Dante e l’Europa (Impero)

IMPERO, NON EUROPA

Dante non pensa all’Europa; pensa all’Impero …

Sarebbe anacronistico e fuorviante considerare Dante un europeista convinto per la sua difesa ad oltranza della visione mitica di Impero, come Istituzione, considerata da lui assolutamente necessaria per contrastare i mali del suo tempo, imperversanti e per lui quanto mai dannosi. Il “suo” Impero non è certo ciò che noi oggi possiamo considerare la “Comunità europea”, ancora tutta da costruire, ben oltre le strutture istituzionali che oggi funzionano con molta fatica. L’Impero che Dante vagheggia, soprattutto con la figura piuttosto scialba di Arrigo VII, non è affatto una comunità di popoli e di Stati, come oggi si sta cercando di creare, senza riuscire ancora a trovare una base comune. Anche l’Impero pensato da Dante non appare con una base condivisa; e proprio per questo ciò che si vorrebbe mettere in campo non riesce a costituirsi, e naturalmente non riesce neppure a durare nel tempo.

L’avventura tentata da Arrigo VII dura lo spazio di pochi anni: dalla morte di Alberto d’Asburgo, il 1 maggio 1308, alla morte dello stesso Arrigo VII, il 24 agosto 1313.

L’Istituzione imperiale nel XIII secolo

Certo, l’Istituzione imperiale c’era anche prima; ma, dai tempi della morte di Federico II di Svevia (1250), mancava una figura forte e coraggiosa di riferimento. E dopo la breve parentesi di Arrigo VII non ci sarà altro spazio se non per qualcosa di puramente nominale, con la progressiva germanizzazione di questa struttura, che voleva presentarsi come l’erede dell’Impero romano, già da tempo decaduto.

L’ammirazione che Dante nutre per l’Impero non è certo riposta in una forma istituzionale, come di fatto si presentava in quegli anni: essa appariva indubbiamente già superata; e si presentava come un ideale non più proponibile, anche perché l’ultimo erede, Federico II, l’aveva di fatto modificata radicalmente con una impostazione che gli derivava dalla educazione normanna ricevuta. Lo Svevo continuava, certo, a fregiarsi di quel titolo, e quindi a presentarsi come un’autorità al di sopra delle parti, come colui che avrebbe dovuto comporre gli attriti fra le nuove forze politiche ed economiche venute a galla. Ma lui stesso si era trovato a dover contrastare chi nel lungo periodo medievale aveva svolto di fatto un ruolo di supplenza, quando veniva a mancare l’autorità imperiale, e cioè il Papa; e aveva trovato sul suo cammino un vecchio Papa, Gregorio IX, dotato di notevole energia. Leggi tutto “Dante e l’Europa (Impero)”

DANTE-DÌ 2021

25 MARZO 2021

Il 25 marzo, festa dell’Incarnazione, perché siamo esattamente a 9 mesi di distanza dal Natale, è sempre stato nel calendario cristiano un giorno molto significativo, assommando in sé i grandi misteri della fede cristiana: soprattutto nel Medioevo qui si collocava la data dell’inizio del mondo, della Creazione, in quanto il rinnova-mento primaverile, legato all’equinozio e nello stesso tempo al plenilunio in corso, fa pensare che qui sia iniziato il ciclo naturale e qui venga continuamente ripreso ogni anno. Proprio nella medesima circostanza viene collocato l’inizio della vita umana del Redentore, che viene concepito all’annuncio dell’angelo nell’utero di Maria. Lo stesso ciclo vitale viene ripreso con la Redenzione, collocata nella medesima data, perché la Pasqua ebraica, che ricorda l’uscita dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso viene collocata in occasione del plenilunio di primavera, così come è rimasta legata ad esso anche nell’ambito cristiano.

Eppure sui calendari liturgici medievali, ancora presenti nei messali manoscritti dell’epoca, indipendentemente dal fatto che la Pasqua cristiana debba essere celebrata di domenica, si indicava il 25 marzo come il giorno delle Redenzione con la morte del Signore.

Proprio per la concomitanza nello stesso giorno dei misteri principali della fede cristiana, Dante aveva collocato idealmente il suo “fantastico” viaggio nell’oltretomba nel Triduo pasquale dell’anno 1300, tra il 25 e il 27 marzo. Ritrovatosi “nella selva oscura, ché la diritta via era smarrita”, deve scendere nell’Inferno nel giorno della morte del Salvatore; deve passare nel Purgatorio il giorno della presenza di Cristo agli Inferi con la sepoltura, e ne esce illuminato dalla luce celestiale del Paradiso il giorno della Risurrezione. Il 1300 è l’anno del Giubileo della “gran perdonanza”, presentandosi esso con i numeri simbolici che richiamano l’Unità e la Trinità di Dio, perché dentro questo mistero l’uomo viva il suo passaggio redentivo. Ciò che succede per Dante, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, succede pure per ogni uomo, che è condotto dalla ragione, rappresentata da Virgilio, e dalla fede, rappresentata da Beatrice, a “riveder le stelle”, (Inferno, XXXIV, 139) uscendo dall’Inferno, “puro e disposto a salire a le stelle” (Purgatorio, XXXIII, 145), salito sulla montagna del Purgatorio, così da contemplare e godere “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, 145), quando arriva alla sommità del cielo a godere per sempre Dio. Qui dunque si compie il mistero di Dio e nel contempo il vivere dell’uomo …

LA SUPPLICA ALLA VERGINE

All’apertura dell’ultimo canto del Paradiso si eleva una magnifica preghiera alla Vergine, messa in bocca a S. Bernardo da Dante. Il santo è conosciuto come il cantore di Maria per le stupende omelie e preghiere che ha disseminato nelle sue opere. È una preghiera che il mistico abate medievale innalza a Maria perché Dante, rappresentante di ogni uomo, possa elevarsi a Dio, non senza la grazia che giunge all’uomo per l’intercessione di Maria. C’è tutta l’ammirazione e, insieme, si esprime la devozione con la quale l’animo si eleva a colei che è qui descritta nelle diverse “antinomie” come una creatura impareggiabile, come il prodigio scaturito dalla mente e dal cuore di Dio, vertice vertiginoso di ciò che il Creatore ha fatto, compia-cendosi poi di essere “fatto” lui stesso in lei. La preghiera si snoda in sette terzine (anche se poi continua con la parte dedicata alla supplica particolare per Dante che deve entrare al sommo del Paradiso). Queste distribuiscono l’orazione in tre momenti: le prime tre terzine sono una esaltazione di Maria, la più bella fra le creature di Dio e nel contempo la creatura umana che diventa la terra accogliente perché possa spuntare il fiore di Dio nella valle desolata. La terzina successiva, il cuore della preghiera, dice che lei è pure il punto di incontro fra i beati e quanti sono ancora nell’esilio terreno, come fiaccola di carità per i primi e fontana di speranza per i secondi. La supplica si esprime poi nelle ultime terzine con il riconoscimento che solo da lei ci può essere la garanzia perché la preghiera arrivi a Dio e la grazia di Dio raggiunga la debolezza umana. E così la preghiera con lei può avere le ali per raggiungere Dio, come da lei possono passare all’uomo la misericordia, la pietà e la bontà stessa di Dio, di cui lei è ricolma e che da lei si riversa pienamente in ogni creatura. Questa “è la preghiera di tutti, perenne, rivolta a colei che l’etterno consiglio aveva destinato appunto, con la sua divina maternità, a essere il tramite attraverso cui il divino si umanizza e l’umano, salvandosi, sale al divino. Rivolgendosi a tale Donna, il linguaggio non poteva non essere alto … Maria è colei a cui “ogni loquela serba i più bei nomi” come dirà un altro poeta, il Manzoni …”. E qui, se è grande colei che viene celebrata, pur nella sua umiltà di creatura, è pure grande, nella sua devota ammirazione, Dante che si fa interprete di tutti, mentre lo interpreta S. Bernardo elevando queste sublimi espressioni di filiale e commossa supplica, che viene dal cuore e che tocca profondamente il cuore. Ci sentiamo tutti toccati e coinvolti in una preghiera nient’affatto retorica e davvero molto cristiana e molto umana … Leggi tutto “DANTE-DÌ 2021”

La Pasqua di Giuseppe.

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PER FEDE FU PORTATO VIA,

IN MODO TALE DA NON VEDERE LA MORTE

E NON LO SI TROVO’ PIU’,

PERCHE’ DIO LO AVEVA PORTATO VIA …

EGLI FU DICHIARATO PERSONA GRADITA A DIO.

SENZA LA FEDE E’ IMPOSSIBILE ESSERE GRADITI A DIO.

CHI SI AVVICINA A DIO DEVE CREDERE CHE EGLI ESISTE

E CHE RICOMPENSA COLORO CHE LO CERCANO.

(Ebrei 11,4-5)

1 – COME GIUSEPPE VIVE LA PASQUA

Parlare della Pasqua di Giuseppe sembra impossibile.

