e della controrivoluzione: essa si oppone non solo al cambiamento delle strutture e delle sovrastrutture, ma all’avvento del “sol dell’avvenire” identificato con il potere al popolo, che è di fatto “potere ai soviet del popolo”. L’indicazione data da Dostoevskij per il recupero della vera anima della Russia è stata disattesa, anche perché non è facile capire che cosa voglia di fatto suggerire lo scrittore con i suoi racconti. La religione di cui egli parla non si identifica di fatto con le forme tradizionali, e nello stesso tempo la religiosità “popolare” non appare sufficientemente elaborata e chiarita, se quanto noi scopriamo messo in bocca ai suoi personaggi risulta più un apparato di idee, che sono ben lungi da essere quelle sulla bocca e nella mente della gente comune, a cui egli fa appello.

Indubbiamente Dostoevskij ha come obiettivo il recupero della componente spirituale, che certamente è nel suo profondo coerente con l’eredità cristiana. Non si potrebbe comprendere pienamente il pensiero dello scrittore senza far riferimento al Cristianesimo e a ciò che di spirituale esso comunica, ben oltre le forme istituzionali e devozionali, ben oltre le forme dottrinarie e morali. Andare oltre qui significa che il suo è un cristianesimo visionario, costruito sulle immagini che egli ha e che egli dà mediante i racconti, spesso scaturenti dai personaggi dello stesso romanzo. Costoro si mettono a raccontare la loro “visione” di Dio, di Cristo, del tipo di mondo che essi vorrebbero vedere sempre ben oltre ciò che la storia o la realtà ci offre. Questo suo Cristianesimo visionario, fatto di immagini e di racconti, è indubbiamente molto suggestivo e nello stesso tempo molto sfuggente: attrae e seduce per la forza espressiva che esso ha, quasi un teatro dentro il teatro della vita, e nello stesso tempo crea forme di disorientamento, perché si fatica a trovare nel racconto qualcosa di ben definito circa la proposta di vita che andrebbe assunta fuori del racconto, quando poi si entra nella vita vissuta. Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE””

Nel VII centenario della morte di Dante: nella sua morte, nella verità della sua vita.

DANTE

TRA IL MONTE DEL PURGATORIO

E LA “SUA” FIRENZE

(DOMENICO DI MICHELINO – 1465)

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L’evento della morte di Dante

Come e quando morì Dante è ancora oggi avvolto nel mistero, perché le notizie che si hanno non sono univoche. Sembra assodato che già nel 1320 si sia trasferito a Ravenna, ospite del signore locale, Guido Novello da Polenta (1275-1333), che se ne servì per l’ambasceria presso il doge di Venezia, con cui Ravenna era in conflitto per le saline.

Ravenna era da sempre in rapporti piuttosto tesi con la metropoli lagunare, per inevitabili ragioni geopolitiche: i veneziani pretendevano il monopolio di tutte le merci che uscivano dal porto di Ravenna, in particolare una merce strategica come il sale di Comacchio, e i conflitti fra i due comuni, le accuse di contrabbando, gli accordi poi rinnegati o non mantenuti erano frequentissimi. Quell’estate Cecco Oderlaffi, subentrato da qualche anno al fratello Scarpetta nella signoria di Forlì, minacciava di far guerra a Ravenna e Venezia era disposta a finanziarlo; non sappiamo quale fosse il mandato di Dante, ma probabilmente il suo viaggio a Venezia doveva servire a prendere tempo e avvisare la Signoria dell’arrivo, più tardi, di una proposta concreta di accordo, che in effetti venne presentata da una nuova delegazione ravennate il 20 ottobre 1321.

Ma Dante era già morto da più di un mese, e di solito si conclude, tirando a indovinare, che ad ucciderlo sia stata una malaria fulminante contratta pro-prio durante quel viaggio tra le paludi. Rientra nella casistica dell’odio fiorentino per Venezia l’invenzione di Filippo Villani, secondo cui i veneziani, scarsamente preparati a confrontarsi con Dante sul terreno dell’eloquenza e spaventati dalla sua fama, rifiutarono di lasciarlo parlare, e quando il poeta, sofferente di febbri, chiede di poter rientrare a Ravenna via mare, egualmente rifiutarono, per paura che convertisse l’ammiraglio, costringendolo a uno scomodo rientro per via di terra che gli sarebbe costato così caro.

Come per tutto quel poco che sappiamo della sua vita, anche la data di morte di Dante è riferita da fonti contraddittorie. Secondo il Boccaccio morì il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, che corrisponde al 14 settembre, ma gli epitaffi che i letterati fecero a gara a scrivere per l’occasione data la morte del poeta alle idi di settembre, cioè il 13. Siccome uno di questi epitaffi, composto da Giovanni del Virgilio, è trascritto dal Boccaccio stesso, parrebbe che il biografo non ci vedesse nessuna contraddizione; e in effetti basta ricordare che le feste cristiane, in continuità con la tradizione ebraica, cominciano al tramonto della vigilia per concludere che Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero.

(Barbero p. 270-1) Leggi tutto “Nel VII centenario della morte di Dante: nella sua morte, nella verità della sua vita.”

DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA

LECTURA DANTIS IN LIMINE VITAE

La celebrazione centenaria in corso deve far pensare soprattutto alla morte di Dante. È indubbiamente un evento doloroso, e, certamente, anche inaspettato, se non altro perché avviene quando il poeta, ormai famoso per la sua grande opera, avrebbe potuto godere forse qualcosa di questa sua fama. Se il cammino era posto “nel mezzo” a 35 anni, e questi suoi anni cadevano mirabilmente nel 1300, anno giubilare, ma soprattutto anno carico nei simbolismi numerici del suo totale riferimento a Dio, la vita sua si sarebbe dovuta compiere a 70 anni. Ed invece Dante sparisce a 56 anni con un tracollo che avviene in poco tempo, senza che ci siano avvisaglie. Ma questo suo inabissarsi nella morte, che tutto vorrebbe assorbire e sfiorire, diventa in realtà l’ingresso in un mondo che gli dà giustamente fama ed eternità. È quello che lui stesso avverte di meritare, pur in mezzo all’amarezza di un esilio che diventa di giorno in giorno sempre più duro e senza sbocchi. Mentre la sua situazione di esiliato si incancrenisce e addirittura si fa senza speranza con la condanna a morte, non solo sua, ma anche dei figli, dopo la battaglia di Montecatini (1315), oltre a cercare la sua pace fra chi lo ammira e lo desidera, si dedica con tutte le sue forze ad ultimare la grande opera, ormai salendo sempre più fino all’ultimo cielo. C’è dunque anche in questo suo cammino come un’aspirazione alla pace eterna, senza per questo che egli si possa augurare la morte o possa cercarla. Semmai è a Firenze che si insiste nel volere la condanna alla pena capitale. Egli piuttosto aspira al riconoscimento pubblico della sua grandezza di poeta e forse anche per questo cerca chi lo possa comprendere e sostenere in questa sua aspirazione, accogliendo l’invito del Signore di Ravenna, che ha pure interessi e sensibilità per la poesia.

Dante esprime con chiarezza di essere consapevole che la sua opera gli possa meritare il “cappello” di poeta, e si augura sempre che la sua incoronazione avvenga a Firenze …

Se mai continga che ’l poema sacro

al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m’ha fatto per molti anni macro, Leggi tutto “DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA”