DANTE-DÌ 2021

25 MARZO 2021

Il 25 marzo, festa dell’Incarnazione, perché siamo esattamente a 9 mesi di distanza dal Natale, è sempre stato nel calendario cristiano un giorno molto significativo, assommando in sé i grandi misteri della fede cristiana: soprattutto nel Medioevo qui si collocava la data dell’inizio del mondo, della Creazione, in quanto il rinnova-mento primaverile, legato all’equinozio e nello stesso tempo al plenilunio in corso, fa pensare che qui sia iniziato il ciclo naturale e qui venga continuamente ripreso ogni anno. Proprio nella medesima circostanza viene collocato l’inizio della vita umana del Redentore, che viene concepito all’annuncio dell’angelo nell’utero di Maria. Lo stesso ciclo vitale viene ripreso con la Redenzione, collocata nella medesima data, perché la Pasqua ebraica, che ricorda l’uscita dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso viene collocata in occasione del plenilunio di primavera, così come è rimasta legata ad esso anche nell’ambito cristiano.

Eppure sui calendari liturgici medievali, ancora presenti nei messali manoscritti dell’epoca, indipendentemente dal fatto che la Pasqua cristiana debba essere celebrata di domenica, si indicava il 25 marzo come il giorno delle Redenzione con la morte del Signore.

Proprio per la concomitanza nello stesso giorno dei misteri principali della fede cristiana, Dante aveva collocato idealmente il suo “fantastico” viaggio nell’oltretomba nel Triduo pasquale dell’anno 1300, tra il 25 e il 27 marzo. Ritrovatosi “nella selva oscura, ché la diritta via era smarrita”, deve scendere nell’Inferno nel giorno della morte del Salvatore; deve passare nel Purgatorio il giorno della presenza di Cristo agli Inferi con la sepoltura, e ne esce illuminato dalla luce celestiale del Paradiso il giorno della Risurrezione. Il 1300 è l’anno del Giubileo della “gran perdonanza”, presentandosi esso con i numeri simbolici che richiamano l’Unità e la Trinità di Dio, perché dentro questo mistero l’uomo viva il suo passaggio redentivo. Ciò che succede per Dante, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, succede pure per ogni uomo, che è condotto dalla ragione, rappresentata da Virgilio, e dalla fede, rappresentata da Beatrice, a “riveder le stelle”, (Inferno, XXXIV, 139) uscendo dall’Inferno, “puro e disposto a salire a le stelle” (Purgatorio, XXXIII, 145), salito sulla montagna del Purgatorio, così da contemplare e godere “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, 145), quando arriva alla sommità del cielo a godere per sempre Dio. Qui dunque si compie il mistero di Dio e nel contempo il vivere dell’uomo …

LA SUPPLICA ALLA VERGINE

All’apertura dell’ultimo canto del Paradiso si eleva una magnifica preghiera alla Vergine, messa in bocca a S. Bernardo da Dante. Il santo è conosciuto come il cantore di Maria per le stupende omelie e preghiere che ha disseminato nelle sue opere. È una preghiera che il mistico abate medievale innalza a Maria perché Dante, rappresentante di ogni uomo, possa elevarsi a Dio, non senza la grazia che giunge all’uomo per l’intercessione di Maria. C’è tutta l’ammirazione e, insieme, si esprime la devozione con la quale l’animo si eleva a colei che è qui descritta nelle diverse “antinomie” come una creatura impareggiabile, come il prodigio scaturito dalla mente e dal cuore di Dio, vertice vertiginoso di ciò che il Creatore ha fatto, compia-cendosi poi di essere “fatto” lui stesso in lei. La preghiera si snoda in sette terzine (anche se poi continua con la parte dedicata alla supplica particolare per Dante che deve entrare al sommo del Paradiso). Queste distribuiscono l’orazione in tre momenti: le prime tre terzine sono una esaltazione di Maria, la più bella fra le creature di Dio e nel contempo la creatura umana che diventa la terra accogliente perché possa spuntare il fiore di Dio nella valle desolata. La terzina successiva, il cuore della preghiera, dice che lei è pure il punto di incontro fra i beati e quanti sono ancora nell’esilio terreno, come fiaccola di carità per i primi e fontana di speranza per i secondi. La supplica si esprime poi nelle ultime terzine con il riconoscimento che solo da lei ci può essere la garanzia perché la preghiera arrivi a Dio e la grazia di Dio raggiunga la debolezza umana. E così la preghiera con lei può avere le ali per raggiungere Dio, come da lei possono passare all’uomo la misericordia, la pietà e la bontà stessa di Dio, di cui lei è ricolma e che da lei si riversa pienamente in ogni creatura. Questa “è la preghiera di tutti, perenne, rivolta a colei che l’etterno consiglio aveva destinato appunto, con la sua divina maternità, a essere il tramite attraverso cui il divino si umanizza e l’umano, salvandosi, sale al divino. Rivolgendosi a tale Donna, il linguaggio non poteva non essere alto … Maria è colei a cui “ogni loquela serba i più bei nomi” come dirà un altro poeta, il Manzoni …”. E qui, se è grande colei che viene celebrata, pur nella sua umiltà di creatura, è pure grande, nella sua devota ammirazione, Dante che si fa interprete di tutti, mentre lo interpreta S. Bernardo elevando queste sublimi espressioni di filiale e commossa supplica, che viene dal cuore e che tocca profondamente il cuore. Ci sentiamo tutti toccati e coinvolti in una preghiera nient’affatto retorica e davvero molto cristiana e molto umana … Leggi tutto “DANTE-DÌ 2021”

DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO

DANTE E LA POLITICA

Il canto VI di ogni cantica del suo poema ha un contenuto politico. Questo rivela, se già non si aveva a sufficienza da quanto Dante ha coltivato e ha fatto nella sua giovinezza, che l’argomento sta particolarmente a cuore al poeta. Del resto egli fu parte in causa nei giochi politici che poi lo travolsero, e dedicò alla politica molte delle sue energie, sia quando era nell’agone, sia quando ne fu estromesso.

Per Dante la politica è partecipazione diretta alla società, in quella forma di governo che non è solo direzione degli affari, ma è soprattutto corresponsabilità, in qualunque posizione sociale uno si trovi e qualunque sia il lavoro che uno svolga. Dante ha pure esercitato funzioni direttive, essendo stato priore a Firenze; ma la sua politica non è vissuta solo in quelle che noi chiameremmo oggi “le stanze dei bottoni”, dove si prendono decisioni; è vissuta sul campo e nelle discussioni anche animate. Anche quando ne risulterà estromesso – e lo sarà in modo drammatico e infamante – egli avverte sempre la sua responsabilità nel contribuire alla “cosa pubblica”. E ci sarà sempre, anche se poi i giochi si fanno duri ed egli sarà costretto, un po’ sdegnosamente, a “far parte per se stesso”, fuori dagli schemi di partito, fuori dalle leve di comando, mai del tutto fuori da quell’amor di patria, che lo farà sentire sempre fiorentino, pur a darne giudizi feroci, sempre italiano, pur a provare amarezza e sdegno per le condizioni in cui si trova la “serva Italia”.

FLORENTINUS O YTALUS

Se Firenze lo mette al bando e lui rimarrà “bandito”, Dante amerà sempre la sua “Fiorenza”, anche da esule ferito nel suo onore, sempre firmandosi come exul inmeritus perché egli ritiene di non aver mai “meritato” quel genere di condanna. Per lui essere fiorentino è invece un titolo di merito e come tale e gli si ritiene sempre, dovunque si troverà a vivere. Solo quando deve richiamare l’attenzione nei confronti dell’Italia, si firmerà con il titolo di “ytalus”. E tale Dante è non perché abbia a cuore un’Italia unita, come noi oggi la intendiamo, ma perché in essa riconoscerà la presenza più unificante possibile dalla lingua volgare, che naturalmente è tutta da costruire e che indubbiamente gli contribuisce a creare

Andando ramingo per tante città italiane, senza mai trovare un’ospitalità sicura, se non in modo temporaneo, egli più che mai avvertirà lo stato miserevole di queste città, divise al loro interno: ciò sarà motivo di tanta miseria, anche in presenza di cospicui guadagni negli affari. E perciò il suo disegno politico si amplierà anche oltre le mura cittadine per cercare di costruire con una doverosa purificazione un mondo diverso da quello in cui c’è solo da perdersi, come si è perso lui, come è smarrito ogni uomo, incapace di risorgere in presenza delle belve affamate che impediscono la salvezza. Solo la guida della ragione, rappresentata da Virgilio; solo la guida della grazia, rappresentata da Beatrice, può condurre alla purificazione e alla beatitudine. È questo il percorso che ritiene di dover fare lui, come rappresentante dell’umanità smarrita, perché tutti possano ricostruirsi in un mondo davvero quanto mai desolato. Leggi tutto “DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO”

La Pasqua di Giuseppe.