In occasione della Pasqua di Gesù, quando egli muore sulla croce, Giuseppe in questo mondo, a quanto pare, non c’è più. Lo dovremmo pensare in quel Limbo sotterraneo, gli Inferi, dentro il quale Gesù “discese”, come diciamo nel Simbolo apostolico, proprio per abbattere quelle porte, e per far uscire quanti aspettavano la redenzione. Dobbiamo immaginare che dietro i progenitori, Adamo ed Eva, e tutti i giusti del mondo antico, spesso rappresentati nella scena, immaginata per descrivere questo momento, pronti ad uscire con Gesù a nuova vita, ci possa essere anche lui, il padre “putativo”. Non c’è mai stato alcun dubbio nella Chiesa, sia con il suo Magistero, sia con la pietà dei fedeli, circa il riconoscimento della santità di Giuseppe, che noi avvertiamo tale per ogni uomo o donna, non solo in base alla cosiddetta eroicità delle virtù, ma anche e soprattutto per un’esistenza vissuta in conformità al Figlio di Dio e al suo Vangelo. E questo lo possiamo dire a proposito di Giuseppe vissuto accanto al Figlio, a servizio del Figlio, assumendone lo Spirito: già per questo motivo lo dobbiamo riconoscere come santo. È a partire da una esistenza terrena vissuta in unione con Gesù che si può riconoscere la santità, quella che viene poi definita “post mortem”. Se la santità viene vissuta nel cammino terreno, essa è data nel passaggio al mondo definitivo di Dio, con la morte, in unione con la Pasqua di Cristo.

Anche per Giuseppe dobbiamo parlare di una Pasqua, quella vissuta al momento in cui Cristo fa il suo passaggio nel mondo ultraterreno. Ma non è neppure da trascurare quella che lui vive nel momento della sua morte, per la quale non abbiamo alcun documento.

E poi nel vangelo ci sono per quest’uomo altre esperienze di Pasqua, che, anche nella ristrettezza delle informazioni, non possiamo e non dobbiamo trascurare. C’è per Giuseppe la Pasqua come data celebrativa, come festività ebraica, a cui egli partecipava da buon ebreo, ma anche da “uomo giusto”, come viene qualificato nel Vangelo. Ed era giusto, non solo per la sua obbedienza alla legge, quanto piuttosto per la sua fedeltà a Dio. Per l’episodio di Gesù dodicenne, si dice che, come ogni anno, in occasione della Pasqua, i suoi genitori salivano a Gerusalemme, portando con sé il bambino, in quell’occasione già divenuto un fanciullo. Andare al tempio ogni festa di Pasqua è il segno della religiosità propria di quella famiglia, che non solo si adattava alle pratiche, ma, vivendole, si trovava essa stessa coinvolta, come capita lì, con la scomparsa di Gesù, proprio nel tempio. È evidente che l’evangelista Luca carica di un particolare valore simbolico questo episodio, presentando Gesù che scompare per tre giorni, come sarà in occasione della sua ultima Pasqua, e che poi riemerge, quasi presagio della futura risurrezione, mentre lo si scopre a insegnare nel tempio. Anche questo dettaglio – quello di riapparire mentre insegna – ha il suo forte valore, perché il nucleo fondamentale del suo insegnamento non è dato dai sermoni, dalla parabole, dai richiami alle leggi, ma da ciò che più gli preme, e cioè la sua passione e la sua croce. In effetti nel Vangelo momento della passione, sempre richiamato, come se fosse un preavviso o una predizione, è in realtà un insegnamento, a cui Gesù tiene, volendo lasciare ai suoi discepoli proprio questa lezione di vita. E anche in questa occasione, rivelandosi orientato alla sua missione, presente alla sua coscienza, anche grazie alla formazione dei suoi genitori, Gesù li coinvolge, perché essi stessi vivono quei tre giorni di scomparsa, immersi nell’angoscia. La parola usata e messa in bocca a Maria, la quale parla a nome di Giuseppe, anzi mettendolo prima di sé nel richiamo fatto a Gesù, dice proprio il tormento dell’animo, come una sofferenza che consuma interiormente. Così anche Giuseppe, insieme con la moglie, vive quei giorni oscuri con un dolore che opprime e che corrode l’animo, avvertendo in questo suo distacco l’inizio di quel successivo distanziamento, che porterà lui fuori della scena di questo mondo e il Figlio avviato alla sua “ora”, quella di passare da questo mondo al Padre. Sulla base di questo unico episodio della fanciullezza di Gesù, proprio perché vissuto in occasione della Pasqua, dobbiamo riconoscere che qui, nel suo nascondimento, il massaggio proprio del vangelo, la bella notizia da cogliere, è proprio nel segnalare che Gesù vive orientato ad essere lui stesso la Pasqua, in un sacrificio che non è più solo il culto nel tempio, ma diventa la sua stessa esistenza messa a disposizione, come è nella natura del vivere di Dio, come è nell’educazione avuta dai genitori e, in particolare, da colui che a buon motivo può essere considerato l’ombra sulla terra del Padre celeste.

Non c’è nessun elemento che ci possa aiutare in questa direzione: riconoscere nell’educazione di Gesù da parte di Giuseppe l’indicazione precisa di una impostazione della vita segnata dalla Passione. C’è solo da supporre che, sulla base di questo episodio, Gesù stesso ammette di essere tutto immerso nelle “cose” di suo Padre, a partire dai suoi genitori, che potevano dunque ben capire il senso di questo suo modo di fare in occasione di quella Pasqua. Se poi consideriamo il fatto che Giuseppe nella versione di Matteo appare sempre occupato dal sonno, il suo modo di penetrare nel mistero di Dio e dei suoi disegni, e il suo modo di impegnare la propria vita nel mettersi a disposizione con tutti i rischi che ne derivano, dobbiamo in effetti riconoscere che quest’uomo è tutto impostato sulla Pasqua, cioè sul sacrificio di sé, quasi uno sparire perché altri abbiano la vita … Leggi tutto “La Pasqua di Giuseppe.”

DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO

DANTE E FIRENZE: UN AMORE TORMENTATO

Il rapporto tra Firenze e il suo più noto cittadino, che è anche il suo massimo poeta, è piuttosto burrascoso, tormentato, non ancora del tutto sopito, se si pensa al fatto che lui non vi è sepolto e che non vi troverà mai sepoltura. E le polemiche per questo motivo persistono. Dante è vissuto in anni molto agitati, in cui le lotte intestine alla città erano frequenti, e soprattutto molto sanguinose, tali da travolgere lo stesso poeta, che non vi troverà pace. E tuttavia, per la sua città, Dante coltivò un grande amore, anche a registrarne le degenerazioni, ritenute insanabili. Anche quando sembra che dalle invettive sprigioni odio, risentimento, malanimo, in realtà per Firenze c’è sempre amore, quello che lo fa essere capace di riconoscere, anche agli avversari irriducibili, quella forma di grandezza che fa stagliare bene le figure dei suoi personaggi.

Nei confronti di Firenze egli tende a divenire “Laudator temporis acti”, e perciò ammiratore del buon tempo andato, che sarebbe bello ripristinare, senza mai riuscire a farlo. Evidentemente la città è in fermento e in trasformazione, come ogni realtà umana, in ogni tempo. Ma qui, forse, l’accelerazione per questi mutamenti appariva notevole, anche per gli interessi di tipo economico e finanziario che erano messi in campo.

Firenze era indubbiamente in rapida trasformazione per un accumulo di denaro, che risultava quanto mai consistente e ad ampio raggio dentro la sua popolazione. Gli appetiti apparivano smodati, ma anche le trasformazioni sociali erano rapide e tali da non essere facilmente controllate e controllabili neppure dentro istituzioni politiche forti. Anzi, è proprio il sistema istituzionale che non funziona, e ne sono vittime i cittadini stessi; ne risulterà vittima lo stesso Dante, proprio all’apice della sua carriera politica, che sarà anche la sua rovina.

Dante viene a trovarsi in un periodo di rapide trasformazioni politiche, sociali e soprattutto economiche, mentre sull’orizzonte i sistemi che avevano costruito l’assetto europeo nel Medioevo non tenevano più, e lui pensava di appellarsi ad esse per recuperare un po’ di pace, senza rendersi conto che il mondo andava in ben altre direzioni. Papato ed Impero, le colonne portanti del sistema medievale, vivevano uno scontro che li avrebbe esauriti, mentre i nuovi centri di potere, ma soprattutto le nuove energie economiche, stavano emergendo nei particolarismi diversi, e poi destinati allo scontro, e cioè le città, di notevole vivacità mercantile, e i regni periferici all’impero, che larga parte di storia avrebbero avuto con il loro assetto nazionale. Proprio l’anno della collocazione del grande ideale viaggio nell’oltretomba, narrato nel suo capolavoro, appare come l’anno del tramonto del Medioevo, quando, proprio in occasione del Giubileo, appaiono nuove forze all’orizzonte, per manovrare le quali è necessario un nuovo sistema istituzionale. Dante non sembra rendersi conto; e, forse anche perché travolto dalle circostanze che lo investono personalmente, pensa che sia possibile il rinnovamento facendo appello a ciò che in realtà è al tramonto. Leggi tutto “DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO”

Il Natale nel Vangelo di Giuseppe.

Non poteva mancare una riflessione di Don Ivano sul Natale e quest’anno l’ispirazione del tema è venuta proprio da Papa Francesco che ha indetto l’anno di S. Giuseppe a partire dall’8 dicembre scorso.

Cliccando sul link  IL NATALE di S. GIUSEPPE (versione verticale) potrete leggere il testo che farà da filo conduttore nella videoconferenza di lunedì 21 dicembre alle ore 15.

Verrà inviato il link ai soci UTE di Erba, ai gruppi parrocchiali di Arcellasco e a chi ne farà richiesta.