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PER FEDE FU PORTATO VIA,

IN MODO TALE DA NON VEDERE LA MORTE

E NON LO SI TROVO’ PIU’,

PERCHE’ DIO LO AVEVA PORTATO VIA …

EGLI FU DICHIARATO PERSONA GRADITA A DIO.

SENZA LA FEDE E’ IMPOSSIBILE ESSERE GRADITI A DIO.

CHI SI AVVICINA A DIO DEVE CREDERE CHE EGLI ESISTE

E CHE RICOMPENSA COLORO CHE LO CERCANO.

(Ebrei 11,4-5)

1 – COME GIUSEPPE VIVE LA PASQUA

Parlare della Pasqua di Giuseppe sembra impossibile.

In occasione della Pasqua di Gesù, quando egli muore sulla croce, Giuseppe in questo mondo, a quanto pare, non c’è più. Lo dovremmo pensare in quel Limbo sotterraneo, gli Inferi, dentro il quale Gesù “discese”, come diciamo nel Simbolo apostolico, proprio per abbattere quelle porte, e per far uscire quanti aspettavano la redenzione. Dobbiamo immaginare che dietro i progenitori, Adamo ed Eva, e tutti i giusti del mondo antico, spesso rappresentati nella scena, immaginata per descrivere questo momento, pronti ad uscire con Gesù a nuova vita, ci possa essere anche lui, il padre “putativo”. Non c’è mai stato alcun dubbio nella Chiesa, sia con il suo Magistero, sia con la pietà dei fedeli, circa il riconoscimento della santità di Giuseppe, che noi avvertiamo tale per ogni uomo o donna, non solo in base alla cosiddetta eroicità delle virtù, ma anche e soprattutto per un’esistenza vissuta in conformità al Figlio di Dio e al suo Vangelo. E questo lo possiamo dire a proposito di Giuseppe vissuto accanto al Figlio, a servizio del Figlio, assumendone lo Spirito: già per questo motivo lo dobbiamo riconoscere come santo. È a partire da una esistenza terrena vissuta in unione con Gesù che si può riconoscere la santità, quella che viene poi definita “post mortem”. Se la santità viene vissuta nel cammino terreno, essa è data nel passaggio al mondo definitivo di Dio, con la morte, in unione con la Pasqua di Cristo.

Anche per Giuseppe dobbiamo parlare di una Pasqua, quella vissuta al momento in cui Cristo fa il suo passaggio nel mondo ultraterreno. Ma non è neppure da trascurare quella che lui vive nel momento della sua morte, per la quale non abbiamo alcun documento.

E poi nel vangelo ci sono per quest’uomo altre esperienze di Pasqua, che, anche nella ristrettezza delle informazioni, non possiamo e non dobbiamo trascurare. C’è per Giuseppe la Pasqua come data celebrativa, come festività ebraica, a cui egli partecipava da buon ebreo, ma anche da “uomo giusto”, come viene qualificato nel Vangelo. Ed era giusto, non solo per la sua obbedienza alla legge, quanto piuttosto per la sua fedeltà a Dio. Per l’episodio di Gesù dodicenne, si dice che, come ogni anno, in occasione della Pasqua, i suoi genitori salivano a Gerusalemme, portando con sé il bambino, in quell’occasione già divenuto un fanciullo. Andare al tempio ogni festa di Pasqua è il segno della religiosità propria di quella famiglia, che non solo si adattava alle pratiche, ma, vivendole, si trovava essa stessa coinvolta, come capita lì, con la scomparsa di Gesù, proprio nel tempio. È evidente che l’evangelista Luca carica di un particolare valore simbolico questo episodio, presentando Gesù che scompare per tre giorni, come sarà in occasione della sua ultima Pasqua, e che poi riemerge, quasi presagio della futura risurrezione, mentre lo si scopre a insegnare nel tempio. Anche questo dettaglio – quello di riapparire mentre insegna – ha il suo forte valore, perché il nucleo fondamentale del suo insegnamento non è dato dai sermoni, dalla parabole, dai richiami alle leggi, ma da ciò che più gli preme, e cioè la sua passione e la sua croce. In effetti nel Vangelo momento della passione, sempre richiamato, come se fosse un preavviso o una predizione, è in realtà un insegnamento, a cui Gesù tiene, volendo lasciare ai suoi discepoli proprio questa lezione di vita. E anche in questa occasione, rivelandosi orientato alla sua missione, presente alla sua coscienza, anche grazie alla formazione dei suoi genitori, Gesù li coinvolge, perché essi stessi vivono quei tre giorni di scomparsa, immersi nell’angoscia. La parola usata e messa in bocca a Maria, la quale parla a nome di Giuseppe, anzi mettendolo prima di sé nel richiamo fatto a Gesù, dice proprio il tormento dell’animo, come una sofferenza che consuma interiormente. Così anche Giuseppe, insieme con la moglie, vive quei giorni oscuri con un dolore che opprime e che corrode l’animo, avvertendo in questo suo distacco l’inizio di quel successivo distanziamento, che porterà lui fuori della scena di questo mondo e il Figlio avviato alla sua “ora”, quella di passare da questo mondo al Padre. Sulla base di questo unico episodio della fanciullezza di Gesù, proprio perché vissuto in occasione della Pasqua, dobbiamo riconoscere che qui, nel suo nascondimento, il massaggio proprio del vangelo, la bella notizia da cogliere, è proprio nel segnalare che Gesù vive orientato ad essere lui stesso la Pasqua, in un sacrificio che non è più solo il culto nel tempio, ma diventa la sua stessa esistenza messa a disposizione, come è nella natura del vivere di Dio, come è nell’educazione avuta dai genitori e, in particolare, da colui che a buon motivo può essere considerato l’ombra sulla terra del Padre celeste.

Non c’è nessun elemento che ci possa aiutare in questa direzione: riconoscere nell’educazione di Gesù da parte di Giuseppe l’indicazione precisa di una impostazione della vita segnata dalla Passione. C’è solo da supporre che, sulla base di questo episodio, Gesù stesso ammette di essere tutto immerso nelle “cose” di suo Padre, a partire dai suoi genitori, che potevano dunque ben capire il senso di questo suo modo di fare in occasione di quella Pasqua. Se poi consideriamo il fatto che Giuseppe nella versione di Matteo appare sempre occupato dal sonno, il suo modo di penetrare nel mistero di Dio e dei suoi disegni, e il suo modo di impegnare la propria vita nel mettersi a disposizione con tutti i rischi che ne derivano, dobbiamo in effetti riconoscere che quest’uomo è tutto impostato sulla Pasqua, cioè sul sacrificio di sé, quasi uno sparire perché altri abbiano la vita … Leggi tutto “La Pasqua di Giuseppe.”

MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI

NEL GETSEMANI: Padre, se possibile, passi da me                       questo calice! La tua volontà sia sempre fatta!

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INTRODUZIONE1

Il percorso tradizionale della “Via Crucis” teneva presente la strada percorsa da Gesù per arrivare al Calvario e dunque solo il momento finale della sua Passione. Ma la Passione per Gesù ha richiesto anche altri momenti non meno dolorosi. E comunque essa non si riduce alle sole ultime ore di vita, come se il Signore avesse sofferto solo in quei momenti. Certamente quelle ore di violenza, che si potrebbero definire senza senso, come lo sono le tante ancora presenti nelle vicende di molte persone, hanno rivelato un uomo che, a fronte di tanto accanimento ingiusto, risponde sempre con dignità e soprattutto con l’amore di chi si dona, manifestando così l’amore di Dio che è possibile all’uomo. E noi dobbiamo considerare la sua passione soprattutto a partire dall’amore, che in una cornice di violenza brutale, Gesù continua ad esprimere: questo suo insegnamento deve essere raccolto come vita secondo lo Spirito, quanto mai necessaria alla nostra esistenza perché sia davvero più umana. Più che piangere o disperare per queste violenze che lo travolgono, noi dobbiamo cogliere come “vangelo”, e quindi come bella ed edificante notizia, la sua volontà di andare fino in fondo nel disegno del Padre, che lo vuole come espressione della sua “giustizia”, per noi uomini e per la nostra salvezza. La giustizia di Dio non è affatto quella forma di castigo con cui noi vorremmo vedere l’intervento di Dio che volendo riportare le cose a posto, punisce gli avversari, riversando su di loro la sua giusta ira. Dio invece esprime la sua giustizia tendendo la mano all’uomo, compreso colui che fa del male e lo fa anche alla sua persona, perché si ravveda, si converta, si rinnovi. Già nell’atto del tradimento di Giuda e nel rinnegamento di Pietro e dell’abbandono da parte dei discepoli, Gesù ha una parola amichevole per colui che lo consegna, ha uno sguardo pietoso per colui che dice di non conoscerlo, ha un intervento di difesa per i discepoli che si disperdono senza essere inseguiti e colpiti, mentre il pastore va a morire per loro. Così l’esercizio della “Via Crucis” non deve essere solo una lamentosa considerazione dei dolori di Gesù, ma una riflessione salutare sul suo modo di affrontare il male e le cattiverie, mediante l’amore che si dona, mediante la risposta coraggiosa alla volontà di Dio, che chiede sempre il dono d’amore come risposta al male dell’uomo, perché l’uomo conosca un’altra maniera di vivere. Impariamo allora a considerare la passione di Gesù, che è pure la passione di tante persone, come il momento nel quale ci viene rivelato il vivere di Dio che può diventare il miglior vivere per l’uomo ….

Continuiamo la lettura del testo di LUIGI SANTUCCI, addentrandoci in uno dei momenti più significativi della Passione di Gesù, quello che in genere noi definiamo la sua “agonia”. Essa è il combattimento, tutto interiore, che può prendere ciascuno di noi, quando, attorno, il male e la violenza, l’inganno e la cattiveria hanno il sopravvento e sembrano schiacciare. Allo sconforto, allo smarrimento, può subentrare l’angosciosa prospettiva di non farcela e magari anche la dolorosa reazione di chi si sente abbandonato da Dio e di finire disperato nella propria solitudine amara. Anche Gesù nei momenti di preghiera che precedono le ore drammatiche del processo e della esecuzione della condanna, avverte il completo abbandono dei suoi e soprattutto quel silenzio misterioso del Padre, che non gli rinnova, come in altre occasioni, il suo compiacimento, il suo appoggio. La mano, tesa a sostegno, sembra mancare; la risposta alla sua implorazione d’aiuto non si fa sentire; solo un angelo compare con il calice da bere, a confermare che non c’è altra strada se non quella del sacrificio personale. Seguendo attentamente Gesù in questa sua preghiera, ci rendiamo conto del vero significato della preghiera: non viene avanzata per chiedere qualcosa a Dio, ma per disporre la propria volontà alla volontà di Dio, in un esercizio che lo porta ad essere davvero Figlio, cioè “tutto suo Padre”. E poi davanti al traditore, davanti a chi lo cattura, vien fuori ancora colui che si rivela disponibile, come è sempre Dio con noi. Gesù sembra preso nel vortice di avvenimenti che lo risucchiano; in realtà il vero vangelo si riconosce laddove si dice che è lui a consegnarsi nelle mani, perché è lui a vivere quel momento in piena disponibilità. Noi ci lasciamo impressionare da quanto succede, per sottolineare la perfidia di Giuda, la debolezza dei suoi, la brutalità di gente che pensa di essere forte solo perché, in gruppo e col favore delle tenebre, riesce ad avere la meglio su di uno. Ma il più grande è Lui e lo è nel dono che fa di sé!

                                                   1- GESU’ E’ TUTTO SOLO

Qui lo scrittore vuole mettere in risalto la completa solitudine di Gesù nelle ore notturne della preghiera. Gli amici non ci sono perché dormono. Il Padre non si fa sentire in quel momento. Gesù è davvero solo, con la sua angoscia!

IL SILENZIO

Incominciò ad aver paura e a rattristarsi. Leggi tutto “MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI”

MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI

A CENA: Prendete e mangiate,

questo è il mio corpo offerto Per voi1

INTRODUZIONE

La “Via Crucis” è una devozione molto popolare, che si è affermata da noi sull’esempio di quanti, andando in Terra Santa, camminano per le vie di Gerusalemme sulle quali sono segnate le tappe del percorso fatto da Gesù, una volta uscito dal palazzo del Pretorio, per salire la collinetta del Calvario. Quando questo cammino non è più possibile là, si diffonde da noi la stessa cosa, con la creazione, soprattutto in alcune zone montuose, dei percorsi che altri pellegrini possono fare, meditando sulla Passione di Gesù. E poiché l’itinerario è faticoso, si creano delle fermate, chiamate stazioni, durante le quali si eleva il pensiero ai dolori di Cristo. Le stazioni, poi, vengono segnalate da alcune immagini capaci di suscitare la compunzione e di favorire la meditazione e la preghiera. In genere queste fermate richiamano alcuni episodi evangelici, ma non vengono mai a mancare anche altri che il vangelo ignora e che la devozione popolare evoca, come possono essere le probabili cadute, come può essere l’incontro con la Madre, come è il particolare della Veronica, legata all’immagine sul panno, che si dice proveniente come reliquia dalla Palestina. Di fatto, trattandosi del cammino che conduce Gesù verso il Calvario, le stazioni mettono in risalto questi momenti. Oggi si tende ad ampliare la meditazione su altri momenti delle ore drammatiche della Passione di Gesù, facendo sempre affidamento alle immagini, che noi possiamo ricavare non solo dalla figure dei quadri appesi alle pareti della chiesa, ma anche alle opere d’arte, e, ultimamente, anche alle espressioni di altri generi, come sono le musiche, le immagini da film, le opere di letteratura e di poesia. Se tutto concorre al bene e alla edificazione spirituale, anche queste espressioni possono servire perché il nostro cammino, sempre più virtuale e non più esercizio fisico, sia un autentico accompagnamento ai dolori del Signore, ma soprattutto al suo messaggio di vita e d’amore che deve risultare più evidente. Il Signore non vuole che noi soffriamo, ma vuole che nelle nostre immancabili sofferenze, ci dimostriamo, come lui, capaci di continuare ad amare, a servire il disegno del Padre, a rivelare da noi lo Spirito, a manifestare un vivere all’insegna del bene, del dono, della generosità, della vera passione. Ciò che contempliamo, ciò che meditiamo, ciò che riviviamo deve aiutarci a concepire la sua e la nostra passione come il modo migliore di vivere. Tutte le volte che facciamo la Via Crucis entriamo in questa sua Passione, che dobbiamo fare anche nostra, sapendo che essa è il vivere di Dio e deve diventare il vivere dell’uomo..

Qui ci lasciamo condurre da “Una vita di Cristo”, scritta dal romanziere milanese, Luigi Santucci (1918-1999), con cui egli ci offre una rilettura dei vangeli, in chiave moderna. Lo scrittore ripercorre la vita di Gesù, come se si trovasse anche lui in quelle situazioni e ci fa sentire presenti in quei momenti, anche perché il Signore è sempre con noi e vive ogni giorno il suo vangelo che trova carne nella nostra carne e diventa spirito e vita nel nostro spirito e nella nostra vita. Dovendo fare il percorso della Passione, andiamo a cercare alcune pagine che riguardano quei momenti. Non sono state scritte per un esercizio come quello della Via Crucis, ma noi ce ne possiamo avvalere per trovare nelle sue parole qualche suggestione che ci faccia desiderare sempre più l’incontro umano con colui che è Dio, essendo uomo, e che fa diventare sempre più figli di Dio, coloro che da soli resterebbero sempre poveri uomini, gravati dal male. Queste parole, molto umane, possono elevare lo spirito a farci desiderare sempre più lo Spirito del Signore. Di fatto in questo primo momento ci fermiamo dentro il Cenacolo, dove si consuma il mistero eucaristico, che è già introduzione al grande evento pasquale: Gesù ci prepara al trauma della violenza successiva, insegnandoci a leggere in quei momenti drammatici più che il tradimento di Giuda, la consegna che Gesù fa di sé; più che l’abbandono e il rinnegamento dei suoi, il desiderio che lui ha di vivere per noi; più che la cattiveria degli uomini, la bontà di Dio che sacrifica suo Figlio..