CI IMPEGNIAMO NOI …

NELLA SETTIMANA DEI CENTRI CULTURALI CATTOLICI

CI IMPEGNIAMO NOI …

CONVERSAZIONE CON DON PRIMO MAZZOLARI

RISVEGLIARE L’UMANO

“Risvegliare l’umano” è un bel modo di segnalare che qualcosa oggi appare quanto meno assopito, se non addirittura spento. Ciò che noi consideriamo “umano” è propriamente quello “spirito” che accomuna tutti gli uomini, come atteggiamento dell’animo, come mentalità, come carica o passione interiore, che segnala una coscienza e attiva una responsabilità.  Vi è in effetti un certo deficit di coscienza, se proliferano le leggi; vi è scarsa responsabilità, se ciascuno si defila dal proprio impegno e soprattutto dall’assunzione del proprio ruolo in quel genere di servizio che dobbiamo considerare non solo come un lavoro, ma come una sorta di missione. Se si risveglia, ciò significa che ad ogni tornante della storia va ripetuta questa azione, sempre necessaria, quando si assiste ad una calo di tensione positiva che fa presagire una specie di collasso.

Fare questa operazione significa riaccendere nella mente e nei cuori, nell’intelligenza e nella volontà, la passione per l’uomo, per ciò che è veramente umano, tenuto conto che è intervenuta una distorsione, quando si fa prevalere ciò che è puramente sensibile, sensoriale, sensitivo, e che è insufficiente (ma non per questo da trascurare) a rendere davvero più umano il vivere

Questa operazione, o questa missione, compete prima di tutto a quella cultura umanistica, che risulta basilare nel patrimonio culturale del nostro mondo “mediterraneo” (non solo europeo) e che va essa stessa risvegliata perché ancora produca i suoi frutti.

Per definizione, sono produttori di questa cultura umanistica i “poeti”. Il vocabolo greco, “poihsis” (=poiesis) cioè “poesia”, deriva dal verbo “poiew”(=poieo), che significa “fare a partire dal cuore”, dall’interiorità, dallo spirito umano; perciò i veri “produttori” di cultura umanistica sono loro, non solo perché essi scrivono in versi, ma perché nel loro scrivere, anche sotto il profilo contenutistico, sono come dei profeti, cioè capaci di parlare a nome di altri, a nome di tutti e in favore di tutti.

Una vera cultura è possibile proprio con questa interazione fra scrittori e lettori, tra produttori e fruitori di una parola, che è un vero processo comunicativo, mediante il quale lo spirito umano si definisce, si risveglia, si arricchisce, si produce in continuazione …

Ogni poeta, ogni profeta, ogni scrittore secondo lo spirito, contribuisce a quel percorso e cammino, che è indispensabile perché l’uomo cresca nella sua personalità, nella sua globalità, nella sua apertura a tutti e al mondo. Dovremmo lì cercare quell’umano, che poi dobbiamo risvegliare in noi.

DON PRIMO MAZZOLARI

Prendiamo l’avvio, in questo genere di ricerca, da uno scrittore, che non è annoverato fra quelli delle antologie di letteratura, perché nessuno ha mai cercato di riconoscere nei suoi testi anche una forma espressiva molto originale, che lo fa essere uno scrittore di vaglia. Non era questa comunque la sua prima attività; e neppure si era prefisso di raggiungere un simile obiettivo, anche se lo scrivere e il pubblicare libri lo qualificano come un autore, di notevole spessore e di rara efficacia, poi letto, seguito, riconosciuto per questa sua passione, che diventa anche una sua missione.

Don Primo Mazzolari si qualifica innanzitutto come prete, e così egli vuole essere riconosciuto, anche se ha trovato nello scrivere la stessa facilità comunicativa che gli sgorgava nel suo parlare e nel suo predicare.

In effetti nel suo scrivere si riconosce la qualità di un linguaggio parlato, molto tagliente, molto incisivo nel cogliere l’essenziale, nell’arrivare alla battuta che lascia il segno. E non mancano quelle immagini che appartengono spesso al linguaggio della gente comune, quando, ricorrendo a paragoni, possono dare  più efficacia al loro dire, rispetto alle parole astratte. Qualche suo lavoro, oggi pubblicato, apparteneva inizialmente alla sua predicazione, con la suggestione di chi sta colpendo l’uditorio anche mediante il tono di voce e il ricorso a vocaboli efficaci nel loro fonema.

Molto, però, di quanto abbiamo, è comunque originariamente redatto per iscritto, ed è quindi un lavoro pensato e nel contempo espresso, come se l’autore avesse davanti a sé gli ascoltatori, quelli che non sono solo sintonizzati sui concetti che lui sta elaborando, ma sono pure appartenenti alla gente comune, che don Primo conosce per la sua missione di prete e in particolare di parroco, e di curato di campagna.

Il suo parlare, anche quando è condensato in uno scritto, ha di vista il concreto, cioè vuol toccare la realtà del momento e vuol spronare chi ascolta e chi legge ad un impegno, che non sia solo l’esecuzione materiale di uno schema, ma sia soprattutto la traduzione di uno spirito acquisito e fatto proprio.

I suoi primi tentativi di opere scritte hanno pure il sapore di romanzi, legati alla sua esperienza di vita.

Ma poi prevale in lui lo stile del pamphlet, che gli permette anche battute epigrammatiche.

E così il suo scrivere si muoverà ben presto fra testi antologici e articoli di giornali o di riviste, che lo fanno muovere fra la realtà civile e quella ecclesiastica, trovando, non solo nella stagione del fascismo, levate di scudi che lo portano allo scontro e all’incomprensione. Anche da parte dell’autorità della Chiesa, soprattutto negli uffici curiali, più che non nelle considerazioni delle figure gerarchiche, non mancheranno interventi censori, condanne, e obblighi al silenzio.

Ma la “tromba padana”, come fu definito, non mancò mai di far sentire il suo suono alto e coraggioso.

Forse, non raggiungerà mai la perfezione stilistica di uno scrittore votato alla letteratura, ma il suo modo di scrivere, sia per la forma, sia per i contenuti, appare spesso accattivante e sempre stimolante, non solo per suscitare la riflessione, ma soprattutto per attivare un impegno. E questo suo impegnare va ben oltre il fuoco acceso interiormente per una causa. La causa che lo muove è soprattutto a favore di questa umanità che lui vuol servire pienamente e totalmente con il vangelo, reso sempre più vivo con la sua applicazione alle realtà contemporanee. Quello che oggi si legge nei suoi libri, per quanto sia datato e si riferisca a situazioni che qua e là si potrebbero anche ricostruire, è tuttavia di continua attualità, proprio perché il suo discorrere è quanto mai profetico, in presenza di questioni politiche, sociali e religiose che non si limitano al quadro contingente. E così anche a rileggere oggi i testi, bisogna sempre ricordare che essi sono nati da una particolare problematica e sono inseriti in un particolare momento; se in realtà si leggono senza questa avvertenza, qualcuno potrebbe pensare che il testo sia ancora molto pertinente e vada diritto a toccare nervi ancora scoperti del mondo sociale e del mondo ecclesiale.

IMPEGNO CON CRISTO

La scelta di quest’uomo e dei suoi testi, in questo nostro voler risvegliare l’umano, deriva dal fatto che ci troviamo in presenza di una forte personalità, che appartiene, certo al mondo cattolico e alla Chiesa, in particolare, per il suo versante clericale, ma senza mai smentirsi come uomo e come uomo di frontiera, sul quale ognuno potrebbe riconoscersi, anche senza aderire ad una fede o a una parte politica. Per quanto il suo discorso non possa prescindere dalla sua scelta di vita sacerdotale, ogni persona potrebbe scoprire, in certe sue battute, un richiamo a quell’ “umano” che andrebbe sempre ricercato come basilare per tutti e come essenziale al vivere di ciascuno. Proprio come cattolico, nella sua accezione più vera e più profonda, don Primo vuole essere davvero di tutti, davvero universale; e vuol parlare diritto al cuore di ciascuno, muovendolo all’impegno, che non è solo operativo, ma è anche e soprattutto suscitatore di coscienze libere e responsabili. Indubbiamente il richiamo più forte e più noto è contenuto nel suo “Impegno con Cristo” del 1943, opera redatta in piena guerra come riflessione sua sulla funzione del cristianesimo nel passaggio storico che era già in corso.

Egli “si chiedeva se il cristianesimo avesse esaurito la sua funzione storica e si affrettava a rispondere negativamente, anzi aggiungeva: “Ben lungi dall’essere esaurito, il cristianesimo è il solo rimedio ai mali del nostro secolo” . Però il cristianesimo era da riscoprire in tutta la sua vigoria … Mazzolari chiamava all’im-pegno, senza giudicare chi non si impegnava, sapendo che “il mondo si muove, se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura” … E c’è una pagina, che vale tutto il libro e che chiarisce il rapporto cristiano-Chiesa. Questa non è “uno stato maggiore che dispone piani fino all’ultimo particolare … Il credente non è la pedina di uno scacchiere, la quale venga manovrata dal di fuori … il cristiano … deve agire secondo la propria coscienza in comunione con la Chiesa … La Chiesa non ha comandato né S. Benedetto, né S. Francesco, né S. Ignazio, né S. Giovanni Bosco … Ci sono compiti che lo Spirito Santo affida a ogni cristiano”. (Dorofatti, p. 246)

Per aver a che fare con colui che si è definito “Figlio dell’uomo”, ogni uomo può impegnarsi con lui e come lui. E questo lo può fare a partire dalla propria coscienza. Allo stesso modo chi è cristiano si impegna e se lo fa con la Chiesa non esprime il suo impegno perché “precettato”, ma perché così si sente un vero uomo che vuol vivere “da Dio”.