1 – GESU’ DESIDERA STARE CON I SUOI AMICI

Lo scrittore insiste sul desiderio che ha Gesù di stare a tavola con i suoi, senza nulla nascondere della passione imminente. E su questo non vuole essere contraddetto. Noi lo dobbiamo seguire su questa strada. Ma ce la faremo? Almeno fino a quando è possibile resistere … Leggi tutto “MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI”

DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO

DANTE E FIRENZE: UN AMORE TORMENTATO

Il rapporto tra Firenze e il suo più noto cittadino, che è anche il suo massimo poeta, è piuttosto burrascoso, tormentato, non ancora del tutto sopito, se si pensa al fatto che lui non vi è sepolto e che non vi troverà mai sepoltura. E le polemiche per questo motivo persistono. Dante è vissuto in anni molto agitati, in cui le lotte intestine alla città erano frequenti, e soprattutto molto sanguinose, tali da travolgere lo stesso poeta, che non vi troverà pace. E tuttavia, per la sua città, Dante coltivò un grande amore, anche a registrarne le degenerazioni, ritenute insanabili. Anche quando sembra che dalle invettive sprigioni odio, risentimento, malanimo, in realtà per Firenze c’è sempre amore, quello che lo fa essere capace di riconoscere, anche agli avversari irriducibili, quella forma di grandezza che fa stagliare bene le figure dei suoi personaggi.

Nei confronti di Firenze egli tende a divenire “Laudator temporis acti”, e perciò ammiratore del buon tempo andato, che sarebbe bello ripristinare, senza mai riuscire a farlo. Evidentemente la città è in fermento e in trasformazione, come ogni realtà umana, in ogni tempo. Ma qui, forse, l’accelerazione per questi mutamenti appariva notevole, anche per gli interessi di tipo economico e finanziario che erano messi in campo.

Firenze era indubbiamente in rapida trasformazione per un accumulo di denaro, che risultava quanto mai consistente e ad ampio raggio dentro la sua popolazione. Gli appetiti apparivano smodati, ma anche le trasformazioni sociali erano rapide e tali da non essere facilmente controllate e controllabili neppure dentro istituzioni politiche forti. Anzi, è proprio il sistema istituzionale che non funziona, e ne sono vittime i cittadini stessi; ne risulterà vittima lo stesso Dante, proprio all’apice della sua carriera politica, che sarà anche la sua rovina.

Dante viene a trovarsi in un periodo di rapide trasformazioni politiche, sociali e soprattutto economiche, mentre sull’orizzonte i sistemi che avevano costruito l’assetto europeo nel Medioevo non tenevano più, e lui pensava di appellarsi ad esse per recuperare un po’ di pace, senza rendersi conto che il mondo andava in ben altre direzioni. Papato ed Impero, le colonne portanti del sistema medievale, vivevano uno scontro che li avrebbe esauriti, mentre i nuovi centri di potere, ma soprattutto le nuove energie economiche, stavano emergendo nei particolarismi diversi, e poi destinati allo scontro, e cioè le città, di notevole vivacità mercantile, e i regni periferici all’impero, che larga parte di storia avrebbero avuto con il loro assetto nazionale. Proprio l’anno della collocazione del grande ideale viaggio nell’oltretomba, narrato nel suo capolavoro, appare come l’anno del tramonto del Medioevo, quando, proprio in occasione del Giubileo, appaiono nuove forze all’orizzonte, per manovrare le quali è necessario un nuovo sistema istituzionale. Dante non sembra rendersi conto; e, forse anche perché travolto dalle circostanze che lo investono personalmente, pensa che sia possibile il rinnovamento facendo appello a ciò che in realtà è al tramonto. Leggi tutto “DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO”

I PATTI LATERANENSI

La questione romana: affare italiano o internazionale?

Se la questione romana si accompagna al Risorgimento italiano e ne diventa un elemento determinante, sia per il raggiungimento dell’unità nazionale, sia per avere la capitale del nuovo Stato, poi tuttavia essa rimane sul tavolo, anche quando scompare lo Stato Pontificio e sembra che lo Stato italiano ne venga fuori più consolidato e più che mai sicuro di aver affrontato al meglio il problema. Ma questo sussisteva, sia per le continue rimostranze da parte del Vaticano, in ragione del sopruso che era stato perpetrato nei confronti del Papa, sia per la tensione interna alla società italiana con il divieto ai cattolici da parte delle autorità religiose di partecipare alla vita nazionale, sia per i risvolti che se ne avevano a livello internazionale, dove il governo italiano non voleva nessun riconoscimento politico e nessuna partecipazione si rappresentanti del Papa, soprattutto per la paura che lì venisse sollevata la questione romana. Occorreva dunque mettere mano alla questione, che non era affatto risolta neppure con le Leggi delle Guarentigie, mai riconosciute dal Vaticano e tutte interne allo Stato italiano. Queste leggi sembravano riconoscere una certa sovranità diplomatica al papa stesso per l’esercizio della sua autorità religiosa, ma in esse si negava che questa autorità avesse anche risvolti di tipo politico. Così il Papa conservava la sua libertà dentro i palazzi, in cui si sentiva comunque prigioniero e defraudato del suo secolare potere temporale; e conservava pure un riconoscimento diplomatico che permetteva di mantenere ambasciatori dei Paesi che lo riconoscevano e nunzi apostolici con gli stessi Paesi. In questo lungo periodo (una sessantina d’anni) vissuto in una sorta di “limbo diplomatico”, non mancarono comunque i rapporti con altri Stati da parte della Santa Sede, la quale firmò con molti di essi dei Concordati, che erano indubbiamente accordi per le questioni religiose, ma di fatto risultavano patti internazionalmente riconosciuti.

E tuttavia, quando la Santa Sede cercava di presenziare a Conferenze in cui erano in gioco i rapporti fra gli Stati per cercare soluzioni diplomatiche ed evitare contenziosi armati, in assenza di una più stabile organizzazione (come sarà la Società delle Nazioni, prima, e l’ONU, poi), il governo italiano bloccò ogni forma di partecipazione ad esse del Vaticano.

Insomma, la situazione era bloccata e non sembrava che si potesse addivenire ad un accordo, pur sempre tentato, anche per certe forme di irrigidimento su entrambi i fronti. La stessa soluzione trovata nel 1929 risultava spesso precaria e sul punto persino di essere rimessa in discussione … Comunque la soluzione richiedeva un accordo che fosse trovato e sancito fra le due parti, e che godesse dell’avallo internazionale. La prova se ne ebbe in occasione della guerra (1940-45), quando la neutralità e la libertà del territorio vaticano vennero rispettate, pur con le tante incognite circa la tenuta nel tempo di questo rispetto.

Va altresì rilevato che i Patti lateranensi, siglati in un Palazzo riconosciuto come territorio vaticano e ancora oggi tale, erano di fatto due. Con il primo, il Trattato, si prendeva atto della nascita di un nuovo Stato con un suo territorio e una sua organizzazione; con il secondo, il Concordato, si disciplinavano le questioni di comune spettanza allo Stato e alla Chiesa sul territorio italiano e per i cittadini italiani. Se il primo rimase – e rimane – in vigore, anche dopo la trasformazione istituzionale dell’Italia, che da monarchia divenne Repubblica, il secondo fu sottoposto a revisione ed è passibile di questo anche per il futuro.

Il cammino per giungere alla Riconciliazione

Come si è arrivati a questo passo?

Il cammino di questa riconciliazione non è stato facile e ci sono state resistenze da ambo le parti, sia perché il Papa considerava l’occupazione del suo “Patrimonio” come una usurpazione, sia perché lo Stato italiano con le Leggi delle Guarentigie riteneva già sufficientemente garantito l’esercizio del magistero pontificio e della sua sovranità, anche senza un territorio su cui governare. Di fatto nessuno entrò nei Palazzi Vaticani e tuttavia essi erano comunque considerati territorio italiano.

Pio IX (1846-1878) così si esprimeva nella sua enciclica “Respicientes ea” del 1 novembre 1870

È noto inoltre che Noi, adempiendo al Nostro dovere, non solo Ci opponemmo sempre ai replicati consigli e alle domande fatteci, con cui si voleva che Noi, vergognosamente, tradissimo l’ufficio Nostro abbandonando e consegnando i diritti e i domini della Chiesa, o stipulando con gli usurpatori una nefanda conciliazione, ma, di più, Noi, a questi iniqui ardimenti e misfatti perpetrati contro ogni diritto umano e divino, opponemmo solenni proteste davanti a Dio e agli uomini, e dichiarammo incorsi nelle censure ecclesiastiche i loro autori e fautori, e, quando fu necessario, li fulminammo con le stesse censure.

Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica (ossia il temporale dominio di questa Santa Sede, posseduto non senza un evidente disegno della Divina Provvidenza in così lunga serie di secoli dai Nostri Predecessori) né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo cattolico per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni.

Qui il Papa si riferisce al testo di S. Ambrogio circa la vigna di Naboth e soprattutto alla sua resistenza al potere politico del tempo che voleva impadronirsi di alcune chiese milanesi per affidarle agli Ariani. Il vescovo milanese si oppose decisamente in nome di questa eredità e si rinchiuse in chiesa per evitare alla polizia di entrarvi …

Infine, obbedendo a quell’avvertimento di San Paolo “Quale comunanza della giustizia coll’iniquità? O quale società fra la luce e le tenebre? Quale patto tra Cristo e Belial?” (2Cor 6,14-15) apertamente e chiaramente manifestiamo e dichiariamo che Noi, memori del Nostro ufficio e del solenne giuramento che Ci lega, non prestiamo, né mai presteremo, l’assenso a qualunque conciliazione, che in qualunque modo distrugga o scemi i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede; parimenti proclamiamo che, pronti certamente con l’aiuto della Divina grazia nella Nostra grave età a bere sino alla feccia per la Chiesa di Cristo il calice che Egli per primo si degnò di bere per la medesima, mai sarà che Noi aderiamo e Ci pieghiamo alle inique domande che Ci faranno. Infatti, come il Nostro predecessore Pio VII diceva: “Far violenza a questo supremo dominio della Sede Apostolica, separare la sua temporale potestà dalla spirituale, disgiungere, svellere, scindere gli uffizi del Pastore e del Principe, null’altro è che voler distruggere e rovinare l’opera di Dio, nulla fuorché sforzarsi che la Religione abbia un danno grandissimo, nulla fuorché spogliarla d’un efficacissimo aiuto, affinché il suo sommo Rettore, Pastore e Vicario di Dio non possa conferire ai cattolici, sparsi in ogni angolo della terra e di là bisognosi di forza e di aiuto, quei soccorsi che si chiedono dalla spirituale potestà di lui, e che nessuno deve impedire” [Alloc. 16 marzo 1808]..

Anche con il suo successore, Leone XIII (1878-1903) le cose non cambiano: rimane il “Non expedit” per i cattolici in Italia, che impedisce loro la partecipazione alla politica attiva e quindi ai ruoli decisionali di governo nazionale, non invece a quello locale. Ma soprattutto in seguito alla Enciclica sociale più famosa, la Rerum Novarum del 1891, si aprono nuove prospettive di carattere sociale, che vengono quanto mai auspicate per una presenza più capillare e più incisiva nelle realtà locali, mentre rimane l’opposizione ad ogni forma di partito dei cattolici.

Leone XIII infatti, che pur ammirava l’entusiasmo dei giovani per i problemi sociali, ma non voleva sconfessare la trentennale operosità degli intransigenti, il 18 gennaio 1901 interveniva con l’enciclica Graves de communi, la quale proibiva ancora una volta ai cattolici di svolgere azione politica, concedendo loro di impegnarsi solo nel campo sociale. L’enciclica aveva lo scopo di chiarire il concetto di democrazia cristiana e di sedare così le discordie, divenute in proposito sempre più profonde, tra i cattolici italiani; si conservava quella espressione, ma si intendeva che essa indicasse essenzialmente una “azione benefica verso il popolo”. (Penco, p.477).

Gli anni tra i due secoli furono particolarmente vivaci soprattutto per il dibattito e per l’azione dei cattolici dentro la società e dentro il dibattito politico italiano, senza mai trovare comunque la possibilità concreta di giungere ad una conciliazione. Lo stesso Giolitti che raggiunse un’intesa con il cosiddetto “Patto Gentiloni”, per avere il sostegno dei cattolici in politica, non ne voleva sapere di scendere a patti con la Chiesa, anche per la sua formazione fortemente liberale che voleva la Chiesa relegata nelle sacrestie con la sola possibilità di animare opere benefiche nel campo sociale. Solo alla vigilia della guerra si faceva strada l’ipotesi di ottenere l’internazionalizzazione della Legge delle Guarentigie. Ma non si andò molto oltre ….

Anche il pontificato di Benedetto XV (1914-1922) non fu sottratto alle asprezze polemiche legate alla questione romana: la sua neutralità nella guerra appariva come una presa di posizione ostile all’Italia e favorevole alle Potenze degli Imperi centrali; e negli Accordi di Londra per l’entrata dell’Italia in guerra a fianco dell’Intesa, all’articolo 15 si faceva proprio riferimento alla Santa Sede per impedirle di partecipare alla Conferenza di pace, come avvenne …

Patto di Londra (26 aprile 1915)

L’articolo 15 affermava: “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione dell’Italia a tutte le proposte tendenti ad introdurre un rappresentante della Santa Sede in tutti i negoziati per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente guerra“.

Questo articolo provocò un profondo risentimento nel mondo cattolico. Secondo il filosofo Georges Sorel forse gli americani non si sarebbero così facilmente lasciati trascinare ad abbracciare la causa jugoslava, se i numerosi cattolici degli Stati Uniti non fossero stati ostili all’Italia per colpa di questo articolo. La ragione di fondo dietro l’azione del governo italiano e soprattutto del Ministro degli Esteri Sonnino di voler impedire che la Santa Sede superasse l’isolamento politico partecipando a negoziati di pace, era il timore che la diplomazia vaticana potesse risollevare la Questione Romana ponendola come problema internazionale.

Quella a Versailles fu un’assenza senza precedenti, vista la costante presenza della Santa Sede ad incontri di tal genere, incaricati cioè di porre fine a periodi di conflittualità e a definire nuovi assetti delle relazioni internazionali …

È noto che la stretta connessione tra una partecipazione della Santa Sede alla SdN e la Questione romana era emersa già durante i lavori della Conferenza di Versailles, nei famosi colloqui che si tennero a Parigi fra il maggio e il giugno 1919, tra il capo del Governo italiano Vittorio Emanuele Orlando e l’allora segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari Bonaventura Cerretti, allo scopo di formulare proposte concrete per la soluzione della controversia tra la Santa Sede e l’Italia. In proposito, la posizione vaticana chiedeva, quasi come condizione pregiudiziale, la costituzione di un’entità statuale sotto la sovranità della Santa Sede garantita da una presenza di questa nella SdN, una membership che proprio la sovranità territoriale effettivamente esercitata avrebbe reso possibile. (Buonomo, p. 49.50)

Di fatto la Santa Sede, che pur era tenuta lontana dalle assise internazionali di quell’epoca, vedeva comunque accrescere la sua posizione, sia perché aumentavano le relazioni diplomatiche sia perché venivano stipulati nuovi Concordati, in un periodo del resto piuttosto burrascoso. In effetti erano nati in Europa nuovi Stati, e questi assumevano particolari caratterizzazioni con più o meno manifeste tendenze di tipo autoritario, che richiedevano, se non privilegi, comunque più ampi spazi di libertà di movimento per la Chiesa e per i cattolici.

E va pure riconosciuto che nel periodo postbellico la Santa Sede interviene ed è pure richiesta negli interventi per segnalare o per sentirsi coinvolta in alcune questioni e in alcune situazioni, che vanno anche ben oltre gli interessi di parte o dei suoi fedeli.

Il testo citato ricorda alcuni problemi che vedono l’attività diplomatica della Santa Sede e la vedono impegnata a sostenere anche situazioni dove non erano in gioco solo interessi legati al mondo cattolico …

La fame in Russia durante il periodo della guerra civile: la richiesta di Benedetto XV è di intervenire per lenire le sofferenze della popolazione russa.

La situazione delle minoranze e dei rifugiati: il caso dell’Ungheria che si vedeva privata dei suoi territori e di popolazione ungherese che veniva inglobata nella Romania e nella Jugoslavia, rivela una Santa Sede attenta alle questioni che poi esploderanno in seguito.