La pagina seguente ci può far intendere che cosa significhi per lui risvegliare l’umano, passando attraverso la figura di Cristo, non solo conosciuta sui libri, ma divenuta familiare in una fede profonda. Dobbiamo considerare quella figura, anche per chi non ci crede e magari chiede a noi le ragioni del nostro credere. E noi lo conosciamo non già a partire da una specie di “santino” preconfezionato, da un trattato che vuol spiegare ogni cosa con assolute certezze, per accettare ogni cosa “a scatola chiusa” o “ad occhi sbarrati”, ma per aver intuito che lui si è impegnato con noi, si è messo al nostro passo, inserendosi nel nostro vivere con il suo vivere, sempre con molta discrezione e con molto rispetto, anche quando egli chiede totalità, perché egli dà sempre il massimo e il meglio di sé.

Si parla troppo di Cristo; e avevamo pensa­to di tenere il suo nome, adorato e bestemmia­to, dentro di noi, impegnandoci solo nel segreto. Il vero amore non si dichiara in pubblico senza tradirlo un po’. Ci sono pudori che voglia­mo rispettare in noi e negli altri. Oggi più che mai: perché oggi, come in ogni ora sconvolta, le indicazioni e gli appelli verso il Cristo si fan­no più insistenti. Di lui c’è chi dichiara l’irrimediabile tramon­to: chi ne disegna una nuova giornata senza fine: chi l‘invoca nella disperata rovina di ogni cosa e gli s’avvinghia: chi lo maledice e se ne allontana. Dove s’avviino costoro che s’allonta­nano, non lo sappiamo. Parecchi, sgomenti di un andare senza mèta e senza mandato, credo­no, voltandosi indietro, di vedere il bagliore della spada dell’arcangelo che sbarra il ritorno. E davanti non c’è che l’ombra della croce. Ci sono troppe croci sul nostro cammino per immaginare che la sua possa essere elimi­nata come un ingombro. Il dolore, è vero, è un di più, ma non siamo ancora stati capaci di farne senza. Noi raccogliamo con venerazione ogni voce che lo riguarda, ma gli parliamo con la nostra, non importa se povera, non importa se appena un sospiro, un faticoso sospiro del cuore, che appena s’avvia, e da ogni strada, verso di lui. Noi raccogliamo con scrupolo ogni parola di fede o di negazione, ma lo vogliamo sentire, da presso o da lontano, col nostro cuore, ov’egli è presente per ogni pena che ci rode, per ogni anelito di bene che ci muove, per ogni fantasia di bellezza e di bontà che ci scalda. Parecchi non vi sanno dire ancora se cre­dono in lui o se vi potranno credere domani; tutti però sappiamo ch‘egli è nel nostro cuore prima di ognuno, ch’egli è presente più di ognu­no, più a casa sua in noi di noi stessi, e che il primo e più fermo impegno nostro è per lui. Per lui, più ancora che per la sua parola: per lui, più ancora di ogni suo esempio: per lui, più di ogni cosa sua che lo riguardi sia in cielo che in terra: per lui, come lo vedono i nostri poveri occhi, anche quando non lo vedo­no: anche quando non possono vederlo come vorrebbero: anche quando si rifiutano di veder­lo come deve essere visto. Non tutti lo possono vedere nell‘ora trasfi­gurata del Tabor, né tutti arrivare «dov’egli di­mora» e stare con lui. Quando si chiama, non tutti ci sentiamo ri­spondere: quando si picchia, non a tutti la por­ta si apre: quando si cerca, non sempre si trova. Se uno ci dice: «Abbiamo trovato il Signo­re»‚ si sentirà rispondere con Natanaele: «Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth?». E se quegli insiste: «Vieni e vedrai…»‚ ci met­teremo in strada, sicuri che il Signore avrà per noi la stessa accoglienza: «Ecco un vero Israe­lita in cui non c’è frode». Proprio così: gente che vuol vedere, che va per vedere, poiché la fede, se è un vedere con l’occhio che c’impresta il Signore, è anche que­sto sincero e continuato desiderio di ricerca che ci fa camminare fino alla fine, quando «può venire la notte come può venire il giorno». Se scenderà la notte, domanderemo di rima­nere come le Vergini sapienti, custodendo, nel­la vigile attesa, più che la debole fiamma della lampada, l’olio per accenderla all‘apparire dello Sposo. Se comincerà il giorno, scenderemo sulle piazze per essere impegnati, poiché «sul far del giorno il padrone esce sulla piazza per im­pegnare gli operai al lavoro nella sua vigna». E così ad ogni ora del giorno, fino all’ora nona, operai di qualsiasi ora, poiché lavora tanto chi porta il peso del sole, come chi porta il peso dell’attesa, il peso del non vedere, il peso di non essere chiamato. Molti ci domandano, prima di ogni altra co­sa: «E voi che ne pensate del Cristo? Chi dite ch’egli sia?».Una domanda più che ragionevole in un mondo dove la forma vale più del contenuto e il definirsi ha maggiore importanza dell’es­sere. Una definizione, per quanto esatta, non ha nulla di impegnativo. La perfetta risposta di Pietro sulla strada di Cesarea dì Filippo non lo salva dal rinnegare tre volte il Maestro, men­tre un generico: «Tu, Signore, sai che ti vo­glio bene» lo impegna fino alla morte e più oltre. Tutti conosciamo la risposta della fede e molti di noi possono ripeterla, per grazia, da­vanti a chiunque. Se non lo facciamo, è perché siamo persuasi che un’ostensione puramente letterale, se scom­pagnata da una testimonianza di vita, allontana invece di avvicinare il lontano: che camminan­do in silenzio accanto ai molti che cercano, cer­catori anche noi di una realtà ineffabile che non si esaurisce in una formula quantunque esatta e significativa, possiamo meglio aiutare ed es­sere aiutati. Chi dice di veder meglio non sempre è davan­ti, non sempre è il servitore più operoso, non sempre il più fedele. Siamo malati con chi è malato: forti coi forti: sapienti coi sapienti: pellegrini con chi cammina: cercatori con quelli che non hanno fede o credono di non averla.

La vera gerarchia insegnataci dal Vangelo incomincia dall’«ultimo». Una fede che pren­de il passo di chi non crede, non è qualcosa di perduto o di diminuito. Ci chiedete: «Chi è il Cristo per voi?» e vi accontentate di una risposta che può essere di sola memoria! Chiedeteci (prima o dopo non importa: ciò che è vivo non conosce cerimoniale): «Che cosa voi proponete di essere per Cristo?». E vi risponderemo: «Vogliamo essere qualcuno per lui, come egli è qualcuno per noi». Un ponte vuole due testate. Qualcuno anche di qua e che si offra: come si offre l’Offerto. Qualcuno che si perda e si ritrovi in un libero continuo donarsi, perduto e redento, «figlio dell’uomo» che si accetta com’è e che, dietro ineffabili richiami, cammina verso la manifestazione del «Figlio di Dio»‚ punto di arrivo più che linea di partenza. Come e quando si arrivi, nessuno può saper­lo e imporlo. Ci possiamo arrivare come Nico­demo o come Zaccheo, come Pietro o come Pao­lo, come il Buon ladrone o come il Centurione. Rispetto a lui niente è conclusivo, niente vano, anche il più vuoto camminare, anche il più smarrito. Egli ci attende e ci raggiunge, ci rampogna e ci consola, sta all’avanguardia e alla retro­guardia, a seconda del nostro camminare a ri­troso o in armonia con noi stessi. Prendere impegno con lui non vuoi dire: mettere il Cristo dalla nostra parte, adattarlo al nostro passo, misurarlo col nostro metro, obbligarlo alle nostre strade. Egli cammina con ognuno su tutte le nostre strade, ma non per questo sono sue le nostre strade. Egli cammina sui campi di battaglia, ma nessuno oserà dire che egli li ha voluti. Impegnandoci con lui, intendiamo prima di tutto impedirci dall’attribuirgli qualsiasi cosa nostra che lo oscuri e lo diminuisca. Ci impegnamo a seguirlo, non a farci se­guire. Se ci tien dietro, è col suo cuore di Buon Pastore che ci tien dietro: siamo degli smarri­ti ed egli, nella sua carità, viene sulle nostre tracce. Ci impegnamo a seguirlo, costi quello che co­sti, perché «gli uccelli dell’aria hanno i loro nidi, le volpi le loro tane, e il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo». Ci impegnamo a seguirlo senza guardare indietro, senza commiati, senza rimpianti, sen­za nostalgie di cose, senza chiedergli dove sia e se ci può prendere: a seguirlo sino alla fine, senza chiedergli su quale monte né su quale croce potremo dire il nostro «consummatum est»‚ senza chiedergli che ci darà per le cose che abbiamo abbandonate. Se ci prende con sé, se ci fa lavorare, se ci manda come pecore in mezzo ai lupi, col suo nome nel cuore più che sul labbro, noi saremo contenti. Una sola cosa osiamo chiedergli: che ci chia­mi «amico»‚ anche quando stiamo per tradirlo. Sotto quel nome, il nostro povero cuore tra­salirà nella certezza di essere stato portato al di là del limite umano. Conosciamo i nostri limiti: i limiti del no­stro slancio, i limiti dei nostro cuore, i limiti della nostra volontà, i limiti della nostra fe­deltà. Ci sentiamo uomini e così poveri uomini che non siamo sicuri di niente di ciò che ci ri­guarda. Ci sentiamo viandanti e vorremmo, pri­ma che cali la sera, godere il nostro breve passaggio. L’impegno ci spinge più in là: verso Qualcuno che resti anche quando noi passiamo: ver­so Qualcuno che ci prenda in mano il nostro cuore se il cuore non regge al salire. Seguendolo, non sappiamo di preciso se lo raggiungeremo, né dove lo raggiungeremo: sap­piamo solo di camminare sulle orme di colui che per avere preso impegno con la verità se­gnò di sangue il proprio sentiero. Sappiamo di non essere più soli, qualunque sia la nostra strada.