Le popolazioni dell’Asia Minore: l’azione messa in campo per i numerosi profughi che la guerra greco-turca aveva creato da ambo le parti, fa della Santa Sede un partner privilegiato.

Un’azione che mostra non solo la capacità della Santa Sede di operare sul piano internazionale, bilaterale e multilaterale, prima del 1929, ma come pure in quel momento storico essa fosse attenta alle questioni di rifugiati e profughi, operando in loro favore indipendentemente dall’appartenenza religiosa. (Buonomo, p. 61)

La questione dei Luoghi Santi in Palestina rivelava un interesse della Santa Sede, che faceva presente alla Società delle Nazioni alcune questioni, non solo e non tanto di difesa dei propri privilegi acquisiti, quanto piuttosto come si dovesse agire a livello internazionale, tenuto conto che molti luoghi santi in Terra Santa avevano un carattere particolare, che non si poteva definire sulla base della nazionalità.

La riforma del calendario gregoriano veniva avanzata per motivi di ordine commerciale, in riferimento alla questione della data della Pasqua da rendere fissa e non mobile, come succedeva e succede tuttora. Non se ne venne a capo di nulla. Ma è interessante sapere che la Società delle Nazioni sentiva la necessità di avere il parere della Santa Sede …

Ciò significa che, anche ad aver perso i territori e la sua immagine di Stato fra gli Stati, anche a trovarsi in difficoltà per l’opposizione italiana a dare spazio nel contesto internazionale, con la paura che si potesse sollevare la “ questione romana”, non solo a livello di alcuni Stati, ma anche di organizzazioni al di sopra delle nazioni stesse, la Santa Sede veniva presa in seria considerazione, segno inequivocabile che si conservava per essa una immagine che la metteva sullo stesso piano degli Stati. La cosa poi divenne scontata con il riconoscimento giuridico che emerse dai Trattati lateranensi.

I prodromi dell’evento

Non sono mai mancate le trattative per arrivare alla conciliazione, pur in presenza di discorsi pubblici che alimentavano invece la polemica.

Da parte delle autorità ecclesiastiche si continuava a sottolineare il sopruso commesso dalle autorità italiane e continuava ad essere in vigore la condanna ferma di Pio IX. Veniva pure raccomandato ai vescovi di non avere a che fare con le autorità in certi momenti, come potevano essere le visite del Re o di altri capi di Stato alle autorità italiane.

Da parte dei governi che si sono succeduti, non solo mancava l’autorità per addivenire ad una forma di soluzione; altre volte si manifestavano veri e propri ostacoli ad ogni forma di riconoscimento della Santa Sede come interlocutrice a livello internazionale.

Era evidente che con i governi di stampo liberale non era possibile alcun forma di conciliazione, per quanto se ne parlasse, anche perché, oltre alle componenti massoniche decisamente anticlericali, occorreva superare l’ostacolo delle diverse anime dei partiti di governo.

Anche quando compare Benedetto XV, già nella sua prima enciclica “Ad beatissimi Apostolorum” del 1 novembre 1922 diceva chiaramente

Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna spontaneo colà, donde volemmo prendere le mosse. È la parola di pace che Ci ritorna sul labbro; per questo con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell’attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società, affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non trattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il suo capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli a tutela della sua libertà.

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La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d’altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d’essere assicurati che il loro Padre comune nell’esercizio dell’apostolico ministero sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.

Al voto pertanto d’una pronta pace fra le Nazioni, Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti aspetti, alla stessa tranquillità dei popoli. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, alzarono più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.

Qui non si parla più di usurpazione e, di conseguenza, della condanna verso i governanti italiani. Qui è accorata invece la richiesta di poter contare ancora su una libertà di movimento, che consenta al Papa di essere al di sopra delle parti. Si tenga presente che siamo in un momento particolarmente grave, come quello della guerra in atto, durante la quale la Santa Sede poteva e doveva svolgere la sua missione senza dover risultare assolutamente di parte, come poi verrà accusato lo stesso Papa nei suoi interventi, compreso quello dell’agosto 1917, quando definì la guerra “un’inutile strage”.

Benedetto XV chiede chiaramente che si ponga fine a questo “stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa”: è evidente che si tende la mano affinché la anormalità venga sistemata … Non risulta che ci siano richieste di tornare allo stato precedente con il ripristino del potere temporale e con la restituzione dei territori usurpati. Si esprime invece il desiderio che il Papa possa essere davvero indipendente per svolgere la sua missione soprattutto a favore della pace.

Non sembrava possibile neppure con Mussolini, che era stato in gioventù un acceso anticlericale e che tale era rimasto anche dopo la sua espulsione dal partito socialista. Ciò che lui rappresentava dopo la guerra era l’anima nazionalista, che si faceva strada anche attraverso le forme violente e non faceva mistero del suo modo di concepire e di esercitare il potere. Ma non sono mancate affermazioni sulla questione romana che potevano far sperare in un esito come quello poi raggiunto nel 1929.

In un discorso al parlamento del 21 giugno 1921 si espresse in tal modo: “Affermo che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. Se, come diceva Mommsen … non si resta a Roma senza un’idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale, che oggi esiste a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano. Penso … che se il Vaticano rinuncia definitivamente ai suoi segni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l’Italia profana e laica dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per le scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza sovrana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del Cattolicesimo, nel mondo … è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani”. (Nacci, p. 86-7)

Ovviamente ci vollero gli anni del consolidamento al potere da parte di Mussolini, il cui regime si può dire inizia con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, dopo la crisi dovuta all’assassinio di Matteotti. Con l’assetto dittatoriale entrano in vigore anche leggi che vogliono estirpare la pluralità dei partiti, ma anche le società segrete di stampo massonico. Così le due parti appaiono più libere nell’intavolare trattative.

Queste “basi” furono poste il 6 agosto del 1926 quando il Papa autorizzò l’avvocato fiduciario del Vaticano Francesco Pacelli, fratello del futuro Pio XII, a conferire con il consigliere di Stato, Domenico Barone, circa la soluzione della Questione romana; colloqui che iniziarono due giorni dopo nella casa di Barone (Nacci, p. 89)

La discussione richiese tempo anche perché nel frattempo sorgevano problemi che rischiavano di far naufragare l’intesa: la dittatura non poteva permettere che la Chiesa avesse campo libero per iniziative di carattere formativo nei confronti della gioventù; non si metteva in discussione il catechismo, ma non si potevano accettare forme di attività diverse, come i gruppi Scout o l’Azione Cattolica, e naturalmente la Chiesa riaffermava in continuazione la sua imprescindibile azione educativa. C’era poi la questione del Concordato, che già la Chiesa andava realizzando con i vari Stati europei e del mondo in quel periodo, e che si voleva abbinare alla soluzione della questione romana.

Due relazioni del consigliere di Stato Domenico Barone del 12 aprile e dell’agosto 1928 fanno luce non solo sulla buona volontà di quell’esemplare funzionario, ma anche sugli argomenti verso cui le due parti erano più sensibili. Le difficoltà non mancavano. In Vaticano, infatti, si era urtati per la presenza di spie fasciste; a Mussolini d’altra parte, continuavano a giungere proteste – anche da parte di D’Annunzio – per i progetti di conciliazione ormai nell’aria. Il consigliere Barone svolse quindi, a questo proposito, un’attività intensissima fino a compromettere la propria salute, mentre Pio XI già nel marzo sembrava disposto a non irrigidirsi per questioni di territorio, pur protestando, il 25 marzo, contro il tentativo di monopolizzare l’educazione della gioventù e contro le persistenti vessazioni ai danni dell’Azione Cattolica. (Penco, p. 527)

La firma e la ratifica dei Trattati

Alla firma si arriva l’11 febbraio 1929, anche se poi la ratifica avviene il 7 giugno dello stesso anno. Nel momento stesso in cui la firma avveniva nel Palazzo Apostolico Lateranense, il Papa teneva un discorso in cui affiorano anche i problemi che accompagnano questa decisione …

Dall’allocuzione di Pio XI ai parroci romani e ai predicatori della Quaresima

(11 febbraio 1929)

Ed ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare. Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.

Un Trattato inteso a riconoscere e, per quanto « hominibus licet », ad assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) e che evidentemente è necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond’è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena.

Un Concordato poi, che volemmo fin dal principio inscindibilmente congiunto al Trattato, per regolare debitamente le condizioni religiose in Italia, per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano.

Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne «Urbi et orbi » dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.

Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri. Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.

Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.

Come si avverte da queste parole c’è la coscienza che l’atto è grande e solenne e comunque foriero di critiche e di prese di distanza che si muovono contro la sua persona e le sue scelte. Ne è consapevole (e un po’ amareggiato), ma nel contempo appare quanto mai deciso ad andare fino in fondo per cogliere questa opportunità e mettere fine al contenzioso che non si poteva trascinare oltre con grave pregiudizio per la Chiesa stessa. Le critiche che gli venivano mosse non riguardavano solo il riconoscimento dell’Italia fascista, visto che il Trattato veniva fatto con Mussolini, ma anche per la rinuncia ai possedimenti territoriali che da secoli appartenevano alla Chiesa.

Se con Mussolini fu più facile ottenere la Conciliazione, non per questo il Trattato aveva le garanzie di quel governo, perché il Trattato, di natura internazionale, avveniva con lo Stato Italiano e quindi, propriamente con la persona del Re, di cui Mussolini era solamente il plenipotenziario, come lo era alla firma per il Vaticano il Card. Gasparri e non il Papa stesso. Se poi esso rimane vincolato alla Costituzione repubblicana, ciò significa che davvero questo Trattato è con lo Stato e non con un regime che è pur sempre transeunte. Per quanto riguarda la rinuncia al territorio “usurpato”, ora si riconosceva che era sufficiente al Papa una vera indipendenza, garantita con un minimo di possedimenti che permettessero l’assoluta estraneità allo Stato italiano. Col tempo la cosa si rivelò una autentica liberazione da una zavorra pesante: il Papa era libero, senza avere le incombenze di un governo temporale, che richiede particolari organismi e leggi …

Maggior entusiasmo Pio XI esprime al Corpo diplomatico qualche giorno dopo, riconoscendo che è nato un nuovo soggetto politico destinato a salvaguardare la missione della Chiesa e del magistero petrino, più ancora di quanto non lo si poteva pensare con la forma precedente del Patrimonio di S. Pietro, ereditato dalla storia.

Discorso di Pio XI al Corpo diplomatico (9 marzo 1929)

Ce n’è un’altra che continua dall’11 febbraio a riempire i paesi e il mondo intero. È questo grande, incomparabile (e forse finora mai verificato) plebiscito, non solo d’Italia, ma di tutte le parti del mondo. Non c’è, in questa parola, esagerazione alcuna. Noi stiamo ricevendo lettere e telegrammi non solo da tutte le città e villaggi d’Italia, non solo da tutte le città e da molti villaggi di tutti i paesi di Europa, ma anche dalle due Americhe, dalle Indie, dalla Cina, dal Giappone, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, dal Nord, dal Centro, dal Sud dell’Africa, dall’Alaska, dal Mackenzie, dall’Hudson, come se si trattasse di un avvenimento del luogo.

Fatto veramente impressionante e che Ci autorizza a dire che non solo il popolo, tutto il popolo d’Italia, ma che i popoli del mondo intero sono con Noi: un vero plebiscito non solamente nazionale, ma mondiale. Ecco la garanzia, la più imponente che si possa pensare ed immaginare. In questo vasto e immenso plebiscito non possiamo non cogliere e rilevare alcune voci che Ci hanno profondamente commossi. È anzitutto la voce del piccolo numero dei sopravvissuti, nei vostri vari paesi, tra i valorosi che, nel corso degli anni, in spirito di fede cattolica hanno messo la loro vita a disposizione e a difesa della Santa Sede. Voi direte a questi valorosi che il Santo Padre ha pregato e applica delle Messe per tutti i loro morti, che sono anche i Nostri morti, indimenticabili.

Appare chiaro, a proposito dei Trattati, che si tratta di due documenti molto diversi, a cui poi si deve aggiungere anche la Convenzione finanziaria, con la quale si fissa l’indennizzo alla Santa Sede da parte dell’Italia, che pur aveva garantito con le Guarentigie un compenso annuale, sempre rifiutato da parte del Papa.

Il Trattato fa nascere di fatto un nuovo Stato del tutto sovrano, la cui indipendenza viene garantita a livello internazionale.

Il Concordato ovviamente riguarda i due Stati in riferimento all’esercizio religioso sul territorio italiano. Questo è stato sottoposto a verifica e ad una nuova intesa nel 1984.

L’impressione suscitata da un accordo così importante e così lungamente atteso fu senza dubbio di grande risonanza, in Italia e all’estero, come dimostrò la vasta eco nella stampa nazionale e internazionale. Altrettanto grande fu ovviamente, secondo i diversi punti di vista, la disparità di giudizi, per quanto prevalessero decisamente quelli positivi. A distanza di un sessantennio dall’occupazione italiana di Roma e della definitiva cessazione del potere temporale, i rapporti tra Stato e Chiesa ricevevano una regolamentazione che poteva dirsi soddisfacente. Vi fu, naturalmente, chi volle andare anche oltre l’intenzione della parti contraenti e dello stesso Pio XI: così, si parlò di un avallo senza riserve dato dalla Chiesa al regime fascista. (Penco, p. 529)

La Conciliazione venne disapprovata da quegli antifascisti – in Patria e all’estero – che deprecarono le trattative intercorse tra la Chiesa e un regime totalitario … Ma di fatto, cessata la dittatura, i Patti Lateranensi vennero accolti tali e quali, come trascendenti nettamente le circostanze e le persone che vi avevano avuto parte, nella costituzione stessa del nuovo Stato democratico e repubblicano e ciò con l’appoggio degli stessi partiti di sinistra (Penco, p. 530).

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Conclusioni

Di fatto noi abbiamo nella lettura storica di questi Patti lo stretto legame fra il Trattato, costitutivo dello Stato Vaticano, e il Concordato che regola invece i rapporti fra Chiesa e Stato in Italia. “Simul stabunt, simul cadent” – si diceva allora. E c’è pure chi supporne che il giorno della morte di Pio XI (10 febbraio 1939), che era vigilia del decimo anniversario dei Patti, ci fosse già un documento pontificio scritto, con cui, prendendo le distanze dal regime fascista, anche per le sue leggi razziali, si volesse far cadere il Trattato. Ovviamente il documento con c’è ed è da verificare che possa essere stato scritto, anche se non entrò mai in vigore con la morte del suo estensore. Penso che l’impugnazione del Concordato non volesse dire che si dichiarava nullo anche il Trattato con il quale nasceva lo Stato della Città del Vaticano. Questo Trattato ha dimostrato la sua forza anche a livello internazionale in occasione della guerra, quando anche nei mesi di occupazione nazista, i territori dello Stato pontificio, per quanto ristretti, non sono stati invasi e sono diventate isole di libertà per quanti trovarono rifugio e scamparono al pericolo di cadere sotto la polizia politica o sotto le SS naziste. Sta di fatto che nella discussione all’Assemblea Costituzionale, i Patti, nel loro insieme, entrarono a far parte della Costituzione stessa, a dimostrazione che essi non venivano considerati come l’espressione di un regime, ma come un vero e proprio trattato fra due Stati, ben oltre la contingenza storica di un governo oggi sottoposto alla damnatio memoriae.

Ma se il Trattato non è mai caduto, il Concordato è stato sottoposto a revisione. Non poteva essere diversamente per lo Stato italiano che si trovava in presenza di accordi costruiti, qui sì, secondo un sistema totalitario. La revisione era ritenuta necessaria per conformarsi alla legge fondamentale dello Stato, che si presenta democratico. Nel momento più delicato della sua storia non si volevano aprire ulteriori ferite e anche il Partito comunista si adeguò ad accettare entrambi i documenti dei Patti. Se poi si addivenne alla revisione, questa fu pure voluta dalla Chiesa che voleva anch’essa rileggere il Concordato sulla base delle suo nuove Costituzioni redatte con il Concilio Vaticano II.