Il testo si presenta come una riflessione sulla pagina evangelica delle Beatitudini e suggerisce riflessioni e atteggiamenti che siano sempre più in linea con il Vangelo, e soprattutto espressioni “dell’umano” …

Mazzolari intende contrastare il disinteresse di molti verso la figura di Cristo, propone una originale lettura del Vangelo, in particolare delle Beatitudini, e fissa una serie di riflessioni sulla necessità di superare tutte le forme di ingiustizia e di immergersi nella tempesta del momento, visto come un tempo tipico del cristiano. Secondo Mazzolari si deve mostrare anzitutto che il cristianesimo è «vivo nell’ordine dei fatti» e occorre dunque preparare uomini nuovi, dei veri e propri santi, capaci di una santità non eterea ma fondata sulla pienezza della persona umana. Egli contesta il comodo rifugio nel devozionismo, che concilia ogni esigenza del vivere quotidiano; ribadisce che «il muoversi a proprio rischio non è disobbedienza: lo sbagliare non è atto di ribellione»; mette in guardia contro la spinta a caricare di ogni responsabilità la figura del papa; ricorda la grandezza di santi del passato che seppero prendere iniziative personali senza attendere il comando dell’autorità ecclesiastica …

TEMPO DI CREDERE

Vorrei però mettere l’accento su un testo precedente, scritto e pubblicato nel 1940, 80 anni fa, come di questi giorni, e che è indubbiamente più famoso, se non altro perché incappò nelle censure politiche del regime di allora, che nel 1941 ne proibì la pubblicazione. Si tratta di un testo dalla forte connotazione religiosa, perché don Primo voleva commentare un brano evangelico, per iniziare quel cammino di uscita della Chiesa dai propri recinti con una vera spinta missionaria, senza però la connotazione del proselitismo e della propaganda di tipo apologetico.

Don Primo non vuole mettersi in funzione della difesa della Chiesa e della conquista, da parte di essa, di spazi pubblici che sembravano sempre più limitati, non solo dal sistema politico dittatoriale, ma anche da una visione molto corta del senso del vangelo e della fede cristiana.

Lo potremmo considerare un commento evangelico ai singoli versetti del famoso episodio dei “discepoli di Emmaus”. Non è una predica. Non è neppure un commento esegetico, come potrebbe farlo un biblista, e neppure un testo propriamente spirituale come potrebbe uscire dalla bocca e dal cuore di un direttore d’anime. È piuttosto una riflessione ad ampio respiro circa la religiosità nel tempo, che è ormai segnato dalla guerra, e nell’ambito dell’Europa occidentale, ormai destinata ad un cambiamento epocale, di cui non si potevano ancora vedere gli esiti. Ripercorrendo il cammino dei due, a cui si associa il Risorto, il prete cremonese riconosce che è necessario riaccendere la speranza, dentro un mondo che crolla, a partire da una fede più genuina, quella che lui sente di avere nel Cristo, e quella che lui riconosce presente, anche solo come ricerca, nel cuore di tanti, anche quando la fede tradizionale è stata abbandonata, così come risulta abbandonata una Chiesa che smarrisce il senso vero della sua missione.

“Tempo di credere” diventa il titolo del testo, quando ormai esso è in corso d’opera, come se l’autore coltivasse un obiettivo che tuttavia gli si chiarisce “cammin facendo”.

Il nome del libro è nato da questo camminare scoperto, sotto ogni tempo, in cerca di un respiro per non soffocare, di un punto fermo per non lasciarmi portar via, di un porto per rifugiarvi, più che la mia, l’anima di coloro che il Signore mi dà … Sono anch’io un pellegrino dell’assoluto, e senza mettermi contro, cerco più in alto e più oltre gli uomini; più alto e più oltre le cose, senza rinunciare a niente; più in alto e più oltre gli avvenimenti, pur riconoscendoli buoni compagni di viaggio. Sto con tutti e non sono di nessuno. Se mi apparto non sono un cristiano; se non soffro insieme a tutti, non sono un cristiano; se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Chi diserta non si salva: vince solo chi accetta di combattere a qualsiasi condizione. Non può esistere un cristiano neutrale: e volete ch’io lo sia di fronte a questo mondo in agonia, che pur negandone la possibilità, muore per la manifestazione del regno di Dio? Se cerco di giustificarmi, col vangelo, di non amare il mio tempo e di non patire per la sua salvezza, so che bestemmio il vangelo”.

(p. 16-17)

Basterebbero da sole queste poche parole introduttive del suo testo per definire il programma del testo stesso, che è poi il programma di vita di questo prete per il corso della guerra. Letto oggi, esso può diventare programmatico pure per noi in questa opera di immettere lo spirito giusto in presenza di un mondo devastato non solo da un virus, ma soprattutto da quella venefica concezione di vita che rinchiude, che mortifica, che ci fa egoisti e in tal modo ci disumanizza.

Don Prima si prefigge, sì, di rileggere l’esperienza di vita dei due di Emmaus, ma la sua lettura del vangelo non è solo l’analisi di un testo per farne una predica, proprio perché il suo pubblico non è quello di poche persone rinchiuse in una chiesa, e perché il suo dire non si rinchiude nelle poche esortazioni moralistiche di un’omelia domenicale. E si potrebbe anche dire che il pubblico, a cui si rivolge, non è solo quello a cui è abituato dalla sua missione di parroco, quelli che frequentano e che già conoscono il suo dire e già si aspettano nel corso di una cerimonia liturgica certi frasari, a volte un po’ scontati. Lui parla anche ai lontani; anzi, forse di più a loro e proprio per questo ricorre ad un lessico che è ben al di là delle parole familiari in bocca ad un prete, e soprattutto ricorrenti e un po’ scontate nella retorica di una predica. Comunque lui vuole scuotere tutti; e, per quanto ricorra ad un testo evangelico, per quanto parli da credente e da prete, don Primo raggiunge il cuore delle persone che vuol coinvolgere in un’ora, come è l’ora decisiva del Cristo nella sua passione. Ogni ora richiede la passione e, in particolare, la medesima passione del Cristo, di colui che, presentandosi come Figlio dell’uomo proprio in quell’ora, vuol far capire che ogni uomo è chiamato a vivere così, e lo è nella sua ora, quella che ogni generazione ha da vivere affrontando i mali insorgenti, i mali che soprattutto sono dentro il cuore umano.

Nessuno può rimandare a domani quando è l’ora: “e questa è l’ora”. Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle. Nessuno può fare l’uomo saggio, quando tutto è folle, sulle piazze e nei cuori. Ci si deve vergognare di presentarsi in borghese fra tanto grigioverde: di avere una faccia benestante fra tanta fame. Non c’è nulla di più spregevole del profittatore spirituale che, mentre il mondo si frantuma, non sa che ripetergli: “Ve l’avevo detto!”. Non ci vuol molta intelligenza per vedere ove conducono certe strade. Sarebbe stato meglio, se invece del profeta a buon mercato, avessi camminato le strade che suggerivo agli altri. Nessuno le ha viste, perché le strade vere sono gli uomini che camminano, non le frecce che le indicano.

Invece, criticando sottovoce in privato e applaudendo in pubblico senza ritegno, ho seguito chiunque. E avrei dovuto buttarmi a terra per far barricata col mio corpo davanti al precipizio. Mi è mancata perfino la forza di parlare: e tutti sappiamo che povera cosa è la parola! Non mi è rimasto che un po’ di fede, perché questo nostro tempo, dopo la grazia, mi dà mano a mantenerla. Oggi non è più questione di credere o non credere. Siam tutti uomini di fede: non incontro e non sento parlare che uomini di fede … Non c’è mai stata quaggiù tanta fede, pur tra così povere fedi”. E c’era bisogno di questa esperienza perché il cristiano potesse ritrovare anche un po’ di confidenza umana nel suo credo. Per il momento non c’è più conflitto tra uomini di ragione e uomini di fede. Siamo tutti in ginocchio. (p. 17-18)

Questo scampolo di prosa ci dà il fervore di quest’uomo e nello stesso tempo il riconoscimento della sua insufficienza, più che non quella altrui e quella diffusa, per comprendere in quale abisso si sia cascati con la drammatica situazione della guerra in corso, che in quegli stessi giorni e mesi sembrava in realtà una scelta avveduta e destinata ad un futuro glorioso. Ma così non fu – e lo sappiamo bene.

Rileggendo queste stesse parole che hanno sull’orizzonte quel tempo e quella realtà amara, noi non fatichiamo a sentire che il medesimo accorato intervento può servire anche ai nostri giorni, a delinearci il quadro nel quale ci troviamo immersi e che richiede sempre la medesima profezia, cioè la capacità di vedere sempre più in profondità, sempre oltre la superficiale considerazione del contingente. Piuttosto che profeti di sventura, quelli, che mediante quadri definiti impropriamente apocalittici (volendo considerare l’apocalisse una disastrosa rovina e un devastante sovvertimento), vogliono spaventare additando orizzonti foschi e immagini catastrofiche, sembrano godere nell’aver avuto ragione col segnalare in anteprima il male piuttosto che indicare strade diverse. È interessante che il prete cremonese non voglia affatto suggerire con le strade delle indicazioni di carattere morale, come sempre ci si aspetta in presenza di simili discorsi. Per lui la strada non è una retorica moralistica, non è una filosofia di facile presa, non è una predica roboante, in tutto simile, nel tono e fors’anche nei contenuti, a certi discorsi altisonanti da finestre e balconi di palazzi ben noti. La strada è pur sempre la persona, l’individuo che merita rispetto e considerazione: è colui ed è colei da cui possiamo derivare lo spirito umano e da cui far emergere la coscienza umana, affinché quell’umanesimo – e non la facile retorica – ci possa salvare e possa costruire un mondo ben diverso. Anche il suggerimento di non contrapporre uomini di fede (la quale è spesso divenuta forma di fanatismo, religioso e politico, allora come oggi), con gli uomini di ragione, o, come diremmo noi, di scienza, ci porta a dire, come suggerisce don Primo, di sentirci tutti, come “in ginocchio”, un po’ più umili nella nostra visione delle cose, degli eventi, delle persone, senza la pretesa di affermare con tanta sicumera o di negare con tanta improvvida insipienza.

Qui siamo solo nella introduzione al suo libro, una sorta di portale d’ingresso, che comunque, già per questo primo approccio al discorso, invoglia ad andare ben oltre. L’autore analizza il famoso episodio evangelico, che appare qui come il pretesto per offrire una lettura da credente, senza comunque limitarsi ai credenti.

La scelta dei due di Emmaus, così anonimi, nonostante si dica di uno il nome (che ha un forte valore simbolico), vuol farci capire che questa esperienza proposta dal vangelo non riguarda solo coloro che dovremmo considerare come dei privilegiati per essere stati i compagni di cammino del Maestro. Il Signore risorto va indubbiamente a cercare i suoi, quelli che poi dovranno sostenere l’impegno dell’annuncio di un simile evento, perché facciano l’esperienza della sua risurrezione, perché imparino a vedere se vogliono effettivamente far vedere a loro volta. E tuttavia Gesù va a cercare anche altri, anche quelli che non hanno rilievo “gerarchico” e che, dopo questo episodio ricadranno nel loro anonimato, lasciando solo il ricordo del nome di uno, Cleopa, colui, cioè, che non vede, che ha la vista bloccata, e che tuttavia viene ricondotto a vedere meglio, perché poi riesce a vedere oltre, sempre più in là dell’immediato.

Così si potrebbe dire che il Signore va a cercare anche quelli che dicono di non avere la fede in lui, soprattutto se questa fede appare provenire da un sistema, da un’organizzazione, da una gerarchia che ha dogmi e norme da proporre dall’alto della propria autorità. Se per don Primo la fede è indubbiamente quella cristiana, egli però vuol parlare a tutti, liberandosi e liberandoli da un sistema di fede fideistico, che già a quei tempi era pervasivo dentro la Chiesa e dentro la società, soprattutto quando questa era retta da un regime. Egli vuol proporre un altro tipo di fede, che viene a coincidere con la fede cristiana, non costruita solo su dottrine, ma divenuta soprattutto “spirito e vita” e quindi appello alla coscienza.

È tempo di fede: ma di quali strane fedi è pieno il mondo! L’uomo si è dimesso perché molti gli dicono che c’è qualcosa di più grande di lui, di più urgente del suo destino. Io vi dico che non c’è nulla di più urgente del destino di salvezza che investe ogni uomo; che c’è sempre stato qualcuno di più grande dell’uomo, e che tutti i tempi sono tempi straordinari. Non esistono tempi ordinari. Esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora, per il solo motivo che non è solcata da portentosi avvenimenti.

Non ci si deve mettere a ragionare perché c’è bonaccia, ma perché sotto qualunque tempo è doveroso ragionare com’è doveroso arrivare di là della ragione. Son due momenti egualmente necessari della stessa necessità di vivere da uomo, i quali si confondono e marciano insieme anche quando par che si combattano. Il guaio incomincia quando la gente, la quale non riconosce lo straordinario d’ogni epoca, incalzata da avvenimenti subitanei e sproporzionati alla propria fantasia, perde, con la ragione, la stessa dignità, e s’attacca e crede a tutto pur di campare. È proprio dell’uomo il credere: ma vi son fedi così provvisorie e paurose che non vien voglia di discuterle. Solo i credenti nel vangelo e nella chiesa meritano d’essere importunati con richieste di ogni genere, poiché questa fede impegna veramente chi crede e soltanto chi crede, mentre certe fedi temporali impegnano piuttosto chi non crede. E come sto libero di fronte alla mia fede! Se la grazia m’abbandona non ho più vincoli e posso, andandomene, sbatacchiare l’uscio di casa come il prodigo, e dir male di un credo che mi ha riabilitato, di una chiesa che mi ha custodito e fatto capace anche di rivolta. Non così i fedeli delle religioni temporali, che debbono attendere la sostituzione ufficiale degli idoli e disporsi immediatamente a quei nuovi riti, che i più audaci adotteranno, per gli altri più che per sé. Tale è il destino di queste fedi che considerano come fine l’oggetto presente e il minuto presente. Ci vuol del coraggio o della disperazione tanta per ripiegare in posizioni di fedi temporali che non ci permettono neanche d’illuderci! (p. 18-19)

Anche in questo caso dobbiamo riconoscere il valore profetico di un simile testo, non perché indovini problemi che anche noi oggi siamo chiamati ad affrontare, ma perché la lettura che egli fa del proprio tempo non si limita a denunciare manchevolezze contingenti, quanto piuttosto un malessere che dice la scarsa fiducia di chi ha e deve dare credibilità e che dice anche la debolezza raziocinante, che affiora soprattutto quando insorgono problemi che noi definiamo mai prima affrontati, perché mai prima insorti. Quando nel vangelo il Signore Gesù, secondo quanto scrivono gli autori, preannuncia catastrofi, non dice nulla di sostanzialmente profetico, perché non ci vuole molta fantasia per pensare che, come in diverse epoche e zone della terra si registrano questi eventi, ancora se ne dovranno registrare in altre epoche e in altre parti. Ciò che il vangelo suggerisce non è di avere vigilanza e quindi di guardarsi da queste cose, quanto piuttosto di guardare a se stessi, di badare al proprio modo di considerare questi problemi, che noi vorremmo ritenere straordinari e soprattutto imprevisti. Tutto questo, come dice don Primo, fa perdere con la ragione la stessa dignità e si finisce per credere a tutto, con una fede che ha il sapore amaro della creduloneria.

Per lui il fideismo di matrice religiosa può portare al fanatismo e questo – lo sappiamo bene anche dai nostri giorni – conduce ad aberrazioni inqualificabili. Non mi riferisco solo alle forme di terrorismo, ma anche a certe forme di dogmatismo, che comportano solo condanne di eresie, guerre più o meno sante, costruzioni di pensiero solo in contrapposizione, affermazioni di principio che si vorrebbero come tesi dimostrate e che spesso appaiono solo come postulati indimostrabili. Se l’affermazione e la salvaguardia della verità deve comportare l’annientamento dell’eretico, non solo nel suo pensiero, ma anche nella sua dignità  e perfino della sua fisionomia fisica di persona, allora quella verità appare più un idolo che la rivelazione di un Dio. Anche qui è necessario risvegliare l’umano, perché si rischia di conculcare la vera immagini di Dio che è l’uomo vivente, volendo salvare quel simulacro di immagine che noi vogliamo trovare in affermazioni di principio. La dottrina è sempre utile nella ricerca, ma questa ha come obiettivo la persona di Dio e la persona dell’uomo.

Ecco come lo esprime don Primo:

Nel sogno cristiano, poiché vi compiacete di dar questo nome al nostro evangelo, la gioia sovrabbonda, perché vi ha preso stanza l’Amore. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo così, se ognuno non ne avesse l’immagine nel proprio cuore: nessuno  lo accoglierebbe, se non lo sentisse suo, di un possesso che può essere perduto, non rapito: nessuno vi attaccherebbe il cuore s’egli non avesse un volto, una parola, un cuore, il Cuore dei cuori. Il nostro Dio fatto uomo è ben più grande del mio sogno: né il mio sospiro lo raggiunge, né la mia fede, benché la mia fede sia lui; lui, più reale d’ogni nostra piccola realtà, più vivo d’ogni vivente, più parlante d’ogni nostra parola, irraggiungibile, eppur vicino, di tutti e pur mio; lui, presente su ogni strada, in ogni uomo, in ogni creatura, in ogni cosa, perché io non sia più solo. Nella sua vita come nella sua morte, nulla mi lascia indifferente: nulla mi diminuisce: nessuna gioia viene offuscata, nessuna pena perduta. Coi suoi occhi posso fissare perfino il mio passato, voler bene anche al dolore, capire anche la morte. Senza di lui non capisco niente; senza il suo perdono, l’indulgenza mi fiacca; senza la sua casa l’esilio non ha fine … non so dirvi di preciso ov’egli abita e com’è la sua casa. So che ogni strada vi può condurre; che c’è posto per tutti; ch’essa è fatta dalle mie umiliazioni più che dai miei successi, dai miei patimenti più che dai miei piaceri. Non merito d’esservi ospitato e vi vengo accolto con festa; sono un diseredato dal peccato e vengo adottato dalla grazia. (p. 20-21)

Questa è solo la prefazione al libro, e quindi è l’avvio di quel lavoro di riflessione che vede al centro i due di Emmaus, immagini, costoro, di tanti anonimi pellegrini nel mondo alla ricerca di un senso al vivere. Noi spesso immaginiamo di perderlo in presenza di particolari amarezze, quando certi sogni appaiono infranti e sono solo rimandati ad un esito che sta sempre più in là, sovente ben oltre il tempo e lo spazio di una breve vita, anche quando questa potrebbe prolungarsi, secondo certi schemi nostri, un po’ riduttivi.