In genere nelle considerazioni di carattere storico che si fanno sui Patti lateranensi si tende a sottolineare che essi mettono la parola fine al contenzioso tra Italia e Vaticano in seguito alla questione romana, come se si trattasse di un problema bilaterale. Certamente è così per il Concordato. Ma per il Trattato esso ha di fatto l’avallo internazionale, perché da allora viene riconosciuto nel concerto delle nazioni, che c’è pure spazio per una realtà politica e giuridica come lo Stato del Vaticano. Ora esso, anche con un porzione minima di territorio, ha in realtà un grande peso nel sistema internazionale e ce l’ha in forza della sua assoluta indipendenza e sovranità. Se questa era di fatto sospesa nel periodo fra il 1870 e il 1929, nonostante le leggi delle Guarentigie che volevano in maniera unilaterale garantire una sovranità di fatto limitata, ora invece essa viene universalmente riconosciuta. Ciò che oggi esiste è ben diverso da ciò che la storia aveva consegnato al Papa nel corso dei secoli, certamente per l’assetto territoriale, ma anche per il tipo di esercizio di potere che poneva il Papa accanto ad altri Stati, con i loro medesimi problemi di natura sociale e strutturale. Oggi il Papa possiede ancora un territorio su cui governa in maniera totalmente autonoma, ma questo tipo di Stato non ha bisogno di quel genere di infrastrutture che sono invece necessarie altrove. Perciò il Vaticano è ben diverso da quello che era prima del 1870; ma la sua autorità e il suo peso è di gran lunga superiore al precedente e la storia recente ha dimostrato che questa indipendenza ha giovato certamente all’esercizio della sua missione, soprattutto senza l’onere di dover svolgere compiti non propriamente suoi e non propriamente necessari a questa sua missione.

BIBLIOGRAFIA

Pontificio Comitato di scienze storiche- I PATTI LATERANENSI in occasione del XC anniversario (1929-2019)- Libreria Editrice Vaticana – 2019 – 

Gregorio Penco – STORIA DELLA CHIESA IN ITALIA (volume II) Jaca Book – 1977

LA FINE DEL POTERE TEMPORALE DEI PAPI.

IL PROBLEMA DELLA “QUESTIONE ROMANA” 

150 anni fa, il 20 settembre 1870, data storica per noi italiani, i bersaglieri entravano dalla breccia di porta Pia, a Roma, facendo decadere di fatto lo Stato Pontificio, e, con esso, come si pensava, anche il potere temporale. In realtà potremmo dire che quanto territorialmente rimaneva di quello Stato, erede di un ingrandimento perseguito fino al XVI secolo, veniva sì occupato dal Regno d’Italia, ma non per questo si poteva dire che veniva a decadere quella forma di autonomia, che di fatto i Papi nel corso della storia si sono costruiti, anche con il possesso e il governo di un territorio progressivamente ampliato.

Se nel passato appariva necessario per il Papa detenere anche il possesso di un territorio per garantirsi un’autonomia, poi di fatto ci si accorse che l’ufficio magisteriale e primaziale di Pietro poteva conservarsi anche senza quel tipo di Stato che aveva ereditato dalla storia. L’aveva ereditato anche per una assenza di potere a Roma, ormai divenuta simbolo di un impero millenario.

Certo, proprio a partire da ciò che la storia aveva lasciato in eredità, appariva pur necessario che il Papa, per continuare la sua missione nel solco di questa tradizione, avesse sempre bisogno di una pur minima extraterritorialità rispetto a ciò che stava sorgendo nell’Ottocento, e cioè uno Stato unitario, come quello italiano, che risultava essere la conclusione di una lunga storia. Se per gli altri Stati della Penisola, assimilati dal Regno di Sardegna (che sosteneva di essersi messo in campo per questa causa, mentre in realtà perseguiva la tradizione dell’ingrandimento territoriale in Italia), era senza conseguenze sul piano storico e politico, per Roma c’erano di mezzo tante altre questioni, sulla base del particolare tipo di Stato che risultava essere lo Stato Pontificio.

Non si parlava per gli altri Stati regionali d’Italia di una questione particolare, come invece già da tempo si parlava di una “questione romana”, quella, cioè, che richiedeva un intervento per mettere anche questo territorio e la sua gente in condizione di poter costruire una propria entità politico-statuale, ben consapevoli che la commistione fra il politico e il religioso avrebbe impedito uno sviluppo secondo i criteri che si stavano realizzando un po’ dovunque. E d’altra parte, anche oltre il mondo cattolico, c’era pure la convinzione che il Papa dovesse godere di una sua indipendenza, finora assicurata anche dalla gestione di un territorio da amministrare.

L’avvenimento aveva assunto fin dall’inizio una dimensione notevole per il suo carattere polimorfo, internazionale, nazionale, diplomatico, politico, religioso, memoriale e militare. Ben pochi altri eventi avevano avuto una tale risonanza: era stato infatti necessario trasformare una problematica internazionale, legata all’universalità del potere spirituale del papa, in una questione di politica interna, con l’abbattimento del potere temporale; dovevano essere affrontati i problemi legati alla “questione romana” che duravano da decenni; occorreva definire i rapporti tra la Chiesa e lo Stato laico e unificato e, infine, armonizzare gli aspetti politici e militari della conquista di Roma. ((HEYRIES, p. 9)

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Giuseppe: UOMO GIUSTO, MODELLO DI OGNI CREDENTE, CUSTODE DI GESU’ E DI MARIA.

UNO SGUARDO NELLA                      CASA DI NAZARETH

Dopo i racconti che riguardano la nascita e “i primi passi” di Gesù, di Giuseppe non si dice più nulla, se non che la famiglia, in seguito al suo “esodo” dall’Egitto, si era trasferita a Nazareth, come se si trattasse di una località su cui ripiegare, non potendo stare in Giudea, dove continuavano ad imperversare gli eredi di Erode. Eppure Nazareth dovrebbe essere la casa abituale di Giuseppe e di Maria! E certamente diventa la residenza abituale di Gesù, visto che poi lui si porta appresso questa qualifica, non del tutto onorevole, se in genere quelli della Galilea non godevano di grande considerazione tra i Giudei.

Poiché Luca dice che aveva circa 30 anni, quando comparve sul Giordano per il battesimo, e che era ritenuto figlio di Giuseppe, anche a non essere stato generato da lui, dovremmo supporre che Gesù sia rimasto in quel villaggio fino a quella età, non avendo alcuna notizia di quel lungo periodo, se non l’episodio di lui dodicenne, avvenuto però a Gerusalemme, nel tempio.

In maniera riassuntiva, Luca parla di una permanenza in quella casa, dove Gesù cresceva in età, sapienza e grazia, rimanendo sottomesso ai suoi genitori. Non si dice nulla propriamente del suo lavoro, una volta avviato ad esso – si suppone – dal padre, come se il suo apprendistato l’abbia fatto nella bottega di colui che poi il vangelo definisce “carpentiere”, per cui Gesù stesso era detto “figlio del carpentiere”. Qui si dovrebbe pensare che la figura di riferimento in questa casa sia stato Giuseppe, sul quale però il vangelo non dice molto e sul quale non lascia trasparire nessun episodio particolare e nessuna parola. Anzi, sembra quasi che, se già in precedenza egli non avesse compiti di rilievo, qui appariva sempre più a margine, fino a scomparire del tutto, come se al momento del distacco da casa di Gesù, Giuseppe non fosse più di questo mondo. Anche ad essere poi designato come “patrono dei morenti”, anche ad essere spesso rappresentato nel letto d’agonia circondato dai suoi cari, noi non abbiamo notizia alcuna della sua dipartita da questo mondo. Giuseppe rimane comunque legato, di fatto, a Nazareth e alla casa dove abitava con la sua famiglia. E qui deve aver trascorso alcuni anni. Solo dopo la sua scomparsa, a quanto pare, Gesù esce di casa.

Per quanto le notizie scarseggino, si potrebbe tentare di chiarire qualcosa a proposito di questo lungo periodo, sempre partendo dai testi evangelici, quelli canonici e quelli apocrifi, con quelle particolari letture che ne vengono date anche dalla devozione diffusa, che ha nelle opere artistiche una particolare forma espressiva, sia perché si rifanno ai vangeli, sia perché cercano di parlare agli occhi e al cuore della gente con una comunicazione più diretta.

Naturalmente sia della casa, sia della bottega, sia delle relazioni familiari che vi si esprimevano, noi qui dobbiamo cercare si far emergere meglio la figura di Giuseppe, che appare spesso “sacrificato”, perché l’attenzione è rivolta giustamente altrove, privilegiando Gesù e sua madre.

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