Che cosa ha detto questo prete di così problematico da far intervenire la censura politica e da far mettere in apprensione la censura ecclesiastica? Evidentemente qualcosa che disturba le certezze inconsistenti di un certo potere, che appare quanto mai debole nella sua ostentata severità di giudizio.

Andrebbe letto il testo nella sua integralità. Andrebbe soprattutto riletto alla luce dei problemi successivi e dei nostri tempi, dove esistono altre forme di censura più sofisticate e dove è più che mai necessario “risvegliare l’umano”, che qui si trova e che in certe strutture risulta tradito o conculcato.

Certo, la mente fervida e la penna sapientemente usata dello scrittore, che di getto pone nero su bianco, non si lasciano affatto frenare o limitare dalle inevitabili censure, dalle calunnie e dalle condanne. Più che parole di un fuoco distruttore e parole incendiarie di contrapposizione polemica che inducono alla rivoluzione, don Mazzolari denuncia, sì, il male e le insufficienze, ma sempre nell’intento di suscitare  una coscienza più viva e più accalorata, che spinga a rendere il vivere umano e cristiano molto più significativo di tanta retorica predominante o di tanta dottrina poco convinta e soprattutto poco convincente.

Queste sue parole, anche quando denunciano, riaccendono il fuoco dell’impegno, e sono quindi il vero risveglio di cui abbiamo bisogno, quel risveglio che non è solo di una parte contro altre, ma diventa coinvolgente con tutti, proprio perché questa sua azione va a toccare l’umano, lo spirito umano a partire da colui che si è sempre presentato come Figlio dell’uomo e come tale poi si è scoperto essere Figlio di Dio nella sua morte e risurrezione.

La vita non è facile per nessuno, neanche per chi s’è procacciato o è riuscito a difendere largamente il proprio benessere. Nonostante l’ostentata sicurezza di alcuni nuovi sistemi spirituali e di alcuni nuovi civili ordinamenti; nonostante il proclamato procedere verso ore di grandezza – il riferimento è al fascismo nell’ora della chiamata alle armi per la guerra (N.d.R.) – la povertà e la brevità delle nostre giornate umane è da tutti avvertita, com’è avvertita la precaria e pericolosa consistenza di tante affrettate e troppo magnificate conquiste del mondo moderno. Siamo gente in affanno più che in vero e proprio travaglio. Abbiamo fretta di cose nuove, e non sappiamo smobilitarci interamente del vecchio, che, pur parendoci superato, finisce per non essere trascurabile del tutto, dato l’estremo bisogno di appoggi. In tale non voluta ma imposta provvisorietà che si riaffaccia con insistenza contagiosa dopo ogni nuova esperienza e dopo i più clamorosi successi, trova sufficiente spiegazione il nostro poco logico, ma reale comportamento verso la religione, che se per qualcuno, più scaltro che intelligente, è una comoda opportunità, per chi ha cuore, è il documento della nostra inguaribile povertà. Infatti, fra tanto parlare di religione, il nostro vero essere religioso non è mai stato così trascurato e così poco capito. (p. 27)

Anche adesso abbiamo fretta di goderci cose nuove, di lasciarci incantare e sedurre dai ritrovati della tecnica, che indubbiamente facilitano il vivere. E nello stesso tempo troviamo molti ancora intestarditi a conservare, in nome di una tradizione male intesa, ciò che invece può essere caduco nella forma, seppur valido nella sostanza. Evidentemente – come dice don Primo – noi ci sentiamo più sicuri a conservare, soprattutto se abbiamo un’età nella quale abbiamo costruito i nostri “punti fermi”. In genere è proprio il mondo religioso con i suoi schemi “tradizionali”, che spesso diventano “tradizionalisti” che si vorrebbe conservare. Eppure anch’esso partecipa del vivere e perciò richiede una modalità espressiva che appartiene alla vitalità dello Spirito, più che non alla fissità di una legge eterna. Quando questo “nostro vero essere religioso” non è capito nella sua essenza e viene letto nelle sue apparenze ed esteriorità, si fatica a comprenderne il valore, soprattutto la sua capacità di “risvegliare l’umano”!

Qualcuno, pur non osando dichiararsi anticristiano, esagera l’apparenza depressiva di quei gruppi devozionali, i quali, benché meno numerosi d’una volta, e con assai dubbia autorità, presentano un tipo di cristianesimo, che, nella sua evidente e intollerabile deformazione, allontana e disgusta gli spiriti generosi. Si tratta di quell’errore di calcolo, assai frequente e grave, che consiste nel confondere il segno del più col segno del meno: l’errore, che crede di elevare la grazia abbassando la natura. Invece di tendere, con ogni sforzo, all’imitazione dell’inarrivabile splendore dell’Uomo-Cristo, leggiamo la sua vita e la sua parola con spirito rinunciatario; mentre, quasi a scusa, ci si chiude nel mondo interiore, giustamente preoccupati della nostra perfezione, ma dimentichi, al tempo stesso, che ogni interna elevazione, ogni conquista segnata nell’intimo, ogni profondità di grazia richiede una corrispondente affermazione di dignità e di grandezza umana.

Altrimenti verrebbe da pensare che codesto ritirarsi, invece di una difesa che prepara la conquista, documenti un animo debole e pauroso. Troppi cenacoli chiusi in queste ore che portano sul vento di tante tragedie i fermenti della vita e della morte! …

Un giovane che vive con passione l’ora meravigliosa di questo mondo traboccante d’energia, d’ardimento e d’immaginazione, non può sentirsi invogliato ad occuparsi di chiesa che non si presenta con richiami di alta tensione spirituale. Davanti alle chiese che si fanno deserte e fredde, non c’è che una risposta: una nuova fiamma nella chiesa. (p. 32-33)

“Come volete che si convertano e tornino a credere, quando vedono cos’è la nostra fedeltà? Come hanno ragione di spregiarci, quando ci vedono così deboli e tremanti! Di noi essi non conoscono che facce rivolte a terra, e ginocchia prone e schiene ricurve e tremanti” (Péguy). La cristianità dev’essere in piedi, a fronte alta e scoperta, e la luce del Risorto sarà nel suo volto e nei suoi propositi. (p. 35)

Proprio per il carattere “religioso” del testo, tutto dedicato a rileggere e ad attualizzare il brano evangelico, dovremmo dire che don Primo è più preoccupato di segnalare una debolezza del mondo cristiano e della sua espressione nella Chiesa davanti all’ora buia in cui è immersa l’umanità con il disastro delle guerra.

Le noie gli vengono dal potere politico, mentre per lui è più forte il richiamo ai cristiani e alla Chiesa nel suo insieme a risvegliare la fede, che per lui è soprattutto risvegliare – diremmo oggi – l’umano. Per lui è essenziale che si torni a vedere il Cristo come Figlio dell’uomo, che proprio per questo è il Figlio di Dio. e don Primo lamenta il fatto che non ci sia una visuale davvero più ampia e più profonda.

Non “vediamo”, perché siamo meno uomini o sotto-uomini.

A noi importa sapere il male che ci impedisce di essere uomini e di vivere il Cristo. (p. 69)

Quando ci si aprirono gli occhi, il nuovo ordine era già un fatto, e la chiesa vi aveva dato mano senza avvertirne le conseguenze negative nel campo morale e spirituale. L’individualismo era il frutto amaro di un uso sbagliato della ragione, che, distaccata da ogni altra facoltà, aveva disseccato le forze più istintive dell’uomo, minacciandone l’integrità interiore e la capacità di accordarsi con gli altri in un lavoro comune, per il bene comune. (p. 70)

Se la Chiesa, nel suo richiamare l’Uomo-Dio, e quindi la centralità del Cristo per divenire più uomini, non svolge la sua missione di “umanizzare” questo mondo in cui è immersa, viene meno al suo compito. Essa è chiamata a divenire strumento per la venuta del Regno di Dio, che è l’umanità costruita secondo lo Spirito di Dio. E per don Primo la Chiesa non è solo la gerarchia, ma è prima di tutto il laicato, che poi avrà nel Concilio la sua centralità come “Popolo di Dio”, dentro il quale – e non al di sopra di esso – ha senso la presenza della gerarchia. Ma il laicato deve “destarsi” e assumere le proprie responsabilità. L’assunzione di compiti deriva da una particolare vocazione e nel contempo da un riconoscimento di chi ha il compito nella Chiesa di coordinare, non di suscitare, i diversi carismi. Occorre però andare oltre, senza per questo andare contro le forme giuridiche e lasciarsi guidare dallo Spirito che irrompe sempre come a Pentecoste.

Così don Primo chiude la sua opera: ci dà l’immagine di un cenacolo, da cui, aprendosi le porte, chi è dentro non sta più dentro, ma esce …

Qualcuno di quei di dentro deve uscire.

Il mondo attende la nuova pentecoste, il vento impetuoso che spalanchi tutte le porte delle nostre chiese: il fuoco che consumi tutte le paure: lo Spirito che faccia ripetere sui tetti e nelle lingue d’ognuno le grandi cose di Dio.

Quel giorno avremo di nuovo una cristianità in piedi di fronte a una civiltà prona davanti a tutti gli idoli: una fede che costruirà audacemente sovra le folli distruzioni delle piccole fedi: il nostro Credo cantato su tutte le strade per confondere il canto dell’odio e segnare, per sempre, contro le stolte pretese dei figli degli uomini, il libero respiro dei figli di Dio. (p. 189-190)

Ne deriva un impegno che coinvolge tutti, perché c’è in gioco il vivere e soprattutto il senso del vivere dell’uomo, non solo una mera sopravvivenza, non tanto una conduzione stanca e stancante del tempo, che in tal modo scorre consumandosi e usurandoci. L’impegno è di fatto una passione, quella di Cristo, che ha il duplice risvolto dell’entusiasmo, mai comunque del tutto dissociato dalla fatica del procedere, e della sofferenza, che non mortifica mai la serenità interiore, con cui si potrà pur sempre dire che … la vita è davvero meravigliosa, nella misura in cui è … veramente umana.

IL NOSTRO IMPEGNO

L’impegno, che don Primo vive e lascia come testimonianza ed eredità, è poi così delineato.

Ci impegnamo noi e non gli altri, unicamen­te noi e non gli altri,

né chi sta in alto né chi sta in basso, né chi crede né chi non crede.

Ci impegnamo senza pretendere che altri s‘impegni con noi o per suo conto,

come noi o in altro modo.

Ci impegnamo senza giudicare chi non s’im­pegna, senza accusare chi non s’impegna,

senza condannare chi non s’impegna, senza cercare perché non s’impegna,

senza disimpegnarci per­ché altri non s‘impegna.

Sappiamo di non poter nulla su alcuno né vogliamo forzar la mano ad alcuno,

devoti come siamo e come intendiamo rimanere al libero movimento di ogni spirito.

Noi non possiamo nulla su questa realtà che è il nostro mondo di fuori,

poveri come siamo e come intendiamo rimanere.

Se qualche cosa sentiamo di potere — e lo vogliamo fermamente — è su di noi, soltanto su di noi.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo,

si fa nuovo se qual­cuno si fa nuova creatura,

imbarbarisce se sca­teniamo la belva che è in ognuno di noi.

L‘«ordine nuovo» incomincia se qualcuno si sforza di divenire un «uomo nuovo».

La primavera incomincia con il primo fiore,

il giorno con il primo barlume, la notte con la prima stella,

il torrente con la prima goccia, il fuoco con la prima scintilla,

l‘amore con il pri­mo sogno.

Ci impegnamo perché non potremmo non impegnarci.

C’è qualcuno o qualche cosa in noi

— un istinto, una ragione, una vocazione, una gra­zia — più forte di noi stessi.

Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che non si sa di preciso donde ven­gano,

ma che costituiscono la più sicura certez­za, l‘unica certezza nel disorientamento gene­rale.

Lo spirito può aprirsi un varco,

attraverso le resistenze del nostro egoismo, anche in que­sta maniera,

disponendoci a quelle nuove continuate obbedienze

che possono venire coman­date in ognuno dalla coscienza, dalla ragione, dalla fede.

Ci impegnamo per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita,

una ragione che non sia una delle tante che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore,

un utile che non sia una delle solite trappole generosamente of­ferte ai giovani dalla gente pratica.

Si vive una sola volta e non vogliamo essere giocati in nome di nessun piccolo interesse.

Non c‘importa della carriera, né del denaro, né delle donne, specie se soltanto femmine;

non c‘importa la nostra fortuna né quella delle no­stre idee;

non c‘interessa di passare alla storia

(abbiamo il cuore giovane e ci fa paura il fred­do della carta e dei marmi);

non c’interessa di apparire eroi o traditori davanti agli uomini, ma solo la fedeltà a noi stessi.

C’interessa di perderci per Qualcuno

che ri­mane anche dopo che noi siamo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci.

C’interessa di portare un destino eterno nel tempo,

di sentirci responsabili di tutto e di tutti,

di avviarci, sia pure attraverso lunghi er­ramenti, verso l’Amore,

che diffonde un sorri­so di poesia su ogni creatura

e che ci fa pensosi davanti a una culla e in attesa davanti a una bara.

Ci impegnamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo.

Per amare anche quello che non possiamo accettare,

anche quello che non è amabile,

an­che quello che pare rifiutarsi all‘amore

perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore

c’è, insieme a una grande sete d‘amore, il volto e il cuore dell’Amore.

Ci impegnamo perché noi crediamo nell’Amore,

la sola certezza che non teme confron­ti,

la sola che basta per impegnarci perduta­mente.

Colombo don Ivano – Erba – 25 novembre 2020

Leggi tutto “CI IMPEGNIAMO NOI …”

Ci impegniamo …. insieme.

Raccogliendo l’invito dell’ Arcivescovo, rivolto a tutta la  Diocesi, per la realizzazione di una “Settimana dei Centri Culturali Cattolici”,  Don Ivano si è reso disponibile a tenere nel giorno di mercoledì 25 novembre, alle ore 15 e poi alle 21, un webinar (videoconferenza), che si inserisce nel tema proposto dai promotori dell’iniziativa :”INSIEME PER RISVEGLIARE L’UMANO”. L’argomento di cui parlerà Don Ivano è il seguente: CI IMPEGNIAMO : conversazione intorno a don Primo Mazzolari”.

L’evento è stato organizzato insieme dall’UTE di Erba A.P.S. e dal gruppo culturale  “G. Lazzati” della parrocchia di Arcellasco.

Qual è il fine di questa manifestazione  corale , in piena pandemia?  La spiegazione è in questo video:

 

LA DOLCE MAMMA CON IL SUO TENERO BIMBO: LE MADONNE DI RAFFAELLO

La nostra immagine di Maria, quella che abbiamo cara perché ci è stata lasciata in consegna da chi ci ha preceduto qui, ci rivela una bella fisionomia di donna, che vuol mostrare e mettere in mano a noi il suo capolavoro. È una giovane mamma che non tiene per sé il suo bimbo, ma lo vuol proporre all’abbraccio nostro, cosicché, prendendolo nella sua tenerezza, abbiamo in mano anche noi colui che il Padre ha mandato come immagine del suo amore e che la Madre ci affida come frutto del suo grembo. Spesso Maria è ritratta nella sua fisionomia femminile piena di grazia, e quindi di una affascinante bellezza, ma anche di quella riservatezza che la fa essere tutta rivolta a Dio: noi abbiamo così l’Immacolata, quando dobbiamo considerare che, ricolma della grazia divina, in lei non appare ombra di peccato; ma abbiamo anche la Donna gloriosa, che salendo a Dio e lasciandosi assorbire dal mondo celeste, risulta sempre più nella luce dell’empireo. Poi si aggiungono altre immagini che colgono un aspetto della sua presenza e della sua azione in favore del popolo cristiano. Fra tutte sono più frequenti le immagini che la mostrano con Gesù an-cora Bambino, fornendo così ciò che maggiormente la qualifica e cioè la sua maternità, quella che noi riconosciamo in modo particolare quando il bambino ha bisogno dell’assistenza della mamma; essa, in genere, tiene in braccio o tiene per mano il suo piccolo, o lo sorveglia con lo sguardo attento e premuroso. Come ogni donna che vive la maternità, anche lei rimane per sempre la madre di Cristo e, per la nostra conformazione a Lui, è pure madre nostra. E così la si può vedere anche in altri momenti della vita di Gesù, come la vediamo spesso affacciarsi a questo mondo, che ella visita spesso con le sue apparizioni. Ma come in queste noi possiamo riconoscerla nel suo privilegiare i piccoli, che sceglie come i suoi interlocutori, non unici, ma certamente più frequenti, così noi la immaginiamo “mamma di Gesù”, soprattutto quando ce l’ha vicino a sé nei momenti della sua infanzia, anche senza pensarla nei giorni iniziali della sua esistenza terrena dentro il rifugio di fortuna trovato a Betlemme. (Per continuare a leggere cliccare QUIMADONNA DEL PARCO 2020 (versione verticale)

RIFLESSIONE A PARTIRE DA UN ARTICOLO DE “LA CIVILTA’ CATTOLICA” (n. 4075)

RIFLESSIONE

A PARTIRE DA UN ARTICOLO DE “LA CIVILTA’ CATTOLICA” (n. 4075)

PER RIPARTIRE DOPO L’EMERGENZA COVID-19

di GAEL GIRAUD S.J.

Ho letto un articolo, per tanti versi sconcertante con le sue valutazioni molto nette, ma comunque utile a farci riflettere ben oltre i dati, gli aggiornamenti, le tante curiosità, come pure le tante distorsioni a proposito di questa pandemia che ci disorienta.  Questo articolo, pubblicato su “La Civiltà Cattolica” nel numero 4075 del 4/18 aprile 2020 (p. 7-19), può sembrare alla prima lettura molto negativo e in alcuni tratti disfattista.

Chi scrive sostiene che, per far fronte al quadro drammatico mai sperimentato finora, è necessario adottare misure mai assunte e mai gestite prima d’ora, e il mondo non è più e non sarà più come prima, come se noi dovessimo andare incontro ad una specie di palingenesi, parola con la quale si intende dire che è necessario rigenerarci da capo, rinascere un’altra volta.

Del resto dice pure così il messaggio evangelico del discorso sostenuto da Gesù con Nicodemo, con cui l’evangelista vuol far intendere che, mediante il battesimo, il vivere deve cambiare, e quindi deve diventare più umano, un vivere da Figlio dell’Uomo, che è poi la stessa cosa del vivere da Figlio di Dio. Ovviamente la rinascita di cui si parla nel vangelo è quella dello Spirito, che non è affatto una questione religiosa, come spesso si tende a dire, perché lo Spirito è necessario proprio in momenti come questi nei quali è necessaria una scelta decisiva, una scelta di autentica rinascita e non semplicemente di recupero di quanto ci siamo lasciati alle spalle. Leggi tutto “RIFLESSIONE A PARTIRE DA UN ARTICOLO DE “LA CIVILTA’ CATTOLICA” (n. 4075)”